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Perché la goccia d'acqua fa "plink"

Eh si, tra le tante domande che uno che si occupa di scienza può trovarsi ad affrontare c'è ne sono di apparentemente bizzarre come "perché la goccia d'acqua fa plink quando cade?".

Del resto il rumore prodotto dal gocciolio incessante da un rubinetto resiliente a qualunque chiusura può fare perdere il sonno anche al più paziente tra gli scienziati, che una notte si sarà alzato deciso ad affrontare il problema una volta per tutte (confermo che gli scienziati sono soggetti strani).
Strano ma vero fino a poco tempo fa non si conosceva nel dettaglio da cosa scaturisse quel particolare rumore.
 Non si tratta infatti di una curiosità recente. Già all'inizio del '900 con la disponibilità di macchine fotografiche veloci furono in tanti a cercare di carpire i dettagli del gocciolamento.
Dilemma risolto dal nostro eroe, Anurag Agarwal, alla guida dell'Acoustics Lab presso l'università di Cambridge. Non scherzo se dico che l'idea di investigare il fenomeno venne al ricercatore quando, ospite a casa di un amico, non riuscì a chiudere occhio a causa del gocciolio originato da una perdita nel tetto che veniva raccolto in un secchio nella stanza in cui alloggiava.

Tornato in laboratorio si mise a studiare la dinamica della caduta di una goccia usando tecniche di ripresa video ad alta velocità e rilevatori sonori professionali. La scoperta fu che il suono "plink, plink" prodotto dalla goccia d'acqua quando colpisce una superficie liquida non è causato dalla goccia in sé, ma dalla oscillazione di una piccola bolla d'aria intrappolata sotto la superficie dell'acqua. La bolla induce una vibrazione sulla superficie dell'acqua, come se fosse un pistone, e questo genera il suono.

La meccanica dei fluidi di una goccia d'acqua che colpisce una superficie liquida è nota: quando la gocciolina colpisce la superficie, provoca la formazione di una cavità, che si ritira rapidamente a causa della tensione superficiale del liquido, risultando in una specie di colonna in cui si riversa il liquido . Data la velocità con cui si ritrae il liquido, una piccola bolla d'aria rimane intrappolata.
credit: tempe.mi.cnr.it
Studi precedenti avevano ipotizzato che il suono fosse causato dall'impatto, dalla risonanza della cavità oppure dall'onda sonora subacquea che si propaga attraverso la superficie dell'acqua. Mancava però una prova sperimentale di ciascuna ipotesi.

Nel loro esperimento, i ricercatori hanno scoperto che in realtà (e in un certo senso controintuitivamente) sia lo splash iniziale che la formazione della cavità e lo spostamento del liquido erano silenziosi. La fonte del suono era invece nella bolla d'aria intrappolata. Perché questa produca il caratteristico rumore, è necessario che la bolla d'aria si trovi vicino al fondo della cavità creata dall'impatto della goccia. La bolla produce le oscillazioni della superficie dell'acqua nella parte inferiore della cavità come se fosse un pistone che emette le sonde sonore nell'aria.

Compreso il meccanismo la soluzione al problema del rumore fu immediata: è sufficiente modificare la tensione superficiale del liquido, ad esempio aggiungendo un detergente.

Di seguito un video prodotti dagli autori dello studio
 Se non vedi il video --> youtube
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.


Fonte
- The Sound Produced by a Dripping Tap is Driven by Resonant Oscillations of an Entrapped Air Bubble.’ Scientific Reports (2018). DOI: 10.1038/s41598-018-27913-0 


Molto prima degli aerei Stealth, furono le falene ad adottare il volo "invisibile"

Il mantello dell'invisibilità di Harry Potter, gli aerei o i sommergibili dotati di tecnologia Stealth o il mimetismo di alcuni animali fanno un baffo alla soluzione adottata in un alcune specie di falene per sfuggire alla ecolocalizzazione di predatori temibili come i pipistrelli.

Image credit: Thomas Neil
Le falene sono la principale fonte di cibo per i pipistrelli, che usano l'ecolocalizzazione (sonar biologico) per cacciare le loro prede. Scienziati dell'Università di Bristol hanno cercato di capire nel dettaglio tale meccanismo di difesa passivo evolutosi nel corso di milioni di anni. Alcune falene in realtà hanno evoluto "orecchie" capaci di rilevare le onde ultrasoniche emesse dei pipistrelli e quindi di mettersi al riparo (un sistema non così diverso da quello degli aerei da combattimento quando rilevano di essere entrati nel sistema di puntamento del nemico). Rimaneva allora da capire come facessero le altre "sorde" a sfuggire ai pipistrelli; i ricercatori hanno scoperto che queste specie di falene hanno sviluppavato una sorta di rivestimento fono-isolante in grado da fungere da "mantello dell'invisibilità" contro il sonar dei pipistrelli.
credit: ecolocalizzazione in guides.library.harvard.edu

Nello specifico è la pelliccia su torace e articolazioni delle ali ad essere schermate riducendo gli echi di queste parti alla ecoscansione. La migliore in tal senso è il leggero rivestimento toracico poroso invisibile a tutte le frequenze ultrasoniche e capace di assorbire fino al 85 % dell'energia sonora (ricordo che la ecolocalizzazione si basa sul rimbalzo delle onde, questo spiega la "invisibilità" delle falene). I test di assorbimento sono stati condotti mediante tomografia acustica comparando tra loro specie "sorde" di falene e di farfalle.
A riprova di tale affermazione, la rimozione del pelo toracico ha portato un aumento del rischio di rilevazione di circa il 38%.
Il sistema di occultamento era nettamente più efficiente nelle falene rispetto alle farfalle che tuttavia non sono prede naturali dei pipistrelli, quindi non hanno avuto necessità di perfezionare il sistema.

Lo studio potrebbe contribuire allo sviluppo di materiali biomimetici per assorbitori di suoni ultrasottili e altri dispositivi di controllo del rumore.

Fonte
- Stealthy moths avoid bats with acoustic camouflage
Thomas R. Neil - The Journal of the Acoustical Society of America (2018) 144, 1742

- Moths survive bat predation through acoustic camouflage fur
University of Bristol / news




Stimolazione elettrica epidurale più riabilitazione si sono rivelati efficaci nella terapia dei pazienti con lesioni spinali

Nel precedente articolo abbiamo esaminato le prospettive invero rivoluzionarie, aperte dall'impianto di elettrodi in regioni cerebrali coinvolte in patologie invalidanti come il Parkinson o con funzioni di relais tra il comando motorio e gli arti in modo da scavalcare lesioni nella via di collegamento (tipicamente spinali).

Oggi vediamo esempi in cui tali sperimentazioni hanno mostrato risultati concreti su tre pazienti con lesioni a carico del midollo spinale permettendo loro di riprendere il controllo dei muscoli delle gambe e progressi nella loro capacità di deambulazione. Cosa ancora più importante, tutti i partecipanti allo studio hanno conservato una buona parte dei miglioramenti anche dopo l'interruzione della terapia di stimolazione.
I risultati sono stati pubblicati da un team della svizzera EPFL il 31 ottobre sulla rivista Nature.
Sequenza fotomontaggio che mostra i progressi nel test condotto alla EPFL (credits to actu.epfl.ch)

La tecnica usata in questo caso è nota come stimolazione elettrica epidurale e consiste nell'applicazione di una corrente elettrica continua nella parte inferiore del midollo spinale grazie ad un chip impiantato sulla dura, la parte più esterna dei tre foglietti costituenti le meningi, l'involucro protettivo del sistema nervoso centrale. Il chip riceve le istruzioni da una specie di telecomando esterno che controlla la frequenza e l'intensità della corrente elettrica. Quando lo stimolatore è attivo, l'insieme di specifiche stimolazioni sensoriali e di un allenamento intensivo per rafforzare la risposta neuromuscolare, consente alle persone paralizzate di muovere volontariamente le gambe.
E' bene ricordare che la sperimentazione è nelle fasi iniziali e, cosa ancora più importante, che i soggetti coinvolti dovevano avere un certo tipo di requisiti di entrata per essere ammessi; uno tra tutti i pazienti dovevano avere mantenuto un certo livello di funzionalità motoria a valle del sito della lesione.

Il lavoro di Nature non è però l'unico indizio che qualcosa di importante stia avvenendo nel campo. Poche settimane prima i medici della Mayo Clinic hanno descritto il caso di una persona completamente paralizzata al di sotto della lesione che era riuscita a camminare su un tapis roulant dopo 43 settimane di trattamento intensivo consistente in un mix di allenamento muscolare e stimolazione elettrica.
Più o meno nelle stesse settimane ricercatori della università di Louisville, nel Kentucky, hanno presentato dati che indicavano che due delle quattro persone sottoposte a stimolazione epidurale continua erano stati in grado di camminare con l'ausilio di sistemi facilitanti la deambulazione dopo 15 e 85 settimane di allenamento, rispettivamente.

Cosa distingue i tre lavori con risultati apparentemente simili? La tecnica usata al EPFL ha utilizzato una stimolazione a tempo invece di una stimolazione continua e che i risultati siano qualitativamente migliori. Il razionale alla base della scelta è  che la stimolazione continua potrebbe diminuire l'efficienza bloccando i segnali di ritorno dagli arti paralizzati con ricadute negative sulla qualità del controllo motorio. Il che ha senso se si pensa che la paralisi è causata sia dall'interruzione del flusso che "ordina" il movimento che da quello sensoriale e di feedback del movimento in atto. Un corto circuito, passatemi il termine, che impedisce o invalida movimenti "utili" anche in presenza di lesioni non totali, cioè lesioni in cui riescono a transitare almeno in parte gli stimoli nervosi.
Le lesioni parziali riguardano un alta percentuale delle lesioni invalidanti, da cui l'interesse per cercare una soluzione per "ripristinare il cablaggio" lesionato.
La stimolazione elettrica esterna va proprio in questa direzione, agendo direttamente sui motoneuroni integrando il segnale deficitario che questi continuano a ricevere dal cervello.
Come? Senza addentrarci in tematiche di neurofisiologia diciamo che i ricercatori hanno prima mappato le aree del midollo spinale coinvolte in movimenti come il camminare, la flessione dell'anca o la torsione della caviglia. Fatto questo sono passati alla fase operativa impiantando gli stimolatori elettrici in tre persone con diversi livelli di menomazione motoria nelle gambe causata da lesioni spinali.
Le lesioni dei tre partecipanti erano diverse, con un paziente incapace di muovere le gambe (e con la sinistra totalmente paralizzata) e un altro capace ancora di muovere le gambe ma incapace di sollevarle quando tentava di camminare.
Una volta in sede, i dispositivi hanno cominciato ad emettere una sequenza controllata di impulsi elettrici a livello spinale così da integrare i segnali motori. Si deve sottolineare che la stimolazione elettrica qui non aveva il fine di indurre il movimento per sé (come da un telecomando esterno) ma di "abilitare" il movimento. In altre parole funzionava solo quando il paziente tentava di iniziare il movimento; come una specie di amplificatore del segnale che captava l'ordine di muoversi partito dal cervello ma che la lesione rendeva "incomprensibile" al motoneurone.

I primi giorni del test furono i più frustranti per i pazienti che dovettero "reimparare" a dialogare con i propri arti. Già alla fine della prima settimana i partecipanti si dimostrarono capaci di risultati tangibili, riuscendo a camminare sebbene con l'ausilio di dispositivi finalizzati a sostenere parte del loro peso.

Dopo circa cinque mesi di una combinazione di terapie riabilitative e di elettrostimolazioni, i risultati sono stati tangibili, con miglioramenti che si sono mantenuti anche dopo la disattivazione della stimolazione esterna. Due dei tre partecipanti sono ora in grado di camminare in modo autonomo, sebbene con l'ausiolio delle stampelle (possono anche fare qualche passo senza); la terza persona, quella con lesioni più gravi ha riacquistato la capacità di muovere le gambe, prima paralizzate, da sdraiato.

I ricercatori hanno cercato di rendere la tecnologia più "easy" sviluppando strumenti capaci di continuare la stimolazione epidurale anche al di fuori del laboratorio. Ciò comprende sensori indossabili che attivano la stimolazione e una app caricata su uno smartwatch che risponde a comandi vocali, consentendo così ai pazienti di selezionare la tipologia esatta di stimolazione necessaria in quella particolare situazione.
La app montata sullo smartwatch (all credit: EPFL)

Di seguito un video della EPFL in cui si riassumono i passi salienti della sperimentazione iniziata sui roditori e culminata sui pazienti con lesioni spinali.
Se non vedi il video, clicca sul link --> Youtube

e poi un video con le testimonianze dei pazienti
Se non vedi il video, clicca sul link --> Youtube


L'ottimismo non deve però essere cieco, in quanto è evidente che non tutti i pazienti potrebbero beneficiare di tale terapia. In primis il candidato al trattamento deve avere un certo livello di funzionalità motoria al di sotto della lesione, altrimenti è semplicemente inutile.



Fonti
-  Electrical spinal cord stimulation must preserve proprioception to enable locomotion in humans with spinal cord injury
E. Formento et al, (2018)  Nature Neuroscience, v21, pp. 1728–1741  

- Neuromodulation of lumbosacral spinal networks enables independent stepping after complete paraplegia
M.L. Gill et al, (2018) Nature Medicine v24, pp. 1677–1682

- Targeted neurotechnology restores walking in humans with spinal cord injury
 F.B. Wagner et al (2018) Nature, v563, pp 65-71

- Breakthrough neurotechnology for treating paralysis

- Three people with spinal-cord injuries regain control of their leg muscles
Nature / news (2018)

Stentdrode. Un elettrodo cerebrale per fare muovere i tetraplegici e molto altro

Modificare l'attività cerebrale senza incidere la calotta cranica è possibile grazie ad una tecnica nota come stimolazione magnetica transcranica (TMS) di cui ho già scritto in passato (vedi la serie --> TMS e cervello).
Una procedura utile ma con un punto debole nella dimensione dell'area interessata che è maggiore del bersaglio su cui idealmente bisognerebbe agire. Un limite intrinseco dovuto sia alla taglia della "piastra" da cui emerge il campo magnetico che alla architettura dei circuiti neuronali in cui regioni prossimali possono avere funzioni molto diverse.
all credits to: MAYO clinics

In alcuni ambiti questo non provoca problemi, ma in altri è cruciale focalizzarsi solo su aree (quindi popolazioni cellulari) estremamente ristrette e per tempi prolungati. In questi casi la procedura di elezione è la stimolazione cerebrale profonda (DBS) consistente nell'impianto chirurgico di elettrocateteri nelle aree del cervello prescelte (ad esempio quelle per il controllo dei movimenti) e di un dispositivo medico che ne controlla "le scariche". Un metodo innovativo ampiamente utilizzato nella terapia sintomatica di patologie neurodegenerative (Parkinson) e nel trattamento del dolore cronico.
all credit: sci.utah.edu
L'impianto non è tuttavia una "passeggiata".
Una soluzione in tal senso viene dallo studio condotto da ricercatori australiani (pubblicato su Nature Biomedical Engineering) che hanno sviluppato un elettrodo di 4 mm di diametro (chiamato Stentrode) che viene veicolato attraverso un vaso sanguigno nella zona di azione e li lasciato a tempo indefinito,  come richiesto per malattie croniche e/o degeneranti come il morbo di Parkinson e dell'epilessia.

A differenza della DBS che richiede un intervento chirurgico con apertura di uno o più fori nella scatola cranica lo Stentrode viene portato in posizione attraverso una vena del collo; quasi come fare una angiografia, procedura che richiede competenza e accuratezza ma decisamente meno invasiva di un buco nel cranio.

Le prove di fattibilità dello Stentrode hanno superato senza problemi il passaggio oobligato dei test su animali (test di sicurezza e di efficacia condotti su pecore) e ci si sta preparando ai test clinici.

Tra le molteplici applicazioni ipotizzabili (e testate già in uno studio del 2016) lo Stentrode potrebbe essere usato per catturare i segnali corticali e convertirli in segnali di controllo su un esoscheletro. A che scopo? Ad esempio una imbragatura che avvolge gli arti delle persone paralizzate consentendo ad esse di muoversi in autonomia. 
credit: The Vascular Bionics Laboratory (medicine.unimelb.edu.au)

Di seguito un video intervista risalente alle prime fasi del test nel 2016


Altro esempio di utilizzo dello Stentrode, il monitoraggio dell'attività neuronale anomala che di solito precede un attacco epilettico, contrastandola con stimoli elettrici di segno opposto.



Fonti
- Minimally invasive endovascular stent-electrode array for high-fidelity, chronic recordings of cortical neural activity
Thomas J Oxley et al, Nature Biotechnology (2016) 34, 320–327

 - Focal stimulation of the sheep motor cortex with a chronically implanted minimally invasive electrode array mounted on an endovascular stent
Nicholas L. Opie et al, Nature Biomedical Engineering (2018) 2, 907–914
 - Stentrode developed for brain treatments without major surgery
 University of Melbourne / news

Primo passaggio solare OK per la sonda Parker

Sono passati già 3 mesi dal lancio della sonda Parker il cui scopo è quello di studiare il Sole da distanza ravvicinata per alcuni anni.
Come un novello Icaro (ma molto più attento alla sicurezza) la sonda Parker effettuerà molteplici orbite che lo porterà sempre più prossimo al Sole senza tuttavia correre il rischio di venire abbrustolito come un marshmallow (o almeno questa è la speranza dei progettisti).

Il primo incontro ravvicinato è avvenuto nella prima decade di novembre, fase durante la quale la sonda ha raccolto dati poi inviati sulla Terra e che sono ora analizzati. La missione sarà un susseguirsi di fasi operative della durata di 10 giorni (coincidenti con l'orbita in perielio) con quelle "relax" di crociera nei restanti 80-160 giorni dell'orbita.
0,25 UA = 37,4 milioni di km (Credit: NASA via physics.stackexchange)

Nel primo passaggio si è già raggiunta la distanza minima record di 24 milioni di km, la metà del precedente, risalente agli anni '70 con la sonda Helios
La posizione della sonda nel momento in cui scrivo. Per lo stato aggiornato -->parkersolarprobe.jhuapl.edu/The-Mission/
 Un passaggio prossimale che la sonda ha superato alla perfezione e in perfetta autonomia. A causa delle intereferenza magnetiche Parker è progettata per modificare autonomamente l'assetto e posizionarsi con gli scudi protettivi per ripararsi dal Sole. Lo scudo in queste condizioni può raggiungere temperature superiori a 450 gradi, tanti ma nulla in confronto alle temperature delle parti più esterne del Sole che possono arrivare a 2 milioni di gradi (molto più che l'interno o la "superficie").

Aspettiamo ora con maggiore tranquillità, avendo superato la prova cardine di sostenibilità, i prossimi passaggi e l'analisi dei dati che via via invierà

Articolo successivo sul tema --> il suono del vento solare.

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