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Identificati 135 "nuovi" geni coinvolti nella pigmentazione della pelle

I ricercatori identificano 135 nuovi geni della melanina responsabili della pigmentazione
Tra le caratteristiche morfologiche che definiscono la varietà umana è facile citare il colore della pelle, dei capelli e degli occhi. Una variabilità che è dovuta in gran parte alle caratteristiche di un unico pigmento, la melanina.
Nonostante l'apparente semplicità "causale" il sistema di regolazione è estremamente complesso, e poco caratterizzato, per due ragioni principali:
  • nonostante il nome singolo, si tratta di una sorta di termine "ombrello" che raggruppa diverse classi di molecole (in genere originate dall'aminoacido tirosina) accumulati in particolari sacche di cellule come i melanosomi.
  • questa eterogeneità si amplifica a livello genetico a causa del contributo regolatori di molti geni diversi, a loro volta sottoposti al controllo trascrizionale da parte di altri geni. Ne consegue che la produzione di tali pigmenti (quantitativo e qualitativo) è il risultato dell'azione di molti piccoli contributi 
Tale premessa spiega l'interesse del nuovo studio pubblicato sulla rivista Science, centrato sulla identificazione di 135 nuovi geni associati alla pigmentazione.
Nota. Non si parla in realtà di NUOVI geni appena scoperti, ma del coinvolgimento di questi geni, noti magari per svolgere altre funzioni, nel complesso processo che porta alla produzione delle melanine.
La melanina viene prodotta all'interno di strutture speciali chiamate melanosomi presenti all'interno dei melanociti. Sebbene tutti gli esseri umani abbiano lo stesso numero di melanociti, la quantità di melanina prodotta è diversa e dà origine alle varie tonalità nella colorazione della pelle (etc).

Evolutivamente la pigmentazione più scura era quella originaria data l'origine africana (alta irradiazione solare) del genere Homo, necessaria per proteggere la pelle dalle radiazioni ultraviolette. Con l'inizio del processo migratorio che portò gli Homo fuori dall'Africa la diminuzione della quantità di luce associata a minore presenza di cibi ricchi di vitamina D (frutta) rese da una parte meno necessaria la pigmentazione protettiva (essere scuri non serviva) e dall'altra aumentò la richiesta di sintesi endogena di tale vitamina, processo facilità dall'esposizione della pelle alla luce solare (essere scuri era deleterio perché si assorbiva meno luce e quindi era minore la biosintesi cutanea di vitamina D).

Per capire i meccanismi (genetici e, a cascata, biochimici) alla base delle produzione di differenti quantità di melanina negli umani, gli autori dello studio hanno utilizzato la tecnologia CRISPR-Cas9, tecnica che consente di ingegnerizzare geneticamente le cellule. Nello specifico hanno rimosso sistematicamente più di 20 mila geni (la quali totalità del nostro patrimonio), uno per uno, usando centinaia di milioni di melanociti come "portatori" della mutazione (delezione) valutando su ciascuno di essi l'impatto nella produzione di melanina.
Tecniche come la citometria a flusso permettono di quantificare la quantità di pigmento presente e di separare le cellule "portatrici" della differenza cercata dalla massa di cellule (geneticamente) diverse. Una volta separate le cellule di interesse, identificare il gene mancante è "semplice".
Dall'analisi sono emersi 169 geni funzionalmente diversi capaci di influire sulla produzione di melanina, 135 dei quali non noti per avere effetti sulla pigmentazione.
Tra i "nuovi" geni due (KLF6 e COMMD3) sono stati analizzati funzionalmente, vale a dire fatta la caratterizzazione funzionale della proteina.
  • KLF6 è una proteina legante il DNA e "spegne" la produzione di melanina sia negli esseri umani che negli animali
  • La proteina COMMD3 regola la sintesi della melanina agendo sullo stato di acidità dei melanosomi.
L'analisi dettagliata di ciascuno di questi geni apre nuove strade nello sviluppo di farmaci utilizzabili sia a scopo fotoprotettivo (e in ultima analisi dal cancro) per le persone dalla pelle chiara (che lavorano in zone ad alta insolazione) sia per terapie contro la vitiligine e altre malattie della pigmentazione.

Applicazioni che vanno oltre la salute umana essendo le nozioni acquisite utilizzabili anche per identificare i geni che regolano la produzione di melanina in funghi e batteri così da contrastare la loro patogenicità sia su animali che sulle piante coltivate.
La produzione di melanina nei funghi e nei batteri consente loro di essere più patogeni per l’uomo o per le colture. 
Fonte
- The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits.


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Proteggere la pelle è importante

I geni neandertaliani e l'effetto sulla nostra immunità e metabolismo

È noto oramai da tempo che noi sapiens siamo portatori (e debitori per la sopravvivenza in climi freddi) di geni ereditati dai cugini Neanderthal.
Stime recenti indicano che i geni di Neanderthal comprendono dall'1 al 4% del genoma degli esseri umani di oggi (ma solo quelli che migrarono fuori dall'Africa all'alba della diffusione dei sapiens. Vedi sotto). L'incrocio è avvenuto più volte a partire da circa 50.000 anni fa mano a mano che i sapiens si addentrarono in aree già popolate da decine di migliaia di anni dai Neanderthal che per tale ragione avevano sviluppato adattamenti (a clima e malattie) assenti nei nuovi arrivati.

In uno studio pubblicato a giugno 2023 sulla rivista eLife, i ricercatori hanno aggiunto nuove informazioni su questo fenomeno indicando tra i vantaggi acquisiti quelli a carico del sistema immunitario e del metabolismo. I nuovi dati sono stati resi possibili dallo sviluppo di una nuova suite di strumenti genetici computazionali che hanno permesso di analizzare gli effetti genetici dell'incrocio.

L'analisi si è avvalsa della elevata quantità di dati disponibile nella biobanca britannica, comprensiva delle informazioni genetiche e i tratti somatici di circa 300 mila britannici di origine non africana.  I ricercatori hanno analizzato più di 235 mila varianti genetiche di probabile origine neandertaliana, scoprendo così che 4303 di queste varianti nel DNA svolgono un ruolo rilevante negli esseri umani moderni, influenzando 47 tratti genetici distinti, come la velocità con cui alcuni "bruciano" le calorie o la naturale resistenza immunitaria di una persona a determinate malattie.
Ereditabilità di marcatori genetici neandertaliani associati a particolari tratti fenotipici/metabolici
(image credit:  Xinzhu Wei et al,/ eLife)



Fonte
- The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits.
Xinzhu Wei et al, (2023) eLife


(Aggiungo in calce a questo aggiornamento gli altri articoli sul tema pubblicati in precedenza. Questo il motivo per cui alcuni concetti potrebbero essere stati ripetuti)  
Tra gli articoli più significativi sul tema rimando al tag che raggruppa temi centrati sugli incroci con neanderthal e denisova e sull'origine di alcune popolazioni umane (--> QUI). Una curiosità sintattica giusto per cominciare: si dice neanderthal o neandertal? Il minuscolo è corretto dato che in italiano, a differenza di tedesco e inglese dove sostantivi sono trattati come i nostri nomi propri, vigi tale regola. Sulla presenza del -th- o meno rimando invece ad un articolo interessante sul sito "talkorigins.com" --> QUI. Io userò preferenzialmente la versione italianizzata del nome.
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 Non solo vantaggi. I geni neandertaliani alla base di alcune patologie odierne ***
(Articolo pubblicato in data febbraio 2016)

Una bambina e una statua che riproduce un uomo di Neandertal. Guardare nel genoma è guardare in noi stessi. (©Neanderthal Museum)
  
Continuiamo la panoramica sulle recenti scoperte in antropologia evolutiva, frutto della enorme potenza informativa "regalataci" dal progetto genoma. In soli 10 anni siamo passati da una antropologia evolutiva basata sui reperti fossili e sulla anatomia comparata ad una antropologia fondata sulla genetica molecolare.
Il presente articolo è un aggiornamento di quanto scritto mesi fa sulle conseguenze genetiche dell'incrocio tra i sapiens e i neandertal (--> QUI). Se infatti tali unioni sono stati la chiave di volta per consentire il rapido adattamento degli africani sapiens al freddo clima eurasiatico in cui vivevano da millenni i neandertal (acquisizione di pelle chiara, capelli più spessi, o la resistenza all'alta quota --> QUI), cominciano ad emergere dati che indicano anche gli svantaggi per la nostra salute di sapiens sapiens derivati da tale unione e riscontrabili in malattie "moderne" come asma, malattie della pelle e forse la depressione.
Nota. Quando si affrontano temi legati all'evoluzione è fondamentale mettere sempre al centro temi come genetica e selezione naturale. Uno dei più grossi errori quando si sente parlare di selezione dai non addetti ai lavori (e i media da sempre sono i peggiori amplificatori di nozioni che non capiscono) è quello di pensare alla "selezione del più forte". Un errore che varrebbe la bocciatura immediata al corso di genetica del primo anno di università. La selezione favorisce sempre e solo individui con la maggiore fitness, un termine che può essere tradotto come "vantaggio riproduttivo": qualunque mutazione che aumenti la probabilità di riprodursi e di originare progenie fertile in grado di arrivare all'età riproduttiva è dominante rispetto ad un eventuale aumentato rischio di patologie nell'età adulta. Semplificando al massimo il concetto, se una data mutazione aumenta anche di poco la resistenza a malattie dell'infanzia o della prima adolescenza, ma nel contempo aumenta enormemente il rischio di patologie cardiovascolari sopra i 30 anni, questa mutazione sarà evolutivamente favorita. Bisogna infatti ricordare che l'età media dei nostri progenitori era verosimilmente inferiore ai 40 anni e la maturità sessuale (che nel caso delle femmine di qualunque specie equivale a generare progenie nei mesi successivi) era intorno ai 12-15 anni. Una volta "figliato" ed essersi dimostrati in grado di proteggere la prole fino al raggiungimento della loro maturità sessuale, il "lavoro" era fatto. Qualunque problema successivo è, da un punto di vista selettivo, irrilevante.
Torniamo ora ai geni "cattivi" per un sapiens sapiens di derivazione neandertal. Le evidenze sulla loro esistenza sono state presentate da diversi ricercatori nel meeting tenutosi a Vienna nell'ambito della Society for Molecular Biology and Evolution sotto riassunte:
  • Corinne Simonti e Tony Capra, della Vanderbilt University hanno incrociato le informazioni cliniche estratte dalle cartelle di 28 mila pazienti con la frequenza negli stessi di alleli neandertal in modo da verificare se esistessero correlazioni pericolose. I dati indicano che alcune varianti geniche di origine neandertaliana aumentano leggermente, ma in modo statisticamente significativo, il rischio di malattie come l'osteoporosi, patologie della coagulazione e perfino la dipendenza da nicotina. A complicare il quadro il fatto che l'effetto non è quasi mai, come atteso, dovuto all'azione di singoli alleli per sé ma è multiallelico; da qui la correlazione tra aplotipi (gruppi di alleli) antichi e "stati" come depressione, obesità e alcune malattie della pelle. Relazioni non unidirezionali sia chiaro; alcune varianti aumentano il rischio, mentre altre lo diminuiscono.
  • Nello stesso meeting Michael Dannemann del Max Planck Institute ha presentato dati sugli alleli neandertaliani o denisovaniani di geni che codificano proteine chiave del sistema immunitario innato chiamate Toll-like-receptor (TLR), il cui ruolo è scoprire patogeni e attivare una rapida risposta difensiva. Esperimenti in coltura cellulare hanno dimostrato che le cellule con alleli neandertaliani esprimono più TLR rispetto a quelli sapiens, il che potrebbe spiegare da una parte la maggiore frequenza di allergie nei moderni portatori di tali alleli (e in generale nelle popolazioni non-africane... vedi articoli precedenti) e dall'altra il loro essere più protetti dall'infezione da Helicobacter pylori (il batterio causa dell'ulcera gastrica).
  • Il maggior rischio di diabete di tipo II notoriamente presente nei i discendenti degli indios sudamericani e in alcune popolazioni orientali è legato ad un aplotipo particolarmente frequente in queste popolazioni che arriva direttamente dai progenitori neandertal (Williams AL et al, Nature 2014).
Una precisazione è dovuta.
E' errato in questi casi parlare di alleli "cattivi" o "buoni". Si tratta di alleli dimostratisi vantaggiosi in determinate condizioni ambientali che gli antenati sapiens dovettero affrontare nel passato (o in altri casi segregati casualmente per motivi legati a deriva genetica, effetto del fondatore oppure a collo di bottiglia genetico). Con il passare dei millenni, e soprattutto negli ultimi due secoli con l'antropizzazione ambientale e la nascita della medicina moderna, l'ambiente è stato plasmato in modo da favorire la nostra sopravvivenza con il risultato che alcuni alleli un tempo utili hanno (nel migliore dei casi) perso utilità diventano "neutri" e in alcuni casi hanno mostrano i loro "effetti collaterali" prima non visibili semplicemente in quanto non vivevamo abbastanza a lungo o più semplicemente perché il rapporto beneficio/danno era alto.
Ciò che era vantaggioso un tempo non è detto che lo sia oggi come ben insegna il caso degli alleli causa di talassemia accumulatisi (sebbene chiaramente "dannosi") in alcune popolazioni in quanto conferenti una maggiore resistenza alla malaria. Scomparsa la malaria (Sardegna, delta ferrarese, paludi pontine, ...) rimane solo la dannosità.
(prossimo articolo sul tema --> "Lucy cadde dall'albero")

 Fonte
- Neanderthals had outsize effect on human biology
Nature,  luglio 2015
- The phenotypic legacy of admixture between modern humans and Neandertals
Corinne N. Simonti et al,  Science Feb 2016: Vol. 351, Issue 6274, pp. 737-74

Articolo recente sugli incroci avvenuti tra sapiens, neanderthal e denisova
- Analysis of Human Sequence Data Reveals Two Pulses of Archaic Denisovan Admixture
S. R. Browning et al, (2018) Cell 173, 1–9

Aggiornamento 01/2019Un recente studio basato sulle varianti geniche trasmesse dal genitore Neanderthal indica un "allungamento" del cranio rispetto a quello più rotondo di un Sapiens "puro". Una conclusione derivante dallo studio funzionale delle varianti geniche presenti solo nel DNA neanderthaliano. Non ci sono prove che tali varianti abbiano influenzato la capacità cognitiva.


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Sapiens e Neanderthal. Una unione non priva di problemi 
Articolo pubblicato a luglio 2014 (QUI)

Non sappiamo se sia stato amore a prima vista o se gli incroci tra Homo sapiens e Homo neanderthalensis siano stati il frutto di incontri casuali o peggio frutto di scorrerie incrociate. Sta di fatto che noi tutti appartenenti alle popolazioni non-africane di Homo sapiens (e il motivo di questa precisazione lo descriverò tra qualche riga) abbiamo, usando un termine banalizzante ma comprensibile ai non addetti ai lavori, "sangue neanderthal". Lo stesso concetto può essere espresso molto meglio scientificamente scrivendo che una parte del nostro genoma è di chiara provenienza neanderthaliana.
Neanderthal (©Museum of Natural History, Vienna)

Tale affermazione non deriva né da speculazioni né da narrativa para-scientifica, ma è il risultato ottenuto grazie alle sempre più avanzate tecniche di caratterizzazione genomica che nell'ultimo decennio hanno permesso di scandagliare sempre più in profondità nel nostro DNA.
Ciò che una volta (e parliamo della fine dello scorso millennio) era un approccio valido al più per costruire film come Jurassic Park, oggi è diventato una realtà: dai fossili del neandertal è stato possibile estrarre DNA sufficientemente integro da essere sequenziato e le stringhe di informazioni "riordinate" in modo coerente (e questo grazie a software molto potenti). La comparazione tra la sequenza nucleotidica dei nostri "cugini" e la nostra indica in modo chiaro la presenza di una eredità neandertal nel nostro genoma. Presenza attribuibile unicamente ad incroci ripetuti avvenuti quando i due Homo avevano intrappreso percorsi evolutivi separati già da molte decine di migliaia di anni.
Queste unioni sono state una fortuna per i nostri antenati "ibridi" dato che hanno fornito loro una "scorciatoia" evolutiva per adattarsi più velocemente ai nuovi ambienti colonizzati, più freddi di quelli originari e ricchi di microbi ignoti al loro repertorio immunitario.
Tutto facile? Non proprio. Come spesso avviene durante gli incroci tra "quasi-specie" è verosimile che le primissime generazioni di ibridi fossero caratterizzate da ridotta fertilità e da tratti non vantaggiosi per non dire deleteri.
Nota. Quando soggetti di una stessa specie si vengono a trovare separati per un tempo sufficientemente lungo è quasi automatico che accumulino differenze genetiche proporzionali al numero di generazioni trascorse e alla differenza ambientale. Le cause di tali differenze sono molteplici e vanno da fenomeni come founder-effect, bottleneck genetico alla selezione positiva/negativa di nuovi alleli vantaggiosi/svantaggiosi in un dato ambiente; esempio classico di selezione di alleli svantaggiosi è quello causante l'anemia mediterranea in grado di conferire, allo stato eterozigote, un vantaggio selettivo nelle zone malariche. Il caso più noto dei problemi legati all'incrocio tra specie diverse ma molto vicine geneticamente è quello tra cavalli ed asini; simili ma sufficientemente "divergenti" da non essere più in grado di generare una progenie fertile. Quando questo avviene si parla di speciazione ed è biologicamente riassumibile come la incapacità di generare una prole fertile.
Un esempio meno estremo (non è avvenuta, ancora, la speciazione) è quello riferito a popolazioni di scimpanzé che vivono da tempo indefinito in aree adiacenti ma separate tra loro da un fiume sufficientemente largo (le scimmie non sanno nuotare). Lo studio del loro genoma ha mostrato la sedimentazione di tratti specifici, pur abitando in aree sostanzialmente identiche (--> QUI), addirittura maggiori di quelli esistenti tra le popolazioni umane (in cui la separazione geografica è durata poche decine di migliaia di anni).
Torniamo all'incipit dell'articolo odierno in cui accennavo alla unione tra neanderthaliani e sapiens. Per comprendere appieno i riferimenti è tuttavia necessario fare un'altra digressione riassumendo alcuni concetti su quanto è avvenuto dopo la separazione dei due rami evolutivi (sapiens e neanderthal) a partire dall'antenato comune. Questi dati sono essenziali per comprendere il motivo per cui il DNA neanderthaliano è presente unicamente nelle popolazioni non africane.
La zona abitata dai Neanderthal prima della migrazione umana

Le diverse tappe temporali della diffusione del sapiens (credit: nature.org)

Alla luce dei recenti ritrovamenti in Grecia (2019) la prima traccia dei sapiens in Europa è stata spostata a 210 mila anni fa. Paradossalmente prima dei Neanderthal, sebbene questo gap sia verosimilmente conseguenza di reperti Neanderthal meno diffusi (image credit: Nature)


La parentela tra Homo sapiens e Homo neanderthalensis risale ad un antenato comune vissuto circa mezzo milione fa. A tale periodo va infatti fatta risalire con ogni probabilità la separazione geografica (e quindi riproduttiva) tra i due gruppi, iniziata con la migrazione dei proto-neanderthal dall'Africa verso il medio oriente prima ed Europa e Asia poi. Una migrazione che li avrebbe portati in territori climaticamente ben diversi da quelli originari e a cui finirono per adattarsi. Ricordo che il termine "adattamento" va inteso geneticamente, come selezione dei caratteri che meglio aiutano a sopravvivere (e a riprodursi in modo "produttivo") in un dato ambiente. In altre parole la fitness genetica.

Bisognerà aspettare altri 400 mila anni (quindi solo 100 mila anni fa) prima che l'Homo sapiens inizi la sua migrazione dall'Africa, staccandosi dai fratelli africani. Una separazione provata dalle differenze genetiche accumulatesi (causa isolamento riproduttivo) tra sapiens africani e non-africani.

Per evitare equivoci vale la pena sottolineare che questo non implica che uno dei due sia migliore (o più evoluto) dell'altro ma semplicemente che per molte migliaia di anni si è avuta una separazione di fatto tra i sapiens rimasti in Africa e quelli da essa emigrati (quindi oltre agli eurasiatici anche gli abitanti di Oceania e americhe).
L'analisi delle varianti del cromosoma Y (--> Poznik G.D. et al. Nat. Genet. 48, 593–599 (2016)) ha fornito nuove informazioni sul "quando" sia iniziata la migrazione del Sapiens fuori dall'Africa. Uno studio reso possibile dalla trasmissione patrilineare di questo cromosoma che è impossibilitato a ricombinarsi durante la meiosi (tranne nella regione pseudoautosomica) come fanno tutti gli altri cromosomi. Questo suo "isolazionismo" lo rende un formidabile collettore di variazioni genetiche, dal computo delle quali è possibile risalire al momento della separazione di due popolazioni. Alcuni numeri: l'antenato maschio a cui possono essere fatti risalire tutti i cromosomi Y odierni è databile a circa 170 mila anni fa; i cromosomi Y non africani (quelli cioè con alterazioni comparse successivamente alla migrazione) sono databili a circa 70 mila anni fa. 
 Gli ominidi non-sapiens (i neandertal sono solo quelli di maggiore successo) risiedevano in Europa ed Asia da almeno 200 mila anni quando iniziarono i primi contatti con i nuovi arrivati sapiens "appena" usciti dal continente africano. Logico pensare quindi che si fossero pienamente adattati ad un clima (e a patogeni) ben diversi da quelli africani grazie a mutazioni adattive. E' più che verosimile che la velocità (in termini evolutivi) con cui i sapiens riuscirono a colonizzare ambienti così diversi dall'originario sia la diretta conseguenza di incroci con gli autoctoni seguita da una selezione continua durata molte migliaia di anni della progenie che meglio "riassumeva" in se i tratti più idonei. In pratica l'appropriazione del DNA dei neandertal è stata per i nostri antenati una scorciatoia evolutiva che ha fornito la marcia in più per la diffusione sui territori vasti ed eterogenei come quelli eurasiatici.
L'evoluzione della specie umana e i contatti con i Neanderthal: una sola famiglia (immagine riportata dal sito della BBC, ma originariamente pubblicata su Science)
In un certo senso il fatto che le popolazioni africane siano prive di elementi neanderthaliani le qualifica come sapiens puri mentre noi non-africani (sia europei che asiatici, etc) siamo il prodotto di una unione con cugini "diversamente" umani, i neandertal.

Come prima anticipato, la genetica ci ha permesso di scoprire, senza alcuna incertezza, che da questo incontro si produssero delle unioni di cui i sapiens non africani conservano le traccie nel 2-3% del genoma.
Ad aggiungere interesse a queste scoperte rese possibili grazie al Progetto Genoma, si aggiunge il dato eccezionale di qualche anno fa (di cui ho già parlato in un precedente articolo--> QUI) riferito alla identificazione di un nuovo "cugino", noto come Homo denisova, un parente prossimo del Neanderthal. I denisoviani avevano colonizzato alcune regioni dell'Asia centrale e si trovarono sulla rotta migratoria dei sapiens già incrociatisi con i Neanderthal. Risultato? Un nuovo incrocio di cui si trovano oggi le tracce unicamente in alcune specifiche popolazioni di Malesia, Filippine e nei tibetani (vedi --> QUI), i diretti discendenti di questo incontro.
A questo punto dovrebbe essere chiaro per quale motivo solo le popolazioni non-africane hanno DNA neanderthaliano. Riassumiamo gli elementi principali:
  • sapiens e neanderthal si sono indubbiamente incontrati e hanno generato della prole;
  • le due popolazioni, nonostante la separazione durata 400 mila anni, non avevano ancora portato "a termine" il processo di speciazione. Come detto in apertura la definizione biologica di specie definisce organismi dal cui incrocio si generano individui ugualmente fertili;
  • la predominanza assoluta del genoma sapiens ci qualifica come "sapiens con tracce di neandertal" e non viceversa, ad indicare che gli incroci sono si avvenuti in modo ripetuto ma "all'interno" della comunità sapiens; altrimenti saremmo "neandertal con tracce di sapiens". Questa unione quantitativamente ineguale potrebbe a sua volta indicare che i neandertal fossero in crisi demografica o troppo sparsi al momento dell'arrivo delle prime ondate di sapiens e/o che i rapporti tra le due popolazioni si siano rivelati da subito poco amichevoli, tale da rendere gli accoppiamenti minoritari sul totale della popolazione. Questo però non permette di comprendere per quale motivo il DNA neandertaliano sia presente in tutti gli appartenenti  a popolazioni non africane. Se ci fosse stata una chiara superiorità numerica o se gli incroci fossero stati rari la logica conseguenza sarebbe la presenza di un numero rilevante di individui privi di DNA neanderthal. Il che, pur in presenza di una certa variabilità, non è stato osservato.
  • Qualcuno potrebbe anche ipotizzare che i neandertal si siano rivelati meno adatti a superare repentini cambiamenti climatici, magari associati alla fine delle grandi glaciazioni. Una spiegazione che non mi convince completamente dato che i neandertal erano sopravvissuti egregiamente per 400 mila anni in Eurasia, un tempo sufficiente per avere affrontato almeno due periodi interglaciali (grafico --> qui).
  • Una valida ipotesi alternativa (non escludente la precedente) è che la progenie ibrida abbia "raccolto" sia elementi positivi (favoriti) che negativi (sociali? di fitness?) su cui la selezione abbia agito con il risultato di un "peso" neandertal/sapiens quale quello attuale.
  • Nel periodo intercorso tra l'arrivo dei sapiens in Europa (~ 45 mila anni fa) e l'invenzione dell'agricoltura e quindi dei primi villaggi stabili (~ 8500 anni fa) la componente neandertaliana del nostro genoma è passata dal 3-6 per cento a meno del 2 per cento; una chiara indicazione di una selezione debole ma continua contro alcuni geni e in favore di pochi altri.
L'elemento centrale su cui concentrarsi è che se le popolazioni moderne non-africane hanno conservato in modo pressoché uniforme parte del genoma neandertaliano, questo indica che tutte queste popolazioni derivano da soggetti ibridi. L'assenza di "sapiens puri" tra i non-africani indica sia che sul lungo periodo i "puri" si siano rivelati non idonei come fitness alla vita in eurasia ma anche che l'ibrido perfetto (o in ogni caso quello con maggiore contenuto di alleli neandertal) era idoneo.
Una ipotesi, quella di uno svantaggio riproduttivo degli ibridi, non peregrina se si tiene a mente quanto detto sopra: le due popolazioni erano rimaste separate per un tempo abbastanza lungo (cosa non più capitata da allora nell'ambito della specie sapiens sapiens) e sappiamo che questo in automatico porta alla selezione e/o alla segregazione casuale di caratteristiche fisiologiche, metaboliche e strutturali (in una parola genetiche) che in un ibrido possono portare ad un considerevole abbassamento della fitness. In particolare è a livello meiotico (il processo alla base della formazione dei gameti) o embrionale che eventuali discordanze cromosomiche o genetiche, rispettivamente, si manifestano. Il mulo è sterile, sebbene sano in tutto il resto, dato che il suo "problema" è nella impossibilità di formare gameti funzionali durante il processo meiotico.
Ed ecco che finalmente arriviamo al tema centrale dell'articolo odierno, che vuole riassumere quanto emerso da due articoli pubblicati sulle riviste Nature e Science, entrambi centrati sulle problematiche di fitness di un ibrido "puro" sapiens/neandertal. Entrambi i lavori hanno usato come punto di partenza l'analisi delle regioni del nostro genoma di ascendenza neandertaliana. Tali aree, che rappresentano meno del 3 % del nostro genoma, non sono organizzate in modo contiguo ma distribuite su tutti e 23 i cromosomi.
L'interesse dei ricercatori era comprendere quali fossero le funzionalità (cioè i geni e le regioni regolatrici) conservatesi durante la successiva 'evoluzione del sapiens e quali invece le zone perse. Se i geni si sono conservati negli ultimi 60 mila anni dall'incontro con l'ultimo neanderthal qualche vantaggio devono averlo fornito. Se si fosse trattato di alleli (o geni omologhi) leggermente svantaggiosi o semplicemente neutri per la fitness, sarebbero stati persi per diluizione nel giro di qualche decina di generazioni. Cosa che ovviamente non è avvenuta.

Nel lavoro pubblicato su Science (Benjamin Vernot et al) è stato confrontato il DNA di 665 europei e asiatici dell'estremo oriente con quello ottenuto dai fossili di neandertal. Il dato più importante emerso è che se è vero che meno del 3% del totale del nostro genoma è neandertal, dall'altra parte la quantità del genoma neandertaliano trasferitasi negli umani moderni è del 20%.
Un dato estremamente interessante che indica come durante il processo selettivo sugli ibridi si sia "trovato qualcosa di utile e/o di non deleterio" nel 20% del genoma neandertal degno di essere selezionato. Tra i geni neandertal "di successo" molti sono funzionalmente correlati alla fisiologia della pelle.

Risultati sostanzialmente in accordo con i precedenti sono quelli pubblicati su Nature dal team di David Reich. I geni neandertaliani emersi come evolutivamente vantaggiosi dal confronto del genoma di 1004 persone con quello neandertaliano, sono funzionalmente correlati con la cheratina, una delle proteine chiave del rivestimento cutaneo. Un dato che indica come la "qualità" della pelle abbia svolto un ruolo chiave nell'adattamento alle regioni con minore irradiazione solare. Non solo maggiore resistenza al freddo ma anche resistenza a patogeni ambientali.  

Tra gli elementi più interessanti emersi da entrambi i lavori vi è il fatto che ci sono larghe porzioni genomiche dei neandertal che sono andate completamente perse nel nostro genoma. Un dato questo che indica l'esistenza di una selezione negativa più che una neutralità selettiva. Un concetto sottolineato da Reich: "i dati suggeriscono fortemente che molti geni neanderthal si sono rivelati dannosi nell'ibrido e in tutti i suoi discendenti. Non a caso sono stati persi in solo poche generazioni successive alla nascita dell'ibrido".
Non sorprende allora scoprire che le regioni genomiche dei sapiens in cui la componente neandertaliana è assente sono anche quelle più ricche di geni a dimostrazione della esistenza di una forte pressione selettiva che ha rimosso le zone "dannose". Ancora meno sorprendente, ma scientificamente eccitante, scoprire che queste zone contengono i geni maggiormente espressi nei testicoli e che il cromosoma X (i cui geni sono particolarmente soggetti a selezione a causa dei problemi di dosaggio genico nei sessi) abbia circa cinque volte meno materiale genetico derivato dai neandertal di quanto osservabile negli altri cromosomi.
Se dovessimo riassumere in una frase il concetto che emerge da questi dati, l'ipotesi è che gli alleli neanderthaliani presenti nei maschi ibridi abbiano portato ad una drastica riduzione di fertilità.
Con il passare delle generazioni la pressione selettiva, volta a favorire i soggetti a maggiore fitness riproduttiva, avrebbe portato a ibridi dotati della minor quantità possibile, a parità di vantaggi generali, di alleli neandertaliani "dannosi". Il fatto che l'equilibrio si sia spostato verso la bassa percentuale di alleli neanderthaliani invece che l'opposto (in fondo era solo l'ibrido "puro" ad avere una minore fitness) è verosimilmente il risultato o di una preferenza per partner "sapiens", voluta o forzata che fosse o di un vantaggio competitivo innegabile per i sapiens.
In entrambi i casi si spiegherebbe la rapida (secondo una scala evolutiva) diluizione del genoma neandertal ma "lento" a sufficienza da permettere la costante presenza di ibridi nella popolazione a svantaggio dei sapiens "puri".
L'evoluzione procede grazie a mutazioni e alla diffusione di queste nella popolazione fino a che un tratto "vantaggioso" emerge e riesce così a fissarsi nella popolazione. Rimanendo in ambito umano le scoperte fatte in questi hanno permesso di disvelare alcuni dei passaggi chiave (molto spesso su geni importanti nella neurogenesi) che hanno accompagnato la separazione degli umani dai primati non umani.
Un esempio tra tutti, la duplicazione del gene SRGAP2B, avvenuta tre volte durante la storia evolutiva del genere Homo e che ha reso possibile l'aumento dimensionale della corteccia cerebrale. Un passaggio che segnò il distacco de facto del genere Homo da quello Australopithecus (vedi questo articolo per approfondimenti)
E infatti oltre ai geni strutturali della cute, nell'articolo pubblicato su Science si legge che tra le regioni ereditate dai neandertal ve ne è una abbastanza ampia che contiene, tra gli altri, il gene FOXP2, fondamentale per l'apprendimento e la capacità linguistica.
FOXP2 è un gene estremamente conservato tra i vertebrati e questo è particolarmente evidente all'interno dei primati. Per capirci la differenza tra la proteina umana e quella nei primati non umani sono solo due aminoacidi (tra noi e i Neandertal la differenza è solo a livello intronico). E sappiamo che è sufficiente una sola mutazione in questo gene per generare forti deficit nella capacità comunicativa (casistica estremamente rara ma nota da un punto di vista clinico grazie alla familiarità del difetto). Vedi QUI per ulteriori dettagli. 
credit: SE Fisher, Current Biology (2019)

Pelle chiara, arcata orbitale pronunciata,
questi alcuni dei tratti neanderthaliani
(ricostruzione al computer)
In conclusione i dati ottenuti sembrano indicare che quando si incontrarono gli umani e i neanderthal erano "ai confini della compatibilità biologica", per usare le parole di Reich, " e per questo motivo gli ibridi risultanti hanno sofferto di un elevato tasso di infertilità" (aggiornamenti sul tema in un successivo articolo -->QUI)

Una  domanda allora sorge spontanea. "Quanto erano diversi i sapiens e i neandertal quando si incontrarono"?
Estremizziamo il concetto e immaginiamo di usare una macchina del tempo e di trasportare un Inuit di cent'anni fa (sicuramente non entrato in contatto da millenni con popolazioni diverse) dall'Artico all'Africa equatoriale. La ridottissima capacità di sudare, legata all'essere il risultato della selezione di individui adatti a vivere in ambienti freddi, avrebbe causato non pochi problemi di dissipazione del calore nel clima equatoriale. Se consideriamo che il tempo di separazione tra un inuit e l'antenato che viveva in climi più caldi è inferiore a 5 mila anni possiamo ben immaginare la divergenza (e l'adattamento) a cui era giunto il neandertal in 400 mila anni dalla sua uscita dall'Africa.  
E a seguire "è verosimile che un neandertal e un essere umano si siano accoppiati anche se avevano intrapreso strade evolutive divergenti"?
Sebbene le differenze tra un neandertal e un sapiens siano evidenti a livello morfologico queste differenze non sono tali da rendere evidente la non "umanità".
William Straus, anatomo-paleontologo statunitense della Johns Hopkins University, è l'autore di una frase rimasta celebre
"Se si potesse trasportare un Neanderthal ai giorni nostri e lo si lasciasse nella metropolitana di New York, opportunamente lavato, sbarbato e modernamente vestito, difficilmente verrebbe notato" (da Quarterly Review of Biology, p. 359)
Ovviamente checché ne pensi Strauss sui frequentatori della metropolitana di New York, "non ci sono in giro Neanderthal, quindi non è possibile fare un esperimento di accoppiamento" ha commentato Daven Presgraves, un biologo evoluzionista presso l'Università di Rochester a New York.
Come apparirebbe un Neanderthal in visita al museo omonimo (sito nel luogo di ritrovamento dei primi fossili) in Germania. (©Neanderthal Museum)

Che non ci fossero barriere di aspetto (o di feromoni) sostanziali devono averlo pensato anche i sapiens quando incontrarono i neandertal (o semplicemente non si posero il problema essendo meno "sofisticati" di noi), sta di fatto che è indubbio che siano accoppiati. Alcuni degli ibridi nati da questo incrocio furono abbastanza fortunati da potere contare sui vantaggi associati a ciascuna specie del genere Homo: da parte neandertal la resistenza al freddo, alle infezioni locali e all'aumentata esposizione alle radiazioni ultraviolette (maggiore ad alte latitudini) e dall'altra le migliori capacità intellettive (linguaggio, astrazione, sociali, di adattabilità, etc) che il sapiens aveva evoluto e che di fatto determinarono l'esito della competizione per la stessa nicchia ecologica tra i due Homo.

Come sia scomparso il neandertal è difficile da dire.
Potrebbero essere stati soverchiati numericamente dai sapiens e quindi integrati, essere usciti sconfitti dalla competizione per la stessa nicchia ecologica finendo relegati in aree geografiche sempre più remote oppure essere stati annientati (magari divenendo cibo) dai nostri antenati.
Di sicuro ne è uscito sconfitto dato che la quantità di suo DNA nel nostro genoma è solo del 2%. Partendo dal presupposto che i neanderthal erano maggioritari quando i sapiens arrivarono nei nuovi territori, il fatto che i sapiens abbiano vinto e che si siano portati dietro "solo" il 2% del genoma dei cugini è indicativo dell'esistenza di un qualche fattore che lo ha reso "perdente" nella competizione.
Guardare nel passato è guardare in noi stessi (©Neanderthal Museum)

Entusiasta delle recenti scoperte è Sarah Tishkoff, una genetista di popolazioni presso l'università della Pennsylvania, che afferma "i nuovi sviluppi della genomica ci hanno permesso di capire molto di più [in dieci anni] di quanto sia stato mai possibile fare con la paleontologia". La scoperta dell'Homo denisova ne è l'esempio eclatante.
Nel prossimo futuro sarà possibile ricostruire in dettaglio l'evoluzione umana sfruttando solo il DNA delle popolazioni umane moderne. In particolare sono le popolazioni africane a stuzzicare la curiosità degli antropologi. La scarsità di reperti fossili da cui sia possibile estrarre DNA in Africa ha di fatto rallentato gli studi sulla diffusione dell'Homo sapiens nel continente africano. La comparazione del DNA tra le diverse popolazioni del continente (in particolare di quelle etnie che sono rimaste geograficamente isolate) potrà fornire un valido strumento di analisi e ci permetterà di sollevare il velo sui nostri antenati.
Neanderthal vs Sapiens (credit: Philipp Gunz via Nature)



(articolo precedente sul tema--> "Neanderthal. Cugini non così primitivi")
Fonti
- Resurrecting Surviving Neandertal Lineages from Modern Human Genomes
  Benjamin Vernot, Joshua M. Akey, Science (2014) 343 (6174) 1017-1021
- Modern human genomes reveal our inner Neanderthal
  Nature (2014) 1038
- The genomic landscape of Neanderthal ancestry in present-day humans
  Sriram Sankararaman et al, Nature (2014) 507 (1038) 354–357
- The genetic history of Ice Age Europe
Nature (2016) 534, pp. 200–205




***
Un libro per approfondire l'argomento Homo neanderthalensis, scritto in modo chiaro e "pensato" alla luce delle recenti scoperte nel campo della genomica (ivi compreso i rapporti con l'Homo denisova).

Disponibile su Amazon--> Neanderthal Rediscovered

Un virus abissale, direttamente dalla Fossa delle Marianne

Scoperto un nuovo virus abissale ... da NON confondere (almeno speriamo) con il famigerato virus T-Abyss presente nella serie Resident Evil. 

Il virus è stato identificato dai sedimenti fangosi prelevati a 8900 metri di profondità.
Una scoperta utile per far luce sugli ecosistemi microbici esistenti in queste aree remote ed estreme (per temperatura e pressione giusto per citare le principali), note come zone adopelagiche, la cui importanza arriva "fino alla superficie" dato l'importante ruolo svolto nel ciclo del carbonio e quindi nel clima globale.

Tecnicamente, il virus appartiene alla (nuova) famiglia dei Suviridae, che come tutti i batteriofagi sono capaci di infettare solo i batteri, quindi totalmente innocui per gli eucarioti. I batteriofagi, intesi come categoria ombrello, sono presenti praticamente in ogni ecosistema sul nostro pianeta e possono essere incredibilmente abbondanti con concentrazioni marine che possono arrivare a 10^7/ml.
In verità non è il primo ritrovamento del genere con il precedente ottenuto su fondali quasi 1000 metri più in alto, 8000 metri sotto la superficie oceanica.
I risultati dello studio che hanno portato alla identificazione del nuovo membro, denominato fago vB_HmeY_H4907, sono stati pubblicati la scorsa settimana sulla rivista Microbiology Spectrum.
Il batteriofago vB_HmeY_H4907.
Image credit: Su et al., doi: 10.1128/spectrum.01912-23.
Di particolare interesse la modalità usata per identificarlo. In condizioni normali i virus vengono identificati o dall'analisi al microscopio elettronico delle cellule infettatesi naturalmente o meglio ancora   coltivando le cellule bersaglio in presenza della probabile sorgente del virus, come fluidi (siano essi acque reflue/ambientali o liquidi corporei). Una procedura qui improponibile sia per la difficoltà di coltivare dei batteri capaci di crescere solo in condizioni estreme che della non conoscenza sulla presenza o meno di virus nei campioni prelevati.
Il metodo usato è di tipo induttivo cioè basato sia sugli studi precedenti che dall'analisi genetica dei batteri che vivono in queste aree, da cui ottenere indizi sulla presenza o di virus lisogenici (già integrati nel genoma batterico) e della permissività di tali batteri ad essere infettati da virus di famiglie già note.

Senza troppi altri tecnicismi, i ricercatori sono così riusciti a scovare un nuovo fago in grado di infettare batteri della famiglia Halomonas, noti per essere presenti sia nelle zone adopelagiche che in altri luoghi estremi come le bocche idrotermali delle acque profonde.
Batteri molto studiati sia per come "materiale di lavoro" nel campo della biologia sintetica che per la loro capacità di scomporre gli idrocarburi del petrolio (utili per le geoprospezioni petrolifere) che per il potere proliferare in aree ad alta salinità, in pH alcalino e possedere una alta tolleranza alla contaminazione. La loro abbondanza perfino in zone profonde come la Fossa delle Marianne (10900 metri, pressione di circa 1064 atmosfere) suggerisce un loro ruolo ecologico importante in questi ambienti.
Ad oggi erano due i virus noti per usare usare Halomonas, tre con il nuovo arrivato.
L'analisi genetica del fago ha evidenziato che usa una strategia lisogenica, particolarmente utile in un ambiente dove gli ospiti non abbondano. Con l'aiuto del microscopio elettronico a trasmissione, i ricercatori sono perfino riusciti a vedere la "testa icosaedrica" del fago, grande circa 65 nanometri, e la sua "coda" non contrattile lunga 183 nanometri.
Altri dati ricavati dal genoma indicano che vB_HmeY_H4907 non ha molti parenti prossimi (evolutivamente distante da altri virus di riferimento) ma ha molti tratti genetici in comune con il suo ospite batterico, indicativo di una loro coevoluzione in ambienti così difficili.
Non si può escludere che il fago sia anche portatore di "informazioni" utili per la sopravvivenza del batterio, ma questa ad ora è mera speculazione.

Per concludere, non bisogna sottostimare l'impatto di questi regni microbici, per di più sperduti negli abissi. Vero che sono microscopici ma la biomassa complessiva di questi organismi (e il loro essere altri diretti del ciclo del carbonio e altro) spiega la loro influenza sull'ecologia globale
I batteriofagi hanno anche un ruolo (e prospettive di utilizzo) molto importanti perfino in ambito terapeutico, utilizzabili come antibiotici "viventi" per combattere infezioni batteriche altrimenti incurabili. Sul tema rimando a precedenti articoli "ripristinare la sensibilità batterica agli antibiotici", "la nostra sfida ai superbatteri
Fonte
- Identification and genomic analysis of temperate Halomonas bacteriophage vB_HmeY_H4907 from the surface sediment of the Mariana Trench at a depth of 8,900 m
Yue Su et al, (2023) Microbiology Spectrum

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Dal mondo Resident Evil, ecco alcuni gadget "virali"
A cominciare dalla (finta) fiala virus T-Abyss perfetta per cosplayers
 
e le action figure tematiche


E se la prossima pandemia venisse da un fungo?

E se la prossima pandemia (perché ci sarà) venisse da qualcosa di ben diverso da un virus, il parassita per antonomasia, ad esempio da un fungo?
Questo è l’argomento che esplora il libro “Blight: fungi and the coming pandemic”. Non un romanzo ma un saggio scientifico che esplora una minaccia emergente per la salute pubblica figlia sia della globalizzazione che del riscaldamento globale.
In verità non si tratta di una minaccia mai sentita essendo stata descritta sia in videogiochi/serie TV (The last of us), che in libri di SF (The Genius Plague). Ma, come si suol dire, la realtà supera di molto la fantasia come ben evidente in Natura, dove abbiamo funghi che zombificano le formiche  per renderle vettori di disseminazione delle spore o, in tutt'altro scenario, l’ecatombe dei castagni americani, descritta anche nel bel libro di bryson “Una passeggiata nei boschi”.

Delle formiche zombie ne ho scritto in dettaglio in un precedente articolo a cui vi rimando (vedi QUI), mentre sui castagni ne riassumo ora gli eventi.
Nell’estate del 1904 i castagni americani (Castanea dentata) del Bronx, dove ha sede il famoso zoo, cominciarono a mostrare evidenti alterazioni. Le foglie, tipicamente sottili e di un verde brillante, mostrarono prima bordi arricciati per poi diventare gialle; su rami e tronchi comparirono in alcuni casi strane chiazze color ruggine. Dal momento della rilevazione dei primi sintomi fu sufficiente 1 anno perché tutti tutti gli alberi di castagno nei dintorni risultassero moribondi. Passa qualche decennio (siamo intorno al 1940) e tutti i castagni americani nativi (siti nella zona orientale degli USA, lungo la catena degli Appalachi) erano oramai morti o moribondi.
Un castagno infetto
Il colpevole era un fungo (Cryphonectria parasitica) causa del cancro corticale del castagno, importato casualmente insieme ad esemplari di castagni giapponesi.
I castagni americani sono invece più resistenti ad un altro fungo, Phytophthora cambivora, di cui soffrono i castagni europei e che causa il cosiddetto mal dell'inchiostro.
I castagni giapponesi, evolutisi per contrastare un parassita endemico, funsero da "portatori sani" del fungo che una volta approdato nel nuovo mondo si trovò di fronte delle "vittime" prive di difese finendo così per soccombere, tranne in alcune aree isolate (lontane dalla minaccia fungina) come il Rock Creek Park.
Nelle foreste un tempo dominate da castagni maestosi, alti come un edificio di 9 piani, sopravvivono (a tempo) alcuni castagni immaturi nati dalle radici ancora vive di alberi morti. Purtroppo per loro questi germogli non hanno alcuna speranza di sopravvivere fino all’età adulta per svettare; il fungo è ancora lì pronto a colonizzare gli alberelli nel momento in cui germogliano.

Il destino del castagno americano è solo un esempio della devastazione che i funghi possono provocare,
Il libro prima menzionato ci offre un resoconto illuminante, e a volte macabro, delle malattie fungine che minacciano pini, banane, rane, pipistrelli e, sempre più, le persone.
Sia chiaro, non tutti i funghi sono nocivi come ben dimostrano le forme commestibili (o che aiutano nella preparazione di cibi e bevande come i lieviti) e soprattutto i funghi saprofiti, fondamentali nella decomposizione degli organismi morti, rimettendo i circolo gli elementi essenziali per la vita. Ad esempio il legno degli alberi defunti, tra i materiali più resistenti alla decomposizione, rimarrebbe li per “sempre” se non fosse per l’azione combinata di di batteri e (su tutto) funghi.
Il problema è quando organismi non autoctoni si trovano trapiantiati (trasportati insieme alle merci) in posti in cui non hanno né nemici naturali né competitori. Se questo vale per animali e piante “aliene”, vale ancora di più per organismi microscopici ben più difficili tra controllare. Le conseguenze possono essere catastrofiche
Esempi in tal senso (dette specie aliene ... per un dato territorio) sono purtroppo innumerevoli e vanno dallo scoiattolo grigio al pitone in Florida (ne ho scritto QUI), dai gamberetti ai funghi, ... . QUI un elenco più esaustivo.

Fortunatamente*, noi mammiferi siamo troppo caldi per essere appetibili per la maggior parte dei funghi. Un dato ben evidente da chi ha esperienze di laboratorio, che sa che i funghi crescono preferenzialmente a 30 gradi, mentre le cellule di mammifero e i batteri di uso comune (derivati non a caso da ceppi colonizzanti l’intestino, come E. coli) necessitano di 37 gradi. I nostri corpi sono l’equivalente della Valle della Morte per molti funghi. Laddove le condizioni siano "permissive" per i funghi, ecco che gli animali sociali come formiche e termiti applicano procedure di rimozione drastiche per gli infetti.
* una affermazione che è implicitamente vera, ricalcante il famoso principio antropico: se non fosse così (i funghi non avessere questo punto debole) noi non saremmo qui a parlarne ma come mammiferi saremmo diventati loro cibo preferito fin dai tempi della comparsa del "sangue caldo" nei vertebrati
Altro ostacolo per i funghi viene dal nostro sistema immunitario abile (ancora, ha DOVUTO diventarlo) nel riconoscere e respingere i potenziali invasori fungini che nella maggior parte dei casi rimangono confinati nella loro azione su mucose, cute e unghie). Protezione che dura almeno fintanto che il sistema immunitario funziona a dovere come ben sanno le persone con immunodeficienze esposte ad attacchi molto pericolosi da parte di funghi come la Candida che nei soggetti sani sono al più un fastidio.

Ma non si tratta di una protezione perenne come la certezza che un batteriofago (virus batterici) che per quanto abbondanti ( nel mare se ne possono trovare fino a 10^7 fagi/ml) non potranno mai e poi mai, qualsiasi siano le mutazioni, diventare capaci di infettare una cellula eucariote.

I cambiamenti climatici sono oggi una variabile di cui si deve tenere conto. Il riscaldamento globale ha già reso possibile la migrazione di specie in territori prima a loro preclusi (vedi il mar mediterraneo e le specie tropicali) e i funghi potrebbero essere forzati ad adattarsi a temperature più elevate, diventando così meno “intolleranti” alle nostre temperature.
Cito la Candida auris che nell’ultimo decennio si è adattata diventando capace di infettare le persone fino a diventare un fattore di rischio concreto nelle strutture sanitarie (vedi qui), già prone per loro natura a facilitare la selezione e diffusione dei superbatteri. Anche altre infezioni fungine umane, come la coccidioidomicosi potrebbero presto seguire in questo adattamento.
Un rapido sguardo sulle pandemie fungine che oggi colpiscono altre specie ci offre una lezione sul loro potenziale effetto devastante, se avvenissero in tempi rapidi, senza dare il tempo al “bersaglio” di sviluppare contromisure.
Chiaro che, in un arco di tempo sufficiente, le piante e gli animali colpiti possono adattarsi per gestire meglio i nemici fungini come avvenuto per le rane nel Parco Nazionale di Yosemite, che nonostante siano infette non mostrano più i segni della malattia, oppure i pini dalla corteccia bianca (Pinus albicaulis) degli Stati Uniti occidentali che, a differenza dei cugini pini bianchi della costa orientale,  hanno geni per la resistenza alla malattia nota come ruggine del pino bianco (endemica nell'area da circa un secolo)

Potrebbe aiutare anche l’ausilio di tecniche di ingegneria genetica, come stanno cercando di fare alcuni ricercatori, mediante l’inserimento di geni per la resistenza presi dai resistenti (come i castagni giapponesi) per inserirli nei cugini americani,

In caso di pandemia umana potremmo non avere il tempo necessario per "adattarci" e di sicuro non potremmo godere di tecniche di ingegneria genetica per renderci resistenti. Quindi meglio che non accada


Libri suggeriti sul variegato universo dei funghi ... a cominciare da "Funghipedia"


Formiche zombie. Il risultato di una lotta tra formiche e funghi vecchia di milioni di anni

[originale 08/2013. Aggiornato 09/2023]
Ogni giorno, da milioni di anni, le formiche operaie lasciano il nido la mattina e con le compagne vanno alla ricerca di cibo e di materiali utili. 
Ogni giorno, nelle zone tropicali, all'interno di questo flusso ininterrotto di pendolari potremmo scorgere delle formiche che invece di muoversi speditamente sui rami, vagano senza meta apparente e in modo goffo, inciampando di frequente. 
Ogni giorno intorno a mezzogiorno queste formiche "confuse", come in risposta ad un rintocco lontano, seguiranno un preciso programma comportamentale che le condurrà alla fase finale della loro vita di "non morti". Si agganceranno con le mandibole alla parte inferiore di una foglia posta a circa 25 cm di altezza dal suolo e in coincidenza con una vena succosa, e lì moriranno.
Formica zombificata da cui esce il fungo che dissemina le sue spore sul terreno sottostante... pronte per colonizzare altre formiche (image: Kim Fleming via Wired)
Ho usato non a caso il termine "non-morte" per queste formiche. Si tratta di formiche infettate, e oramai condannate, i cui movimenti sono controllati da un organismo parassita. 

Torniamo alla scena della formica che si aggancia alla foglia e li, con la mascella bloccata, si lascia morire. Come in una variante della serie "Alien", pochi giorni dopo l'infezione dalla testa della formica emergerà il gambo di un fungo che giunto a maturazione rilascerà nell'area sottostante le spore. Ogni tanto qualcuna di queste spore verrà raccolta dalle formiche di passaggio e questo perpetuerà il ciclo infezione - "zombificazione" - diffusione delle spore.

A scrivere una trama del genere in un libro di fantascienza-horror si correrebbe il serio rischio di sfidare l'incredulità del lettore, ma come scrisse qualcuno anni fa "solo dalla letteratura si pretende la verosimiglianza, la vita è di per se molto più incredibile".

Il fenomeno sopra descritto è ben documentato da anni. Il termine di formiche-zombie per le formiche infettate è dovuto al loro essere del tutto prive del controllo dei movimenti, quasi come dei morti che camminano. Le prime descrizioni presenti nella letteratura scientifica risalgono al 19mo secolo e furono documentate in Indonesia da Alfred Russell Wallace.

Il termine "zombie", tuttavia, pur suggestivo non è del tutto corretto (a meno di non usare come riferimento i zombie-rabbiosi ma vivi de "La città verrà distrutta all'alba" di George Romero). Non si tratta infatti di formiche resuscitate dalla morte ma di un meccanismo parassitario fungino estremamente sofisticato che opera prendendo il comando del sistema nervoso della formica in modo da trasformarla nel terreno di coltura ideale per la propria crescita. Una volta che il fungo ha preso il controllo, "costringe" la formica a cercare la posizione ideale (per il fungo ovviamente), e lascia la formica a morire. Quello che serve al fungo ora è procedere spediti nella fase finale della maturazione, una fase in cui l'integrità strutturale della formica non è più importante.
La posizione della formica e l'altezza della foglia sono entrambi ideali visto che si trovano ad una altezza sufficiente dal suolo perchè le spore possano diffondersi facilmente nella zona senza che le altre formiche si accorgano del pericolo.
Primo piano del fungo che emerge dalla parte posteriore della testa (®David Hughes, Penn State University)

Credit: Nat. Geogr.

Gli attori di questa danse macabre sono il fungo Ophiocordyceps (un parassita obbligato) e le formiche carpentiere del genere Camponotus. Un duetto che continua da milioni di anni (le tracce fossili nell'ambra fanno pensare ad una disfida che dura da almeno 48 milioni di anni) e che, ovviamente, ha visto la nascita di rapporti specifici fra molte specie di funghi e altrettante specie di formiche. In un articolo del 2011 pubblicato sulla rivista PLoS ONE, i ricercatori  Harry EvansSimon Elliot e David Hughes del Dipartimento di Biologia Animale presso l'Università Federale di Vicosa in Brasile, hanno descritto quattro nuove specie del fungo Ophiocordyceps trovate in un piccolo tratto di foresta pluviale nel sud-est del Brasile. Ognuna di queste specie di funghi parassita solo una delle specie di formiche Camponotus, a denotare un elevato grado di specializzazione.

Non è tutto. Un ecosistema naturale in equilibrio prevede che i predatori siano loro stessi soggetti alla possibilità di essere predati. In questo caso il fungo stesso può essere parassitato da altri funghi.
Ricercatori danesi (Andersen et al, PLoS ONE, maggio 2012) hanno trovato sul cadavere di una formica parassitata una specie di fungo del tutto diversa. Questo ulteriore parassita, detto iperparassitaimpedisce al fungo originale di emettere le sue spore, di fatto sterilizzandoloL'iperparassita sfrutta quindi il primo parassita, e si riproduce al suo posto. Non stupisce quindi che anche questi iperparassiti abbiano una forte preferenza sul tipo di organismi da parassitare e siano essi stessi dei parassiti obbligati.
Oltre ai funghi i ricercatori hanno trovato anche piccoli insetti della famiglia Cecidomyiidae intenti a deporre le uova nel cadavere della formica infetta. Le larve crescendo si nutriranno del fungo.
Un vero e proprio micro-ecosistema che in ultima analisi ha permesso alle formiche di sopravvivere. Dato che il secondo fungo impedisce la sporificazione del primo, il numero di spore da esso prodotte (quindi la capacità di infettare le formiche) viene fortemente ridimensionato. La formica in se è diventata la "irrilevante" vittima sacrificale che garantisce la sopravvivenza delle sue sorelle. L'iperparassita infatti NON è in grado di infettare direttamente le formiche.
 David Hughes, professore associato di entomologia e biologia alla Pennsylvania State University, ha aggiunto in un articolo del 2011 su Ecology BMC, nuovi dettagli sulla fase infetta della vita della formica. I primi indizi di una infezione in atto si hanno quando la formica si allontana, barcollando come fosse ubriaca, dalla zona asciutta e elevata di un albero per dirigersi verso quella più umida del suolo. Il movimento della formica appare casuale e sono frequenti le convulsioni che la fanno cadere. 
Ed è in questo frangente che la formica smette di essere tale. Non è più una formica! 
Nel momento stesso in cui appaiono i sintomi, questi sono la conseguenza dell'attivazione dei geni fungini che hanno preso possesso del sistema nervoso della formica e la guidano come un oggetto telecomandato. Della formica a questo punto esiste solo il corpo. Come se il sistema operativo della macchina vivente formica fosse stato cancellato e al suo posto fosse stato caricato quello di un programma hacker. Da qui la denominazione zombie usata per i computer sotto controllo di malware esterni. 
Secondo Harry Evans il responsabile diretto del controllo è una tossina prodotta dalle cellule fungine. Dall'analisi della formiche nelle diverse fasi del processo infettivo si è in effetti scoperto che al momento della comparsa del movimento scoordinato, le cellule fungine hanno di fatto colonizzato la testa dell'insetto. Una disseminazione per nulla casuale visto che il cervello in gran parte rimane libero, così come le ghiandole e i muscoli. Le cellule fungine si distribuiscono in modo altamente specifico, così da controllare e condizionare; una distribuzione molto diversa da quella che ci si aspetterebbe se fosse in atto una "semplice" invasione dei tessuti da parte di un parassita.
Tutto è finalizzato a rendere la fase di sporificazione la più efficiente possibile. 
La posizione, l'ora, la modalità con cui la formica si aggancia alla foglia e perfino l'orientamento (invariabilmente nord-nordovest) sono il risultato della attività fungina, un comportamento totalmente assente nelle formiche sane.
Un esempio chiarificatore. E' sempre il fungo che induce l'atrofia delle cellule muscolari della mandibola; di conseguenza quando la formica "morderà" come ultimo atto la vena della foglia nel cosiddetto "aggancio mortale" la mandibola si bloccherà definitivamente lasciando la formica li a morire (entro 6 ore), il fungo a germogliare (due-tre giorni dopo) e le spore a diffondersi da una posizione ideale.
Dal momento in cui inizia a germogliare alla maturazione completa passano alcune settimane. Una crescita relativamente lenta che può interrompersi e reiniziare in un secondo momento.

Di seguito un video prodotto dalla PennState sulle formiche "zombie".

Un secondo video prodotto dal famoso documentarista Richard Attenborough e dalla BBC.
Perchè un meccanismo così complesso per infettare le formiche? In fondo al fungo basterebbe che la formica infettata morisse all'interno del nido, facilitando la diffusione delle spore a tutte le sorelle. questo avverrebbe senza dubbio se non fosse che i le formiche hanno una attenzione maniacale per l'igiene del loro formicaio. I ricercatori hanno ipotizzato che quella del fungo sia stata una contromossa evolutiva per evitare di essere "smaltito" come sporcizia. Ogni formica malata o deceduta viene infatti prontamente uccisa o rimossa dal nido. Un comportamento che impedirebbe di fatto al fungo di germogliare e di infettare nuove formiche. Il fungo porta la formica laddove la maturazione potrà avvenire senza inconvenienti ma in un luogo prossimo al tragitto quotidiano delle sue consimili.

Una lotta quella tra funghi e formiche che risale quasi all'epoca dei dinosauri. La prova, come accennato prima, è in un dato pubblicato nel 2010 su Biology Letters, in cui si descrive una foglia fossile trovata in Germania vecchia di 48 milioni, che porta le cicatrici distintive di un morso di formica sulla sua vena principale. Un'epoca in cui il clima del territorio tedesco era tropicale.
I ricercatori hanno descritto la scoperta come "il primo esempio fossile di un comportamento manipolato". 


Sia Evans che gli altri ricercatori coinvolti continuano la loro caccia alla ricerca di organismi opportunisti sempre più bizzari.
Studiare le formiche-zombie ed i funghi responsabili non è un semplice esercizio scientifico (anche se questa definizione è incomprensibile per chi non si occupa di scienza). Ogni informazione ottenuta su questi ecosistemi complessi potrebbe infatti fornire nuovi strumenti naturali per lo sviluppo di trattamenti naturali contro i parassiti in agricoltura.

Un altro esempio di variazione comportamentale indotta da un parassita lo si ha con la malaria. Non solo il plasmodium altera la percezione olfattiva della zanzara rendendola più o meno "mordace" sugli esseri umani a seconda dello stadio di sviluppo del protista, ma si è evoluto "spingendo" la zanzara ad acquisire sempre più abitudini alimentari diurne rispetto al classico comportamento notturno. Le conseguenze sono state pesanti per le persone che vivono in un ambiente dove la malaria è endemica, a causa della perdita di efficacia delle reti protettive notturne poste intorno ai letti che avevano contribuito nel ridurre di molto le nuove infezioni. 
Se pensate che la manipolazione del comportamento causata da un parassita non riguardi noi vertebrati, l'esempio tipico sono i topi infettati dal Toxoplasma Gondii che fa li rende indifferenti alla presenza dei gatti ... con conseguenze facilmente immaginabili. Il vantaggio del parassita è che favorendo la predazione del loro ospite murino potranno infettare i gatti, condizione essenziale per completare il loro ciclo riproduttivo. Ma i gatti vivono a contatto con noi, e il toxoplasma non si fa problemi a 1) infettarci e 2) a alterare il nostro comportamento.
L'effetto dell'infezione da toxoplasma sul comportamento umano
Per articoli sul curioso fenomeno di simil-zombie in natura (senza nulla di soprannaturale) --> QUI

Fonti
Zombie Ants Have Fungus on the Brain, New Research Reveals
 PennState, news  

Fungus that controls zombie-ants has own fungal stalker
  Nature (2012) doi:10.1038

"Zombie Ant" Fungus Under Attack—By Another Fungus
  National Geographic News, May 4, 2012

Hidden Diversity Behind the Zombie-Ant Fungus Ophiocordyceps unilateralis: Four New Species Described from Carpenter Ants in Minas Gerais, Brazil
Evans HC et al, PLoS ONE 6(3), 2011

-  Disease Dynamics in a Specialized Parasite of Ant Societies.
 Andersen SB et al, PLoS ONE 7(5), 2012

Undead-End: Fungus That Controls Zombie-Ants Has Own Fungal Stalker
  Scientific American, October 29, 2012
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"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper
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