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Un zoo cellulare per valutare il rischio trasmissione coronavirus (e non solo) agli animali

La zoonosi si ha quando un agente infettivo (non necessariamente patogeno) fa il salto di specie divenendo capace di infettare un ospite diverso da quello che ha come bersaglio naturale.

Restringendo l'alveo dei patogeni ai virus è più semplice capire quanto cambiare il proprio bersaglio possa essere problematico o perfino impossibile.
Il caso più estremo è quello di virus batterici (batteriofagi) per i quali è impossibile, qualunque mutazione subiscano, infettare in modo produttivo (generare progenie) una cellula eucariote. I virus sono di fatto dei parassiti che "prendono possesso e riprogrammano" il macchinario metabolico cellulare per creare copie di se stessi. Se in genere è già sufficiente cambiare tipo di cellula all'interno di uno stesso organismo per rendere il programma codificato dal virus non utilizzabile in quel dato ambiente, passare da una cellula procariote (batteri) a eucariote (tutto il resto del mondo cellulare) è qualcosa di ancora più estremo che ipotizzare di leggere un manuale con istruzioni scritte in cuneiforme da parte di Azteco.
Il problema del salto di specie vale anche tra organismi strettamente imparentati come ad esempio scimpanzé e umani; il virus SIV da cui ha avuto origine l'HIV è passato attraverso innumerevoli infezioni fallite o debolmente efficaci prima che da una di queste emergessero (evento datato alla prima metà del secolo scorso) mutanti capaci non solo di generare progenie pienamente funzionante dalle cellule umane infettate ma, questo il vero passaggio chiave, una progenie capace di infettare altri umani. Per rendere possibile la zoonosi sono necessarie sia mutazioni che rendano la proteina "di aggancio" sulla superficie virale capace di interagire con un dato recettore cellulare (omologo ma non identico a quello usato originariamente) ma anche aggiustamenti nel programma di "dirottamento" del  macchinario cellulare.

Il discorso vale ovviamente anche in senso opposto (zoonosi inversa) cioè quando siamo noi a trasmettere il patogeno ad altri animali.
Molti virus (ad esempio il coronavirus del raffreddore) comuni negli umani non sono in grado di infettare i nostri animali domestici mentre in altri casi (il virus influenza H1N1 può essere trasmesso ai gatti) la trasmissione è possibile.
Nell'epoca pandemia da SARS-CoV-2 questa possibilità assume una maggiore valenza perché, se dimostrata la trasmissione umano→animale, porrebbe in primo piano il rischio concreto di non riuscire ad eradicare questo virus. Se infatti ci sono voluti molteplici contatti pipistrello-umani per dare origine ad un ceppo capace di infettare in modo produttivo (il virus originario non infettava bene gli umani), la dimostrazione di una infezione del ceppo umano ad altri animali ad alta frequenza di contatto (da allevamento o domestici) avrebbe un immediato impatto sia economico che biologico con la creazione di potenziale serbatoio del virus che persisterebbe anche qualora tutta la popolazione umana fosse stata vaccinata in modo efficace (meno che improbabile) da cui il virus potrebbe "tornare indietro".

Tipico esempio di animali infettati dal "nostro" SARS-CoV-2 sono i visoni i cui allevamenti in Olanda e Danimarca hanno dovuto essere distrutti dopo la scoperta dell'infezione. Altri esempi di animali infettati dai custodi umani sono gorilla, tigri e leoni ospitati negli zoo; sono stati segnalati anche casi sporadici tra i pets

Determinare quali specie sono a rischio infezione è quindi importante sia a scopo preventivo che di monitoraggio. Ad oggi tali test sono possibili solo mediante infezione diretta sugli animali, osservazioni sul campo o aneddotiche; non una soluzione ottimale sia per mere ragioni di fattibilità e di costo che per una intrinseca limitazione del campo di indagine.

Una soluzione pratica, pragmatica e tutto sommato economica, viene da ricercatori dell'università di Berna che hanno sviluppato quello che potremmo definire un mini-zoo cellulare.
Risultati del test condotti sul mini zoo cellulare per testare la capacità del ceppo SARS-CoV-2 umano di infettare altri animali. Altra immagine QUI.
(image credit: IFIK / UniBE)
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Tropismo dei virus SARS-CoV-2, influenza A virus (IAV) e influenza D virus (IDV) in colture di cellule epiteliali delle vie aeree infette di diverse specie di mammiferi.
(Image credit: Gultom, M. et al)

Si tratta di una collezione unica di linee cellulari derivanti dagli espianti dell'epitelio respiratorio di vari animali, messi in coltura e fatti crescere per essere poi congelati e tenuti pronti all'uso ogni volta che sia necessario testare la capacità infettiva di un dato virus.
Dai test condotti si è avuta conferma che il SARS-CoV-2 è in grado di infettare in modo efficiente le cellule dell'apparato respiratorio di scimmie e gatti. Sebbene questo sia una conferma di dati già noti, il test permette di identificare in tempi brevi le specie a rischio e attivare di concerto un sistema di monitoraggio (e magari in futuro una vaccinazione ad hoc) della diffusione di questo virus e di altri correlati.

In questa fase preliminare la biobanca cellulare contiene linee cellulari primarie di 12 specie animali che potrà essere "facilmente" espansa in futuro.

Fonte
- Susceptibility of Well-Differentiated Airway Epithelial Cell Cultures from Domestic and Wild Animals to Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2.
M. Gultom et al, Emerging Infectious Diseases, July 2021, 






Ridare la "parola" alle persone che l'hanno persa a causa di ictus o lesioni

Leggere la mente attraverso l’analisi dell’attività cerebrale è ancora lungi dalla possibilità attuali e porrebbe quesiti etici e di privacy non secondari (vi rimando a precedenti articoli sul tema, citati a fondo pagina).

Meno incerta e di piu immediato utilizzo è usare la tecnologia per cercare di restituire la possibilità di comunicare a persone paralizzate o con gravi lesioni cerebrali.

Credit: UCSF

Gli ultimi decenni di vita di Stephen Hawking sono un esempio di come al progredire della malattia si sia affiancato lo sviluppo di strumenti per consentire allo scienziato di continuare a comunicare e di fare scienza. 

Hawking perse definitivamente l'uso della parola nel 1985 in seguito ad una tracheotomia resasi necessaria per favorirne la respirazione. Al tempo conservava una certa capacità residua negli arti destinata, per le caratteristiche della malattia, a scomparire. Fu in questi anni che si cominciarono a testare sistemi per mantenere "aperto" il canale di comunicazione dello scienziato con l'esterno. Nel 1997 si comincio' ad usare sistema di comunicazione via computer sviluppato da Intel, che venne poi progressivamente migliorato, compresa l'aggiunta della voce, fino alla sua dipartita a 76 anni.

image credit: MARCO GROB/WIRED UK

Il sistema si basava sulla digitazione virtuale delle parole sullo schermo di un computer, controllato in un primo momento dalle dita. Passaggio successivo fu l'utilizzo di un sensore a infrarossi montato sui suoi occhiali che rilevava le sempre più deboli (con gli anni) contrazioni e movimenti nella guancia dello scienziato, e che fungevano da "interruttore" per attivare i comandi e l'utilizzo di una tastiera virtuale visualizzata grazie ad un tablet montato sulla sua sedia a rotelle. 
Il software permetteva al cursore di spostarsi tra righe e colonne finché arrivava alla parola desiderata, che veniva selezionata con un movimento della guancia. Per semplificare il processo il software includeva anche una funzione di completamento automatico capace di suggerire la parola. Fin da subito il software fu rilasciato come open source in modo da poter essere utilizzato gratuitamente da chiunque.


Grosso svantaggio di questi strumenti era la lentezza del processo e l'affaticamento per chi lo usava. Nel 2015 uno sviluppatore aveva creato, OptiKey, che permetteva di controllare l'interfaccia mediante il movimento degli occhi

In pratica una sorta di webcam che rileva la successione di lettere  nello stesso momento che la persona le visualizza, elaborandone la parola voluta. Nulla di nuovo in realtà se non che il nuovo modello era ora alla portata di tutte le tasche.


OptiKey. Video dimostrativo --> qui

Nel prossimo futuro si spera che questi dispositivi diventeranno reperti da museo sostituiti da tecnologie come quella ideata alla UCSF

Il concetto alla base è infatti "un passo oltre" ai precedenti: invece di intercettare il movimento degli occhi per computare le parole si va direttamente alla fonte, cioè il "pensiero della parola".

Da anni si sa che non solo l’azione meccanica (ad es. il movimento di un braccio) è preceduta dall’attività in alcune specifiche aree cerebrali ma anche che queste precedono la consapevolezza di “voler fare una data azione”

L’idea portata avanti dai ricercatori della UCSF è stata quella di sviluppare un dispositivo in grado di rilevare la “preparazione” dell’atto del parlare nel cervello e di tradurre questa attività in un testo scritto.

Andare alla fonte permette di saltare il blocco/danno a valle, nei circuiti neuromotori.

L’approccio non è nuovo nel suo genere essendo stato testato per convertire l’idea di fare un movimento in una serie di segnali che un computer traducevano nell'atto stesso (stringere la mano o afferrare un bicchiere) operato da una protesi o un braccio robotico.

A tale scopo bisognava pensare ad un sensore capace di intercettare e decodificare le onde cerebrali che nei soggetti normali comandano l’apparato vocale (ivi compresi i movimenti muscolari delle labbra, della mascella, della lingua e della laringe), traducendo il segnale nelle vocali e consonanti che formano la parola voluta.

Sviluppare sensori affidabili è un approccio multidisciplinare perché oltre al sensore (elettrodi) da posizionare in modo molto preciso, ci vuole un software adeguato e una fase di training con cui si educhi il software.

Punto chiave nella fase di sviluppo è stata la collaborazione volontaria di pazienti sofferenti di epilessia che avevano già in programma (allo scopo di mappare il punto di origine dei loro attacchi) una scansione della loro attività cerebrale

Esempio del caschetto usato durante i test per mappare l'origine degli attacchi epilettici.

Sviluppare il sistema partendo da questi soggetti invece che dai pazienti era essenziale in quanto dotati di una normale capacità di pensiero e di elaborazione vocale, con cui sviluppare sia il software che il corretto posizionamento degli elettrodi.


Finita la fase preparativa bisogna mettere alla prova il metodo su un soggetto incapace di parlare. Ad offrirsi volontaria una persona che quindici anni prima, a causa di un ictus al tronco cerebrale, aveva subito una paralisi diffusa con perdita della parola. Nei test gli elettrodi furono posizionati sulla superficie cranica in corrispondenza dell’area che controlla il linguaggio e si procedette alla messa a punto del programma calibrando la sua capacità di riconoscere il pensiero di parole semplici. In tutto 50 parole chiave utilizzabili in più di 1000 frasi.  

Un esempio è la risposta che appare sullo schermo del computer dopo che lo sperimentatore ha chiesto “Come stai oggi?” (“sto molto bene”) o “Hai sete?” (“no, non ho sete” ).

Il tempo necessario affinché la risposta compaia sullo schermo dopo la domanda è di circa 4 secondi. Può sembrare molto ma è un deciso passo avanti rispetto ai tempi di una risposta dettata dal movimento oculare.


I risultati sono stati pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine.

Se non vedi il video riassuntivo --> youtube (credit: UCSF)


Tra i vari vantaggi offerti da questo metodo, quello di potere essere utilizzato da persone con patologie sottostanti molto diverse tra loro (lesioni, ictus, SLA, …) purché, ovviamente, la capacità di pensare sia integra.


Ottenuta la prova di fattibilità, i ricercatori si sono dati l’obiettivo di migliorare la velocità, l'accuratezza e l’estensione del vocabolario riconosciuto dal dispositivo.

Quasi triviale, una volta raggiunti gli obiettivi prefissati, sarà integrare il tutto con un generatore vocale al posto dell’attuale testo a schermo.


Per una panoramica dei sistemi interfaccia cervello computer vi rimando al successivo articolo tematico.


Fonte

Neuroprosthesis for Decoding Speech in a Paralyzed Person with Anarthria.

David A. Moses et al, N Engl J Med 2021; 385:217-227




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Ripristinare, parzialmente, la vista grazie all'inserimento di proteine fotosensibili nella retina

Un uomo di 58 anni è tornato a vedere (qualcosa) dopo 40 anni di "buio" grazie alla terapia genica.
Non si tratta di una visione completa, limitata per ora al rilevare la presenza di oggetti su una superficie e che necessita di particolari occhiali, ma è un passo avanti sia rispetto alle condizioni di partenza che a alle attuali terapie.
Gli occhiali necessari per la visione insieme ad un "caschetto" per monitorare le aree cerebrali attivate
(Image credit: José-Alain Sahel et al via Nature Medicine)
La malattia causa della cecità acquisita è la retinite pigmentosa, una patologia ereditaria monogenica (anche se il numero di geni mutati causanti la malattia è di 71) che colpisce più di 2 milioni di persone a livello globale, il cui esito è sempre la morte delle cellule fotorecettrici della retina. Ad oggi l'unica terapia disponibile, limitata al caso in cui sia coinvolto il gene RPE65, prevede la sostituzione del gene mutato con la versione normale
 
Il nuovo approccio, portato avanti dalla GenSight Biologics e descritto su Nature Medicine, non "si cura" di quale sia la mutazione responsabile ma va direttamente a "mettere una toppa" al sistema, agendo a valle del difetto (la scomparsa di coni e bastoncelli nella retina) inserendo delle proteine fotosensibili nello strato gangliare (RGC) della retina nella zona della fovea.

I coni e bastoncelli sono le uniche cellule retiniche capaci di catturare la luce, il cui "segnale" viene poi trasferito attraverso una serie di altre cellule (tra cui quelle ganglioniche, che sebbene sia nella parte esterna della retina, quindi più esposte alla luce, non sono capaci di captare il segnale) prima di confluire nel nervo ottico. Per completezza ricordo che la luce provoca una iperpolarizzazione delle classiche cellule fotorecettrici e quindi un "blocco" del segnale; tuttavia essendo queste cellule inibitrici, lo spegnimento causa l'attivazione dei circuiti a valle (in parole semplici la luce toglie il "freno" al segnale che quindi può essere trasmesso).

Il dettaglio della struttura della retina. Le cellule in alto sono quelli che "fronteggiano" la luce e da cui emana il nervo ottico, quelle in basso le cellule interne con i fotorecettori. Evito qui di addentrarmi ulteriormente nella neurofisiologia della visione. Vi rimando ad articoli precedenti sul tema o ad altri siti divulgativi.

Il fine della procedura è rendere cellule per loro natura incapaci di rilevare la luce di farlo fornendo loro i sensori nella forma di proteine foto-eccitabili (ad una specifica lunghezza d'onda). Poiché queste cellule si trovano a valle del "danno" il segnale da esse generato potrà sfruttare le vie di comunicazione standard dell'apparato visivo, dal nervo ottico alle aree cerebrali preposte all'elaborazione del segnale. 

Nella realtà dei fatti il problema è più complesso sia per il numero ridotto delle cellule RGC (vedi sotto) che per il limite del tipo di lunghezza d'onda rilevabile rispetto a quelle presenti nella gamma del visibile. Da qui l'esigenza di usare appositi occhiali capaci di "convertire" la luce in entrata in una luce rilevabile dalle cellule portatrici dei fotorecettori artificiali.
La scelta di usare una proteina sensibile al rosso invece, ad esempio, del blu, è che l'energia associata è inferiore, una opzione più sicura per la cellula.
Il metodo, centrato sulla "consegna" del pacchetto informativo per creare la proteina fotorecettore, sfrutta un virus modificato, incapace di replicarsi, iniettato direttamente nell'occhio. Dopo circa 4 mesi, tempo necessario perché l'espressione della proteina nelle cellule infettate si normalizzi, si inizia la fase di training con gli occhiali che serviranno al paziente (o meglio al cervello del paziente) per imparare ad interpretare questo nuovo segnale che ha due problemi rispetto alla luce normale: è monocromatico e le cellule RGC capaci di rilevarlo sono nel migliore dei casi 100 volte inferiori rispetto a coni e bastoncelli (da qui un limite intrinseco nella risoluzione massima ottenibile).

Gli occhiali utilizzano una fotocamera che rileva i cambiamenti di contrasto e luminosità convertendoli in qualcosa di paragonabile ad una "notte stellata con punti colorati". Quando la luce di questi punti entra nell'occhio, attiva le nuove proteine fotosensibili con un effetto a cascata sulla polarizzazione della membrana che risulta in un segnale inviato al nervo ottico prima e alle aree cerebrali della visione dopo (vedi anche un precedente articolo).
Ci vogliono mesi di allenamenti prima che il cervello impari a "tradurre" i segnali rilevati; alla fine però il primo paziente testato è stato in grado di distinguere immagini ad alto contrasto, inclusi oggetti su un tavolo e le strisce bianche in un passaggio pedonale. Una conferma che si era sulla strada giusta è venuto da test dell'attività cerebrale fatti in contemporanea ai test visivi, che hanno dimostrato che la corteccia visiva reagiva all'immagine proposta nello stesso modo in cui un soggetto normale avrebbe risposto osservando lo stesso oggetto.
image credit: Institut de la vision via modernretina.com


Il recupero visivo (dal buio assoluto) è quindi intrinsecamente associato all'utilizzo degli occhiali. Siamo purtroppo ancora ben lontani dal "miracolo tecnologico" che ci mostrava Geordi La Forge in Star Trek, TNG.


A migliorare una notizia già di per sé positiva il dato che con il tempo le capacità visive continuano a migliorare, complice l'abilità del cervello di "imparare" a gestire i nuovi input sensoriali.

Ad oggi, oltre al soggetto descritto nell'articolo, sono 8 le persone trattate con la stessa tecnica, di cui però non sono ancora disponibili i risultati per ragioni legate alla pandemia. Come spiegato nei precedenti paragrafi il passaggio cruciale è imparare ad usare questi particolari occhiali con un lavoro svolto fianco a fianco degli sperimentatori. Il distanziamento sociale obbligatorio ha ritardato questa interazione posticipando così anche i risultati.

Nota positiva non secondaria è che il trattamento ha carattere permanente e non presenta controindicazioni  o fattori di rischio.

GenSight Biologics non è in verità l'unica azienda che sta sviluppando terapie basate sull'optogenetica per il trattamento di patologie retiniche (vedi anche articolo precedente).
Bionic Sight ha annunciato positivi risultati preliminari (recupero parziale della vista mediante un caschetto simile a quello usato da GenSight) in quattro su cinque persone trattate.
Novartis sta sviluppando una terapia basata su una proteina nettamente più sensibile alla luce da rendere gli occhiali (forse) non necessari.

Fonte
- Partial recovery of visual function in a blind patient after optogenetic therapy
Nature Medicine, maggio 2021



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Il crollo di Miami e il futuro dei bio-cementi

Il recente tragico collasso su se stesso del palazzo a Miami mi ha riportato alla mente un articolo pubblicato su Nature Biotechnology nell'estate del 2020 che affrontava l'innovativo concetto del bio-cemento.
Il punto di contatto tra i due è nelle cause del crollo dell'edificio, ricondotte ad un mix di infiltrazioni saline e acqua nei pilastri portanti che hanno causato sul lungo periodo la comparsa di crepe nel cemento e la corrosione dello scheletro interno di metallo, quindi la perdita di tenuta. In assenza di manutenzione efficace (l'iniezione di resine sembra aver avuto un effetto anche aggravante) il risultato è  stata la formazione di una costruzione tipo castello di carte metastabile, dove un evento su una colonna ha innescato un effetto domino.

Lungi da me l'idea di fare una analisi tecnica (ho ricavato quanto sopra dalle fonti di informazione), la notizia ha però attivato il ricordo di quel vecchio articolo che oramai era finito nel dimenticatoio del "curioso ma non per me utile" in quanto borderline rispetto agli studi che normalmente trovano spazio sulla suddetta rivista di biotecnologia. Il punto centrale dell'articolo era lo sviluppo di una tecnica di costruzione in cui al classico cemento e anima di metallo venivano associate spore batteriche capaci, nelle condizioni che descriverò, di conferire al cemento la capacità di "autoripararsi" dai danni causati dalle infiltrazioni di acqua, aumentando la sicurezza e diminuendo nel contempo le opere invasive di manutenzione.

Se il lavoro fosse stato meramente teorico, probabilmente non lo avrei ricordato in questi giorni. Aveva invece il pregio di essere già stato messo alla prova nei lavori condotti su un palazzo seicentesco olandese, con buoni risultati.

Oltre a vantaggi conservativi i cosiddetti biomateriali da costruzione offrono altri vantaggi, tra cui quello relativo al contenimento dei gas serra: non solo minore necessità di produrre cemento per le riparazioni ma anche la capacità, una volta "assemblato", di catturare la CO2 ambientale.
A livello globale si producono annualmente 4 miliardi di tonnellate di cemento, responsabili di circa l'8% delle emissioni di CO2.
Il calcestruzzo, di suo, ha una  notevole resistenza alla compressione che viene in genere ulteriormente rinforzata dall'utilizzo al suo interno di barre d'acciaio. Tuttavia con il tempo la comparsa di crepe alla superficie porta ad infiltrazioni di acqua che alla lunga corrode l'acciaio; il risultato è che l'intera struttura si indebolisce, aumentando il rischio di crolli disastrosi. Il costo della manutenzione su scala globale nei soli paesi evoluti è di miliardi di dollari all'anno e a volte il costo associato rende gli edifici non riparabili, da cui il circolo vizioso di aumento esponenziale della domanda di calcestruzzo per edifici sostitutivi.
L'azienda coinvolta si chiama Green Basilisk ed è una start-up operante in ambito biotech la cui mission è creare sinergie tra le mini-fabbriche biologiche (batteri e funghi) e i materiali da costruzione.
Da un punto di vista operativo si parte dall'inserire lattato di calcio e spore di batteri con caratteristiche particolari nel calcestruzzo (usato poi come rinforzo alle strutture sotterranee del palazzo). Le spore rimangono dormienti fino a quando le condizioni diventano per loro ideali (l'ingresso di acqua) e, risvegliate, iniziano a digerire il lattato presente emettendo CO2 che viene subito catturato dal materiale; il calcestruzzo infatti delimita un ambiente alcalino, condizione ideale perché la CO2 si combini con gli ioni calcio formando carbonato di calcio, che solidifica sigillando crepe di millimetri in poche settimane così da prevenire ulteriori danni causati dall'acqua. Il tutto in modo automatico.
Image credit: Basiliskconcrete.com

Per raggiungere questo risultato i ricercatori della biotech hanno per prima cosa cercato batteri il cui metabolismo meglio si adattasse allo scopo, trovandoli nelle specie Bacillus pseudofirmus, B. cohnii e B. alcalinitrilicus, abitanti naturali di una regione desertica nel nord della Spagna e di un lago alcalino in Russia. La scelta di specie naturali invece di ingegnerizzate nasce dal più semplice iter di approvazione per il loro utilizzo nell'ambiente.

Lo scoglio che l'azienda sta ora affrontando è quello di rendere questo approccio meno caro come costo d'ingresso cercando di sviluppare nutrienti per i batteri più economici del lattato di calcio.
Per dare una idea dei costi oggi un m3 di calcestruzzo costa intorno agli 80$, e il mix batteri-nutrienti altri $ 46, con un aggravio del 1% dei costi complessivi. Se si riuscisse ad abbassare il prezzo, l'ingresso nel mercato sarebbe vantaggioso anche per quei costruttori interessati solo alla costruzione e non all'evidente risparmio di costi di manutenzione (magari gestito da terzi, per cui per loro non rilevante).

Le applicazioni potenziali di questi biomateriali sono varie, tra cui le pavimentazioni stradali (pensate alle condizioni delle strade dopo un periodo di piogge) o strutture in cui sono integrati sensori per il monitoraggio in tempo reale della efficienza del processo di auto-riparazione.
Per renderli attivi solo quando veramente servono si è pensato di incapsulare le spore batteriche in granuli di calcestruzzo aerati, ricoperti di un guscio impermeabile di alcol polivinilico; la capsula impedirebbe ai batteri di attivarsi per minime infiltrazioni limitando il loro utilizzo al caso in cui la tensione sulla mini crepa è tale da rompere il guscio.
Tra l'altro si è visto che aggiungendo alle capsule un mix nutritivo fatto di estratto di lievito e nitrato di calcio, l'efficacia di riparazione aumenta di molto.

Non si tratta dell'unica azienda impegnata in questi studi. La bioMASON sta testando dei bacilli in grado di cementare mini detriti di roccia e sabbia formando blocchi robusti utilizzabili poi come piastrelle. In questo caso i batteri, all'interno di un supporto che funge da stampo, idrolizzano un substrato di urea per formare la CO2, che poi si combina con ioni di calcio per formare carbonato di calcio; il risultato è l'intrappolamento delle particelle circostanti all'interno di una matrice solida che fatta seccare all'aria crea una mattonella pronta per l'uso. La stessa azienda sta sviluppando un bio-cemento marino adatto per l'uso nelle fondamenta in acqua.

Lo stesso dipartimento della difesa USA (DARPA) sta finanziando ricerche sui cianobatteri da utilizzare come bio-mattoni: cianobatteri disposti su una matrice di idrogel fissano la CO2 grazie alla loro fotosintesi, evento che aumenta il pH sulla loro superficie. Questo innesca la precipitazione del carbonato di calcio, che lega l'idrogel formando blocchi solidi con le caratteristiche della malta. Ciascuno di questi mattoni contiene ancora cianobatteri vivi il che fungono così da punto di partenza per creare nuovi mattoni.

Ci vorrà tempo perché questi prodotti diventino di uso comune ma il paradigma dei biomateriali sta prendendo piede.

Fonte
- Bioconcrete presages new wave in environmentally friendly construction
Nature Biotechnology (June 2020)


Un probiotico da inalare?

Gli organismi sani condividono il "territorio" (o meglio l'interfaccia con l'esterno) con una microflora tollerata dal sistema immunitario dell'ospite; un rapporto vantaggioso per entrambi (commensalismo) che da una parte fornisce un ambiente protetto e ricco di nutrienti e dall'altra viene ricambiato fornendo una barriera competitiva contro l'invasione di microbi patogeni, il processamento del cibo e la produzione di molecole per noi vitali (dalle vitamine alla serotonina).
Image credit: Mayoclinic
La microflora commensale (o microbiota nativa) è un insieme eterogeneo di batteri e protozoi che risiede a ridosso dei tessuti epiteliali esposti all'esterno (anche se in cavità interne), a ridosso del "confine" pattugliato dalle difese immunitarie. Di particolare importanza tra le aree "colonizzate" è la mucosa, priva della barriera cheratinica e protetta dal muco secreto da particolari ghiandole.

Il microbiota è presente dalla nascita, fornito dalla madre durante il passaggio attraverso il canale vaginale (ragion per cui i nati da parto cesareo in passato erano più a rischio di infezioni e di asma). Data la natura (almeno in parte) batterica, il microbiota può essere pesantemente colpito dagli antibiotici e questo spiega l'importanza dei probiotici dopo questi trattamenti al fine di ripristinare gli equilibri locali, prevenendo nel contempo la colonizzazione da parte di batteri meno amichevoli delle aree lasciate vuote.

Se l'importanza del microbiota è ben nota a livello gastrointestinale, "l'ecologia" delle aree respiratorie profonde (polmoni) è meno caratterizzata.

Per riempire il gap conoscitivo, i ricercatori dell'università di Ginevra hanno iniziato a studiare il ruolo del microbiota polmonare nei topi e i suo ruolo protettivo contro infezioni da pneumococcus (batteri del genere Streptococco), patogeni responsabili negli umani dei decessi legati a infezioni opportunistiche successive a "banali" influenze stagionali (virali).

In un loro primo articolo risalente al 2019 i ricercatori avevano rilevato la presenza, significativa, di batteri del tipo Lactobacillus sulla superficie polmonare di topi sani.
Il lactobacillo è noto per la sua azione antimicrobica e come modulatore del sistema immunitario, tanto da essere il principale ingrediente nei fermenti lattici.
Nel loro ultimo studio pubblicato ad inizio anno, hanno fatto un passo avanti arrivando alla completa caratterizzazione di questi batteri commensali (battezzati Lactobacillus murinus) investigandone nel contempo il loro ruolo protettivo.
Tra i test condotti cito studi su colture cellulari originate da epitelio polmonare murino in cui la presenza del lactobacillo inibiva la crescita sia di pneumococchi che di batteri come lo Staphylococcus aureus (associato a infezioni polmonari, cute, osse ed articolari), attraverso il rilascio di acido lattico.

Si tratta ovviamente di dati preliminari ma nulla esclude, se validati in modelli più completi, che in un prossimo futuro si potrà pensare a probiotici polmonari per contrastare l'insorgere di polmoniti nei soggetti a rischio, riducendo nel contempo l'uso di antibiotici che come sappiamo hanno sia l'effetto collaterale di uccidere i batteri senza "distinzioni" che di essere inefficaci in un mondo in cui la diffusione dei superbatteri è sempre più rilevante.


Fonti
- Respiratory tissue-associated commensal bacteria offer therapeutic potential against pneumococcal colonization 
Soner Yildiz et al, (2020) eLife

- Commensal Bacteria: An Emerging Player in Defense Against Respiratory Pathogens
Rabia Khan et al, (2019) Frontiers in Immunology

Oltre ai (necessari) vaccini, quali le terapie farmacologiche in uso per il Covid19?

La pandemia di COVID-19 è una delle più grandi sfide che la medicina moderna abbia mai affrontato. Lo sforzo congiunto dei ricercatori su scala globale ha permesso di ottenere risultati e strumenti di contrasto che in altre condizioni avrebbero richiesto una decina di anni. Lo scopo della ricerca è su due fronti: identificare terapie (non solo farmaci) capaci di salvare pazienti con sintomi più gravi e bloccare il progredire della malattia già  ai primi sintomi; agire ex ante diminuendo il rischio di ammalarsi.
Ad oggi non esiste una terapia ad hoc che possa guarire dal COVID-19 ma trattamenti che ne attenuano i sintomi più gravi in modo da dare tempo all'organismo di eliminare il virus.

In un precedente articolo ho trattato dei vaccini in uso o in fase di sviluppo, categorizzandoli per approccio e mostrandone pregi e limiti (vedi l'articolo dedicato ad alcuni effetti collaterali). Va da sé che la vaccinazione è ad oggi l'unico strumento veramente utile per minimizzare il rischio di ammalarsi (e nel caso, si sviluppa la malattia in forma lieve) e cosa ancora più importante generare una herd immunity capace di tutelare anche chi, per ragioni di salute o di età, non potrà essere vaccinato.
Il vaccino ha però un suo limite intrinseco nel suo essere preventivo l'infezione e NON terapeutico una volta che l'infezione è avvenuta. Per tale scopo servono farmaci antivirali (e non solo).
Nei paragrafi seguenti stilerò una lista parziale dei farmaci sperimentali (spesso farmaci già in uso per altre patologie) che si sono affacciati alla clinica, almeno negli USA (non sempre l'approvazione di EMA e di FDA vanno di pari passo quando si tratta di approvazione farmaci nella "corsia accelerata, di emergenza").

Una piccola nota prima di proseguire, banale per gli addetti ai lavori ma con concetti da reiterare per l'audience generalista. Mi riferisco ai test preclinici per validare la molecola farmaceutica sperimentale. Dimostrare l'efficacia di un composto, intesa come capacità di neutralizzare (uccidere è una parola grossa per un virus) un virus in una coltura cellulare non sempre è seguita da una conferma dei risultati quando si passa da studi in vitro a studi su animale (ammesso che esista un modello animale adatto). E anche nel caso funzionasse non dà alcuna garanzia che funzioni egualmente bene (o del tutto) una volta passati alla sperimentazione clinica. Le variabili sono molte e alcuni virus sono incredibilmente specifici per un solo tipo di cellula in un solo tipo di organismo. Un punto questo che fa sempre sorgere la domanda "allora che senso hanno queste sperimentazioni, specie in animale?". La funzione è duplice, molto importante e può essere riassunta come una prova di meccanismo e (fase successiva) prova di principio: se non funziona in questi test iniziali allora non funzionerà nemmeno in umano; se dà problemi in queste fasi allora è fortemente a rischio usarli in umano. Non ottemperare a questi test equivale a testare un qualunque farmaco direttamente su essere umano, cosa non furba o etica se si pensa che meno del 1% dei prodotti che risulta promettente in un test in vitro darebbe risultati positivi o anche solo sicuri se saltasse a piè pari i test in animali.

Eccoci infine all'elenco dei trattamenti più noti, divisi per categoria di azione, contro SARS-CoV-2. 
Ho volutamente trascurato alcune molecole che ogni tanto appaiono sulle testate giornalistiche italiane come meri copia e incolla di veline girate dall'ufficio stampa di qualche ospedale o università (l'ultimo in ordine di tempo è l'acido etacrinico, principio attivo del diuretico Reomax®, di cui è stata osservata una azione antivirale in colture cellulari) senza che vi siano dati in vivo su pazienti con COVID-19.
Alcuni hanno avuto un discreto successo, altri sono stati usati solo in alcuni paesi, altri ancora sono da mettere a punto o semplicemente semplicemente abbandonati. Sono stati omessi quelli per cui dopo il clamore iniziale non si è trovato alcun riscontro reale.

Ultima notazione. Come al solito le fonti sono presenti in forma di hyperlink testuali associati ai dati, molto più semplici da controllare per il lettore base che non una lunga lista a fondo pagina.
Molto utile la pagina sul portale dell'AIFA in cui sono riassunti per alcuni farmaci testati in ambito COVID-19 i dati ottenuti sul campo. 

Antivirali

Remdesivir
L'unico farmaco a mia conoscenza approvato dalla FDA per il COVID-19 (concesso a maggio l'utilizzo come terapia di emergenza). I dati indicano un modesto beneficio ai pazienti (abbassa da 15 a 11 giorni i tempi di recupero); dati lacunosi in quanto manca ancora uno studio clinico randomizzato.
Il farmaco prodotto da Gilead Sciences con il marchio Veklury, nasce come antivirale contro Ebola ed epatite C e per questo fu uno tra i primi farmaci ad essere testato sui pazienti affetti da COVID-19.
E' un analogo nucleotidico che una volta metabolizzato nella cellula, compete con l'ATP per l'incorporazione nel filamento di RNA nascente e di fatto inibisce la RNA polimerasi (RNP) prodotta dal virus e non quella cellulare (Ebola, HCV e coronavirus sono tutti virus a RNA, di diverso tipo, e come tali tutti producono una loro RNP). Per ulteriori dettagli (ma non troppo tecnici) sul meccanismo di azione del farmaco vi rimando all'articolo Remdesivir explained (The Conversation).
Image Credit ed informazioni dettagliate su asbmb.org 

Come detto il Remdesivir  fu sviluppato originariamente come antivirale contro Ebola ed Epatite C, ma poi accantonato per i risultati inferiori alle aspettative. Ripescato con l'arrivo della attuale pandemia (procedura classica quella di testare prima le molecole già sviluppate per altro, vedi drug repurposing) ha mostrato una interessante capacità nel bloccare la proliferazione del virus nelle cellule in coltura, da cui lo studio clinico sui pazienti ospedalizzati.  
Nota. Nella sperimentazione l'endopoint "recupero" era catalogato come "dimissione dall'ospedale o rimanere ricoverati al solo scopo di controllo dello stato dell'infezione". Lo studio non era randomizzato per motivi etici, per cui la valutazione è stata fatta nel confronto tra la media del tempo di ricovero durante lo studio e lo storico dei precedenti pazienti. 
I dati incoraggianti hanno spinto la FDA ad autorizzarne l'utilizzo anche ai pazienti con sintomi meno gravi, una mossa criticata da alcuni esperti per la povertà dei dati statistici.
In ottobre è stato utilizzato dai medici per curare il presidente Trump (ciclo di cinque giorni per via endovenosa), dopodiché (22 ottobre) è stato approvato per l'uso generale in pazienti di età superiore ai 12 anni.
Rimane la perplessità di esperti e dell'OMS (sulla scorta di un suo studio clinico) sulla effettiva capacità di prevenire i decessi o di diminuire il bisogno di ventilazione assistita; c'è da dire che lo studio stesso dell'OMS è stato criticato in quanto ha utilizzato dati provenienti da molti ospedali in giro per il mondo, procedura che espone al rischio di vizi procedurali e statistica ingannevole.
Il 19 novembre, l'OMS ne ha sconsigliato l'utilizzo come unico trattamento senza però escluderne l'utilizzo in associazione ad altri farmaci.

Ad inizio aprile 2021 uno studio tedesco ha mostrato (in colture cellulari) una sinergia questo farmaco e due altri già approvati per altro scopo (l'antifungino itraconazolo e l'antidepressivo fluoxetina), che potrebbe rimetterlo in gioco nella terapia dei casi sintomatici. 

Progettato originariamente come antinfluenzale (in uso in Giappone) si è poi scoperto che aveva interessanti proprietà anche contro i coronavirus (ne avevo già scritto in un precedente articolo --> Vita di un farmaco).
Il favipiravir è un profarmaco (deve essere metabolizzato per diventare attivo) in grado di indurre terminazione precoce della sintesi di RNA da parte della RNP virale e quindi bloccare la produzione di nuovi virus.
credit: Meodipt


Il suo vantaggio principale è nell'ampia finestra terapeutica e in una statistica di utilizzo consolidata. Non un farmaco risolutivo ma che ha dato buoni risultati in clinica (S. Joshi et al.).


Conosciuto anche come MK-4482 è l'ennesimo antivirale progettato per combattere l'influenza, anche lui un analogo nucleosidico, poi testato contro il COVID-19. Ha dato risultati promettenti già ad inizio primavera (test su cellule e animali) che hanno permesso test esplorativi in umani; ad ottobre sono stati avviati due studi di Fase 2/3 per valutare la sua capacità di ridurre la mortalità e accelerare il recupero nei pazienti.
credit: JS via wikipedia


Grosso vantaggio del Molnupiravir il potere essere assunto sotto forma di pillola. Uno dei lavori più recenti (dicembre 2020 su Nature Microbiology) dimostra un'alta efficacia nei furetti già 24h dopo la prima assunzione.
I risultati di fase II rilasciati ad aprile 2021 non hanno confermato le aspettative.

ACE-2 ricombinante
Non un antivirale nel senso letterale del termine ma un trattamento in grado di "imbrogliare" il virus.
Ogni virus necessita di una porta di ingresso a cui agganciarsi e "bussare" (una analogia non così strana) per potere passare la barriera della membrana cellulare. Le strategie possono essere diverse e nel caso del SARS-CoV-2 il passaggio chiave è l'interazione tra la proteina virale di superficie, Spike, con la proteina ACE-2 espressa sulla superficie di molte cellule umane.  Una volta avvenuto il contatto si attiverà il naturale processo di endocitosi che porterà il virus all'interno della cellula.
Credit: TheConversation.com (CC BY-SA)

Se si confonde il virus usando delle "esche" (finti ingressi) lo si potrà rendere inoffensivo fino al momento in cui viene individuato ed eliminato dalle pattuglie immunitarie. Questo in sintesi il razionale dell'utilizzo della proteina ricombinante (solubile) ACE-2.
Si tratta di un approccio ancora in fase clinica ma i cui risultati sono promettenti (Nature 09/2020).

***

Rimaniamo nell'ambito antivirali con prodotti i cui dati sono meno chiari dei precedenti ma con sottostanti funzionalità interessanti (se confermate).

Ivermectina
Usato per decenni come antielmintico (elimina o favorisce l'espulsione di vermi e parassiti intestinali) si sono trovati indizi di una potenziale attività antivirale in colture cellulari sebbene ad alti dosaggi (superiori a quelli usati di routine). Nessun dato ad ora su animali o umani.
E' in corso uno studio clinico a Singapore, con dosi molto inferiori, su un ampio campione di volontari (5 mila); il test è verificare se la sua assunzione conferisca una qualche protezione dal coronavirus nel medio periodo intesa come percentuale di soggetti che diventeranno positivi al virus rispetto ai controlli.
Ad oggi le linee guida del NIH ne sconsigliano l'uso (in ambito COVID-19) ma è altrettanto vero che il trattamento è sempre più diffuso in America Latina (immagino che essendo già in uso come come antielmintico, in particolare per la oncocercosi, si è pensato di sfruttarne le potenzialità antivirali con una singola prescrizione).
La molecola è tornata alla ribalta nell'estate 2021 con nuovi dati (QUI trovate un riassunto) finché la FDA ha mandato un messaggio abbastanza chiaro su perché NON dovrebbe essere usata per il covid19.


Un composto presente nell'oleandro, una pianta usata in passato sia come veleno che come medicina tradizionale per malattie varie, tra cui l'asma. Da qui la potenziale tossicità cardiaca associata all'ingestione dei fiori specie nelle persone che assumono digossina
Diversi sono gli studi preliminari (invero poco risolutivi) sul potenziale effetto antivirale di questa molecola. Sembra essere tornata di moda dopo la pubblicazione di uno studio preliminare che mostra effetti antivirali in una coltura di cellule renali di scimmia infettate dal coronavirus. 


Lopinavir e ritonavir
Sebbene alcuni test preliminari in vitro avessero fatto pensare ad un potenziale utilizzo nella terapia COVID-19, gli studi clinici su soggetti ospedalizzati non hanno portato conferme e gli studi sono stati interrotti. I ricercatori non escludono di fare test per vedere se il farmaco (che essendo già approvato ha un profilo ben noto) possa essere utile su alcune tipologie di pazienti con forma lieve della malattia (non ospedalizzati) o come trattamento preventivo in soggetti esposti al virus ma asintomatici.
Altra possibilità il suo utilizzo in combinazione con altri farmaci.

Idrossiclorochina e clorochina
Farmaci usati da decenni contro la malaria, hanno evidenziato una certa azione inibitoria sulla replicazione del coronavirus in colture cellulari, apparentemente supportati da studi su un campione ridotto di pazienti ospedalizzati.
In base a questi risultati la FDA concesse una autorizzazione temporanea come terapia d'emergenza nei pazienti con COVID-19. Studi successivi più dettagliati (in animali e umani) non hanno confermato le promesse e di conseguenza anche l'autorizzazione della FDA è stata revocata.
I risultati negativi non hanno dissuaso gli studiosi (si contano ad oggi 180 sperimentazioni). Non si può escludere che il trattamento, specie in combinazione con altri farmaci e magari nelle fasi iniziali della malattia, possa portare benefici. Serviranno però test ben progettati per arrivare a conclusioni certe.
A POSTERIORI, si è capito che la causa per cui la clorochina non ha dato risultati positivi in vivo è che a differenza del "vecchio" Sars-CoV, il nuovo virus responsabile del covid19 sfrutta l'enzima cellulare TMPRSS2 (invece della catepsina L) come "facilitatore" del processo di fusione. La differenza è sostanziale visto che la catepsina indirizza il virus verso gli endosomi (bersaglio della clorochina) mentre TMPRSS2 direttamente nel citoplasma.

Tofacitinib
Risultati interessanti con il Tofacitinib, inibitore JNK, nella trattamento della polmonite in covid19. Il farmaco nasce come anti-artritico.

"Emulatori" del sistema immunitario
Altro approccio "classico" quello di attivare le difese immunitarie importando il "know-how" da un sistema immunitario esterno. Esempi classici di questi trattamenti l'utilizzo di plasma da pazienti convalescenti e gli anticorpi monoclonali.

Plasma convalescente
Testato per la prima volta durante l'influenza spagnola, il cosiddetto plasma convalescente (che in italiano suona malissimo) ricco di anticorpi che il soggetto guarito ha prodotto nella sua lotta, vinta, contro il virus, ha dato risultati ampiamente positivi.
I ricercatori hanno cercato di riprodurre questa strategia nell'epidemia attuale; decine di migliaia i pazienti che hanno ricevuto questo plasma nell'ambito di un programma gestito dalla Mayo Clinic e dal governo federale.
Nello studio della Mayo Clinic i risultati ottenuti, pur presenti, sono stati modesti e limitati a chi era nella fase precoce della malattia e solo con il plasma più arricchito di anticorpi. Interessante uno studio argentino (di piccole dimensioni ma rigoroso) in cui è stato osservata una azione protettiva nei soggetti anziani infettati contro la progressione a sintomatologia grave. Il vero limite, identificato dallo studio, è la ristretta finestra temporale di intervento affinché la terapia dia il massimo: solo per pochi giorni dopo l'inizio dei sintomi, dopo di che diventa inefficace.
E' di marzo 2021 la notizia che l'NIH ha sospeso l'utilizzo di questo plasma nei pazienti ambulatoriali con sintomi moderati in quanto non utile (o meglio non utile in questa categoria di soggetti).


Anticorpi monoclonali (mAb)
Testati in clinica  per la prima volta negli anni '70, da allora sono stati autorizzati dalla FDA per il trattamento di 79 patologie, che vanno dal cancro all'AIDS.
In ambito COVID-19 i risultati, ancora preliminari, indicano che hanno maggiore probabilità di essere utili se usati nella fasi precoci dell'infezione.
Due le aziende in prima linea in questi studi, Eli Lilly e Regeneron.
  • Bamlanivimab, il prodotto sviluppato da Eli Lilly mostra una riduzione del 72% del rischio di ospedalizzazione rispetto ai controlli.
  • Regeneron usa invece un cocktail di due mAb con i quali ha ridotto del 57% il ricorso dei pazienti all'ospedale.
Diverso il discorso nel caso delle persone con malattia più grave in cui, in entrambi i casi, i risultati sono stati deludenti.
Entrambi i farmaci hanno ricevuto a novembre l'autorizzazione all'uso di emergenza (→FDA Lily e →FDA Regeneron) su persone con grave rischio di avere contratto l'infezione e/o con sintomatologia lieve e moderata (non ospedalizzate).
 
Aggiornamenti 
(03/21). Sono stati riportati risultati positivi su pazienti con forme gravi di covid trattati con tocilizumab (Roche). Il numero di decessi è risultato in calo del 29% rispetto ai soggetti trattati con gli anti-infiammatori standard (ad es. dexametasone). L'anticorpo monoclonale funziona andando a bloccare il recettore dell'interleukina 6, citochina chiave del processo infiammatorio.
(07/21). Il Giappone ha autorizzato l'utilizzo del Ronapreve, una miscela di due anticorpi monoclonali neutralizzanti (diretti contro la RBD della Spike), prodotto dalla Roche, grazie a risultati che mostrano una riduzione nel tasso di ospedalizzazione/morte quando usato su soggetti con malattia da lieve a moderata.
(09/21). Studi di fase 3 su inibitori di Il-1a/b hanno fornito buoni risultati nella riduzione mortalità nei pazienti con patologia più grave.

Interferoni (IFN)
Gli IFN sono molecole che le nostre cellule producono in risposta ai virus. Esercitano profondi effetti sul sistema immunitario su due fronti: da una parte allertano e stimolano l'attacco agli invasori, dall'altra fanno da freno all'intensità dell'attacco affinché non causi danni collaterali ai tessuti.
L'iniezione di interferoni sintetici è da qualche anno un trattamento standard di anomalie della funzionalità immunitaria sebbene non siano scevri da effetti collaterali.
Studi recenti hanno mostrano che la proteina ORF8 del SARS-CoV-2 è in grado di "spegnere" il segnale mediato da IFN-1 e che Orf7a antagonizza la proteina cellulare BST2/tetherin che ha un ruolo chiave nell'impedire la liberazione dei virus dalla cellule infettate. 
Alcuni studi condotti in Cina hanno mostrato che la somministrazione di IFN fornisce una certa protezione dall'infezione, mentre un piccolo studio clinico condotto in Europa dando interferone nebulizzato (via nasale) a soggetti appena ospedalizzati ha dato risultati incoraggianti tanto da permettere l'inizio di uno studio di fase 3.

Vitamina D
Si è molto sentito parlare di ipotetici effetti preventivi o curativi della vitamina D ma ad oggi mancano riscontri clinici affidabili. L'unico studio serio condotto su pazienti ospedalizzati per forme da moderata a grave di Covid19 non ha evidenziato alcun effetto rilevante (JAMA, feb. 2021).


"Pompieri" dell'eccesso di risposta immunitaria
Come non di rado avviene, molti dei danni, spesso fatali, associati ad una infezione non sono in realtà causati dall'azione del patogeno ma da una risposta eccessiva del sistema immunitario che può causare sia danni tessutali che shock sistemici.
I corticosteroidi sono una classe di farmaci in uso da tempo per ridurre l'infiammazione e per il controllo di allergie e asma.
Uno di questi, il desametasone, ha mostrato fin dall'inizio la sua utilità nella pratica clinica per ridurre le morti da COVID-19 (vedi anche uno studio di Oxford). Dato confermato da uno studio su oltre 6 mila persone che ha quantificato in più del 30% la riduzione dei decessi dei pazienti sotto ventilazione e in circa il 20% di chi era sotto ossigeno. Ma la cautela è d'obbligo in quanto il suo utilizzo potrebbe invece essere dannoso per i pazienti meno gravi (da qui la linea guida restrittiva redatta dal NIH).

Inibitori delle citochine
Il corpo produce proteine di segnalazione chiamate citochine che hanno funzione di messaggeri tra cellule diverse e sono in grado di produrre risposte anche su larga scala.
Quando queste proteine sono prodotte in eccesso, la risposta del sistema immunitario ad infezioni di per sé non gravi può andare fuori controllo fino a causare la cosiddetta tempesta di citochine.
Negli anni sono stati sviluppati vari farmaci in grado di contrastare questa pericolosa reazione, alcune delle quali hanno trovato impiego anche per il trattamento di infiammazioni croniche come l'artrite. I farmaci in uso sono di vario tipo e non ha senso qui catalogarli. Possiamo schematizzare dicendo che alcuni sono stati formulati per bloccare una data citochina mentre altri agiscono su più citochine contemporaneamente.
Nei mesi scorsi sono stati provati vari approcci, sulla falsariga di quanto fatto con i corticosteroidi per cercare di contrastare i gravi stati infiammatori osservati in alcuni pazienti con covid19.
I risultati ad ora sono contrastanti, i più promettenti dei quali vengono da ricercatori europei con l'antiartritico baricitinib, capace di agire su più citochine (IL-1, -6, -10) contemporaneamente; risultati che vanno presi con le dovute cautele dato che lo studio non è stato randomizzato e non prevedeva il placebo. Risultato supportato da un altro studio in cui il baricitinib è stato affiancato all'antivirale remdesivir con risultati migliori. La FDA ha rilasciato un'autorizzazione all'uso di emergenza, per somministrare congiuntamente i due farmaci a pazienti ospedalizzati che necessitano di supporto respiratorio.


Sistemi di filtraggio del sangue
Chiudo con un sistema "meccanico" pensato per rimuovere l'eccesso di citochine prodotte.
Sebbene la FDA abbia autorizzato l'utilizzo di alcuni di questi sistemi (usati anche in Cina) gli esperti invitano alla cautela per il rischio che con le citochine possano essere filtrate anche molecole benefiche come vitamine o i farmaci stessi. 


***
Futuri approcci verranno dalla caratterizzazione dei fattori cellulari necessari al successo dell'infezione virale (ad esempio TMEM41B e PI3K type 3) in cui è il loro stesso livello a determinare, più che il ceppo virale, la probabilità che il virus attecchisca. 
Un articolo pubblicato ad aprile 2021 su Nature Genetics analizza i fattori finora identificati necessari per varie specie di coronavirus umani. Colpire questi fattori fornirebbe un'arma ulteriore per gli outbreak prossimi venturi.





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