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I test in vitro su embrioni scimmia-uomo riaccendono il dibattito sugli animali ibridi

Il lavoro in 2 righe: in embrioni di scimmia nelle primissime fasi dopo la fecondazione sono state inserite cellule staminali umane derivate da fibroblasti embrionali. Le chimere così ottenute sono sopravvissute (in colture di laboratorio!) per i 19 giorni della durata dell’esperimento 
Il lavoro è stato pubblicato il 15 aprile su Cell.

Panoramica
La logica sottostante l’esperimento era verificare la fattibilità di quasi-organismi chimerici utilizzabili sia per i test dei farmaci che per sviluppare in vitro “organi” umanizzati adatti per i trapianti; il "quasi" è riferito all'essere un approccio finalizzato allo studio in vitro e non prevede una fase di gestazione.
Il lavoro è il proseguimento di esperimenti risalenti al 2017 in cui si utilizzarono come riceventi embrioni di maiale e mucca inoculati con cellule umane, e embrioni di ratto inoculati con cellule di topo. I risultati all'epoca mostrarono una efficienza molto bassa tranne che per la chimera ratto-topo, prevedibile dati i 90 milioni di anni che separano il punto di biforcazione evolutiva tra ungulati, roditori e primati.

L'ultimo lavoro in ordine di tempo (scimmia+umano) è stato anche quello che ha provocato maggiori riserve anche tra gli addetti ai lavori; usare embrioni di macachi come riceventi di cellule embrionali umane pone inevitabilmente dubbi etici attinenti alla classificazione dell'embrione finale.
Tra i dubbi sollevati il principale è che eventuali chimere uomo-primate non potrebbero in ogni caso essere usate come modelli sperimentali, come invece lo sono topi e roditori, perché la ricerca e la sperimentazione su primati non umani è vincolata da regole etiche be più stringenti di quelle sui roditori.
Quindi, questa la domanda, perché sfidare i confini etici quando risultati simili si sarebbero potuti ottenere usando come embrione di partenza quello di maiale o bovino? Altra punto sollevato è la necessità di tali test quando c'è la ricerca sugli organoidi è in piena ascesa e si pone come migliore (futura) alternativa sia alla ricerca sugli animali che alla creazione di organi di ricambio.
La risposta ufficiale degli autori dello studio è che il fine principale di questo approccio non è impiantare gli embrioni chimerici nelle scimmie affinché generino organismi compiuti ma come strumento da usare in coltura per capire come, nelle fasi iniziali dello sviluppo, cellule di specie diverse comunichino tra loro. Un punto questo condivisibile anche se difficile da spiegare ai non addetti ai lavori il cui metro di paragone spontaneo sono gli eventi narrati su “l’isola del dottor Moreau” e questo spiega la mediaticità della notizia.

Dentro l'esperimento
Dopo avere fecondato gli oociti di macaco, lo zigote è stato lasciato crescere in coltura per 6 giorni fino allo stadio di blastocisti, raggiunto il quale sono state microiniettate le cellule umane pluripotenti (capaci quindi di dare origine a molti tipi di tessuto ed organi). 

Nota. Il processo è ovviamente molto più complicato del semplice prelievo di cellule embrionali ottenute in laboratorio e la loro aggiunta alla blastocisti. Sia che le cellule di origine siano embrionali pure che IPS (derivate da cellule somatiche) perché queste riacquistino almeno alcune delle caratteristiche tipiche di una cellula realmente pluripotente (più di una multipotente o staminale tessutale ma meno di una totipotente quali sono le cellule fino allo stadio di morula) è necessario trovare il cocktail giusto di trattamenti in coltura per fare "ringiovanire" le cellule (alias de-differenziarla). Bastano minime variazioni di stato di partenza anche ammettendo di avere trovare il cocktail ottimale perché la cellula iniettata sia "incapace" di recepire gli stimoli chimici nel nuovo ambiente embrionale e si comporti in modo anomalo morendo o danneggiando lo sviluppo coerente dell'embrione
 
Data la variabilità e casualità del processo di aggiunta (dove la cellula umana va a localizzarsi all’interno dell’embrione e la sua "predisposizione" a differenziare) era ampiamente preventivata una ampia eterogeneità nei risultati. E infatti dei 132 embrioni trattati, 91 hanno raggiunto gli 11 giorni post fertilizzazione e solo 3 erano quelli rimasti al giorno 19. Un “crollo”, indicativo di quanto il processo sia ad oggi poco efficiente e controllabile, quindi poco utilizzabile a scopi “produttivi”.
Altro limite dell’approccio è che una volta effettuata l’aggiunta delle cellule rimaneva c'era solo il “wait and see” per capire quali tra le cellule di partenza umane si sarebbero comportate in modo coerente con lo sviluppo embrionale.

Primo vero effetto della sperimentazione è che è già stata calendarizzata per maggio una riunione della International Society for Stem Cell Research (ISSCR) in cui verranno aggiornate le linee guida per la ricerca sulle cellule staminali. Si sa già che queste riguarderanno l’utilizzo di primati non umani e le chimere umane con il bando a qualunque sperimentazione che implichi l’integrazione delle cellule umane nel sistema nervoso in via di sviluppo della chimera. Un paletto importante e di suo sufficiente a impedire problemi etici; fare crescere cellule umane in grado di originare (ad esempio) un fegato umano in una chimera, pronto per un trapianto o su cui studiare l’effetto dei farmaci non implica alcuna “umanizzazione” della chimera; avere un sistema nervoso di primate arricchito (e non si sa di quanto) di cellule umane qualche problema etico indubbiamente lo pone.

Come nota di cronaca, il Giappone ha revocato il divieto di esperimenti con embrioni animali contenenti cellule umane già nel 2019 dando così il nulla osta ai finanziamenti statali nel campo. Per quanto riguarda la Cina, siamo tutti molto consapevoli di quanto sia difficile avere notizie affidabili ex ante (cioè prima che i fatti arrivino ai media) come la vicenda di He Jankui sui bambini CRISPR ha ben dimostrato.

Fonti
- Chimeric contribution of human extended pluripotent stem cells to monkey embryos ex vivo
Tao Tan et al, Cell (2021), 184(8):2020-32

- Derivation of Pluripotent Stem Cells with In Vivo Embryonic and Extraembryonic Potency
Yang et al., (2017) Cell 169, 243–257

- Generation of Chimeric Rhesus Monkeys
Masahito Tachibana et al, (2012) Cell, 148(1-2):285-95

https://www.nature.com/articles/d41586-021-01001-2

Anche gli umani riescono a percepire la direzione del campo magnetico terrestre?

Ben nota la capacità di molti animali, non solo quelli migratori, di seguire una rotta prestabilita lunga anche migliaia di chilometri con un margine di errore da fare invidia al moderno sistema satellitare. Le modalità di funzionamento di questi sistemi di controllo non sono ben compresi anche perché non univoci. Se ad esempio gli scarabei stercorari paiono capaci di usare la Via Lattea come punto di riferimento (studio che ha vinto l'IgNobel 2013), altri animali come gli uccelli (migratori e non) e i salmoni sembrano leggere il campo magnetico terrestre come avessero una bussola.
Qualche sospetto che anche i mammiferi abbiano sistemi simili viene dal più "umanizzato" degli animali cioè il cane di cui sono noti percorsi di centinaia di km per tornare a casa, la capacità di scovare nuove scorciatoie e perfino il posizionamento corporeo quando si tratta di fare i bisogni.
Che questo sistema sia presente negli umani è sempre parso improbabile data l’abbondanza di persone (giovani e sane) capaci di perdersi nel parco sotto casa. A sorpresa quindi la scoperta di un lavoro del 2019 (pubblicato su eNeuro) in cui si rileva la capacità degli esseri umani (magari non proprio tutti) di percepire il campo magnetico terrestre. 
Il lavoro non è uno dei tanti ma ha l’imprimatur della Caltech (Sheldon Cooper docet) sotto il nome del professor Joe Kirschvink a capo del Magnetic Lab della Caltech.
Interessante l’approccio metodologico usato basato su una gabbia di Faraday allo scopo di schermare la persona in essa contenuta dalle interferenze elettromagnetiche. Lungo la parete della gabbia bobine dal cui passaggio della corrente elettrica si produceva il campo magnetico artificiale di intensità paragonabile a quello terrestre.

Ai volontari (34) che presero parte alla sperimentazione fu chiesto di sedersi sulla sedia al centro, direzionata verso nord, mentre venivano misurato loro l'encefalogramma al procedere dei test. Test che in realtà non implicava alcuna azione da parte dei partecipanti ma solo la risposta del loro sistema neurale al variare (artificiale) della direzione del campo magnetico.
Image credit: C. Bickel via eNeuro

Il risultato ottenuto è che in un numero statisticamente significativo di persone la variazione del campo magnetico (in particolare quando il campo orientato inizialmente a nord veniva spostato in altre direzioni) si traduceva nel calo del cosiddetto ritmo alfa che è tipico di un soggetto rilassato e senza pensieri; quindi un calo è equiparabile ad una sottostante attivazione del sistema eleborativo.
Un dato che indica che gli umani sono in grado inconsciamente di rilevare il polo nord magnetico e  ogni variazione da questo stato. Come questo sia meccanisticamente possibile non è chiaro ma potrebbe, come visto in altri animali, essere mediato dalla presenza di molecole contententi ferro in particolari cellule nervose; la variazione dell’orientamento di tali molecole altererebbe lo stato di canali ionici e con esso il potenziale di membrana.
Quanto questo sia funzionalmente rilevante negli umani (in particolare nelle rimanenti comunità primitive dove i sensi non sono stati anestetizzati dalla tecnica) non è chiaro.

Virtualizzazione di un sistema binario fatto da 2 buchi neri supermassicci

Due anni fa la prima visualizzazione di un buco nero (M87*) non molto diversa da quella immaginata da Kip Thorne (premio Nobel 2017 per la fisica) nel 2014 per il film Interstellar. Una prova del potere delle simulazioni al computer quando si visualizzano eventi altrimenti non osservabili 
Clip dal film Interstellar
(Image credit: Paramount Pictures)
Nel 2019 la prima reale "visualizzazione di un buco nero 


Del primo se ne è scritto abbondantemente in passato (vedi --> l'articolo dedicato) quindi oggi dedico questo breve ad una nuova simulazione con un intrinseco grado di difficoltà “al quadrato” rispetto alla precedente.

Sappiamo bene che a causa dell’intenso campo gravitazionale in gioco, quando la luce transita nei pressi di un buco nero (o in genere qualunque oggetto dotato di massa), questa si “piega” e la sua intensità cambia a seconda della direzione in cui si sta muovendo.
Cosa succede allora quando l’oggetto osservato è un sistema binario costituito da 2 buchi neri supermassicci in orbita reciproca, ciascuno con propria gravità e disco di accrescimento luminoso di polvere e gas?
Non si tratta di ipotesi borderline ma di eventi probabilmente “non rari” al centro delle galassie. Ad oggi si ha la identificazione, datata 2015 ad opera del LIGO, di un evento “minore” (ma sufficiente a confermare l’esistenza delle onde gravitazionali), noto come GW150914 e riferito alla fusione di 2 buchi neri di 36 e 29 masse solari (Ms).

Il lavoro di virtualizzazione viene da Jeremy Schnittman, lo stesso astrofisico che nel 2019 aveva effettuato la precedente simulazione che riporto qui sotto 
Credit: NASA’s Goddard Space Flight Center/J. Schnittman

Nel nuovo lavoro ha aumentato il tasso di difficoltà considerando un sistema fatto da due buchi neri supermassicci (quasi ogni galassia ne ha almeno 1 al suo centro) di cui uno da 200 milioni di Ms e l'altra circa la metà.

Il risultato della simulazione lo riassumo nell'ordine con una GIF, il video completo della simulazione e infine la descrizione semplificata di quanto il video ha mostrato.
(Credit: NASA, Goddard/ J. Schnittman & BP. Powell via sciencealert)
Se non vedi il video clicca sulla fonte 
(video credit: NASA Goddard)

 
La simulazione inizia come se si stessero guardando i due buchi neri dall’alto, rispetto all’orbita e alla loro rotazione intrinseca. Ricordiamo che il buco nero è visualizzabile solo per contrasto (nessun fotone può uscire), per cui si parla dell’ombra del buco nero (black hole shadow) circondata da un ampio disco di accrescimento.
Immagine riassuntiva delle diverse regioni che definiscono l'immagine di un buco nero
(image credit: NASA) 
Il sottile anello tra il bordo interno del disco di accrescimento e l'ombra del buco nero è chiamato anello fotonico, ed indica l’area dove la gravità è così forte che i fotoni sono intrappolati in un'orbita stabile attorno al buco nero. Se questi fotoni dovessero virare più vicino al buco nero, cadrebbero oltre l'orizzonte degli eventi, dove scomparirebbero per sempre.
Man mano che la simulazione continua, la prospettiva dello spettatore si sposta verso il basso fermandosi sul piano orbitale dei due buchi neri. All'inizio non sembra nulla di molto diverso dalle altre simulazioni, con la luce del disco piegata sul retro a formare un alone e la luce davanti all'ombra del buco nero più luminosa mentre si muove verso l’osservatore e più tenue mentre si allontana .
Un fenomeno quest’ultimo detto relativistic beam che altro non è che un effetto Doppler applicato alla luce.

E’ a questo punto che le cose si fanno più strane.
Per semplicità di visutalizzazione gli autori (Jeremy Schnittman e  Brian P. Powell) usano colori diversi per rappresentare i due buchi neri così da differenziarli e mostrare cosa succede alla luce quando i rispettivi campi gravitazionali la curvano e deformano in percorsi complessi predetti solo grazie all’enorme potere di calcolo di supercomputer dedicati. 

La visuale si sposta nuovamente verso il basso questa volta con una “zoomata” verso l'anello fotonico con vista laterale sull’altro buco nero. Visione strana ma spiegabile con il fatto che la luce viene piegata di 90 gradi, il che significa che in quel punto si ha, in contemporanea, una vista alto-basso e laterale-distorta di ciascun buco nero.
Il fenomeno è simile a quando si osservano mediante telescopi immagini che sono il risultato dell’effetto lente gravitazionale: il risultato è la visione di stelle (o galassie) “al di là” di un corpo massiccio (che può essere un buco nero, una stella di neutroni ma anche cluster di galassie) che appaiono spostate e moltiplicate. L'immagine che segue dice più di tante parole

Al centro la galassia che funge da lente gravitazionale mentre l'anello è in realtà una galassia sullo sfondo, molto più distante della galassia centrale, la cui immagine è curvata per effetto della gravità. Il fenomeno è anche noto come Anello di Einstein. La spiegazione grafica del fenomeno la trovate QUI
Image credit: Lensshoe_hubble.
 

Qualche possibilità in futuro di osservare eventi simili?
L'imaging diretto di un buco nero è un processo complesso (vedere il lavoro dietro M87*) e in più i buchi neri supermassicci binari sono rari, quindi è tutto sommato improbabile dati i nostri limiti, tecnologici e umani. Quello che importa qui è che le virtualizzazioni come questa di Schnittman aiutano la comprensione della fisica degli ambienti estremi quale è quella attorno ai buchi neri supermassicci.

***
Per i più appassionati non posso che consigliare 2 libri di Kip Thorne, di cui uno centrato sulla fisica dietro il concetto del film Interstellar.




Stress e perdita di capelli. I topi "spiegano" i dettagli di un legame da tempo cercato

Uno studio condotto sui topi ha dimostrato che l’ormone dello stress inibisce indirettamente l'attivazione delle cellule staminali del follicolo pilifero. Se si blocca il segnale, la crescita dei peli riprende.


Take it easy”, “non stressarti” sono consigli sempre utili, soprattutto dopo le restrizioni alla mobilità a causa della pandemia e alla luce di uno studio condotto sull'effetto collaterale dello stress prodotto sui pazienti con covid-19: circa il 25% ha manifestato episodi di perdita di capelli fino a sei mesi dopo l'inizio dei sintomi.
Tra i possibili fattori scatenanti, uno stress sistemico che in alcuni individui si protrae oltre la fase acuta  con la sindrome del long-Covid.

Che vi sia una correlazione tra stress cronico e perdita di capelli è un dato noto ma finora i tentativi di descrivere il legame meccanicistico tra i due è rimasto avvolto nelle nubi di ipotesi centrate su una qualche disfunzione delle cellule responsabili della rigenerazione del bulbo pilifero (HFSCs, hair-follicle resident epithelial stem cells). 
Nota. Nei paragrafi seguiva non si tratterà della perdita di capelli dovuta all’azione ormonale (in primis l'accumulo di DHT, sottoprodotto enzimatico del testosterone e associato a morte follicoli dei capelli) che attiene a meccanismi del tutto diversi da quelli legati allo stress.
A fare un po’ di luce sul processo arriva ora un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature.

Breve introduzione
Nel corso della vita di una persona, la crescita dei capelli attraversa tre fasi: crescita (anagen), degenerazione (catagen) e riposo (telogen):

  • anagen, il follicolo pilifero spinge in fuori il fusto del capello in crescita; 
  • catagen, la crescita dei capelli si arresta e la parte inferiore del follicolo pilifero si restringe, ma il capello rimane al suo posto;
  • telogen, dopo un certo periodo di quescienza il capello si distacca. In condizioni di forte stress (non necessariamente cronico) molti follicoli piliferi entrano prematuramente nel telogen e i capelli cadono.
Ci sarebbe anche una quarta fase, kenogen, successiva alla caduta del pelo in un follicolo ancora vitale rimasto vuoto ma potenzialmente riattivabile, almeno secondo alcuni ricercatori.
Le tre fasi in una breve simulazione video (credit e fonte:Wikimedia Commons)

Le cellule staminali del follicolo pilifero (HFSC) svolgono un ruolo cruciale nel regolare la crescita dei capelli mediando segnali interni ed esterni. 
Particolare di una vecchia illustrazione su bulbo pilifero, nicchia cellule staminali e papilla dermica
(image credit: G. Cotsarelis et al. JCI)
Dettaglio aggiornato della precedente
(credit: Nature)



Se durante il telogen, le HFSC restano quiescienti (non si dividono), quando si passa in anagen le HFSC iniziano a dividersi formando le cosiddette cellule progenitrici (cellule più differenziate di quelle staminali) che attraverso un complicato processo differenziativo daranno origine prima a vari strati del follicolo pilifero e infine al fusto del capello.

Negli anni trascorsi dalla scoperta delle HFSC, sono state identificate molte molecole regolatrici (fattori di trascrizione e proteine ​​di segnalazione prodotte da queste e dalle cellule circostanti) che controllano la quiescenza e l'attivazione delle cellule. Manca ancora il "come" eventi sistemici (stress) influenzino l'attività delle HFSC.

Su questa lacuna conoscitiva si sono concentrati gli autori dello studio.

Punto iniziale è stato testare il ruolo delle ghiandole surrenali, responsabili della produzione degli ormoni dello stress, nella regolazione della crescita dei capelli. A tale scopo hanno rimosse chirurgicamente queste ghiandole in alcuni topi (chiamati ora ADX), monitorando poi eventuali alterazioni nella crescita dei peli. 
Nota. Alcuni topi sono propensi alla "calvizie" (-->Oh no, my mice are balding!)
Prima osservazione, la fase telogen era molto più breve (20 giorni vs. 80) rispetto ai topi di controllo e i follicoli avevano una spessore tre volte maggiore. 
Seconda osservazione, questa crescita poteva essere soppressa (ripristinando il normale ciclo pilifero) alimentando i topi ADX con corticosterone (l’ormone dello stress prodotto dalle ghiandole surrenali). 
Terza osservazione, sottoponendo i topi normali a vari livelli di stress (lieve), sempre in modo inatteso ma su un periodo di 9 settimane, si osservava sia un aumento del livello di corticosterone che una ridotta crescita dei peli. Dato che supportava l’idea dell'effetto negativo del corticosterone sulla crescita dei peli.

Servivano però ulteriori dati per disvelare il funzionamento.
Il corticosterone agisce interagendo con una proteina cellulare nota come recettore dei glucocorticoidi. Il coinvolgimento del recettore nell'effetto sui peli è stato verificato eliminando geneticamente la produzione dello stesso nelle cellule prossimali al follicolo, come ad esempio quelle della papilla dermica.
La delezione del recettore bloccava l’effetto del corticosterone dimostrando così la causalità.
Dato ancora più importante che l'effetto si notava solo agendo sulle cellule della papilla dermica ma non sulle HFSC. Ciò suggerisce che le HFSC, pur giocando un ruolo chiave, non sono il bersaglio primario dell’ormone dello stress.

Domanda ovvia: come fanno le papille dermiche a trasmettere il segnale stressogeno alle HFSC?
Per rispondere i ricercatori dovevano identificare il messaggero; studio compiuto analizzando il profilo di espressione genica (mRNA) delle papille dermiche in varie condizioni (ingegnerizzate o meno, con o senza stimolo stressogeno).
Da questa analisi hanno identificato il "candidato" a messaggero per l'arresto della crescita dei peli, nella proteina secreta GAS6 ( growth arrest-specific 6), il cui gene viene spento dal corticosterone. Ipotesi messa alla prova fornendo il gene GAS6 (mediante vettore virale) nella pelle di topi normali esposti allo stress: i topi non manifestavano più la perdita di peli.
Dettaglio sperimentale 
(credit: Nature)

A completare il quadro, l'evidenza che nelle cellule HFSC è la proteina AXL a fungere da recettore per GAS6 e come tale è il tramite del segnale di divisione cellulare.
L'effetto di GAS6 sull'espressione dei geni a valle (nelle cellule HFSC) delinea un meccanismo finora imprevisto in quanto avviene senza interferire con fattori di trascrizione o pathway classici. 
Riassumendo, i dati raccolti mostrano che la produzione di corticosterone porta allo spegnimento del gene GAS6 nelle papille dermiche (importante per indurre le HFSC a dividersi) e che l'espressione forzata di GAS6 nel derma può svicolare dall'effetto inibitorio dello stress cronico sul bulbo pilifero.
Risultati che nel complesso forniscono una base teorica per ipotizzare (con i dubbi teorici sotto descritti) nuovi trattamenti contro la caduta dei capelli causata da stress cronico.

Forse, un giorno, sarà possibile combattere almeno l'impatto negativo dello stress cronico sui nostri capelli - aggiungendo un po 'di GAS6

Attenzione però.
Questi dati sono riferiti ad animali e bisognerà ora confermare che il sistema sia equivalente.
Prima di tutto perché il confronto è tra peli (corpo, animali) e capelli (testa, umani) e secondo perché sebbene il corticosterone sia considerato l’equivalente murino del cortisolo umano in ambito stress, non ci sono certezze che il meccanismo di azione sia identico; in subordine bisognerà verificare il coinvolgimento di GAS6 umano.
Altro elemento importante da chiarire è che la durata delle fasi del ciclo dei capelli è diversa nei topi e negli esseri umani. Nei topi adulti, la maggior parte dei follicoli piliferi è in fase telogen in ogni dato momento, mentre negli umani solo il 10% dei follicoli piliferi è in questa fase. Non a caso nel loro esperimento gli autori non hanno considerato la fase anagen (del tutto minoritaria nei topi) ma che nel cuoio capelluto umano rappresenta lo stato in cui si trova il 90% dei follicoli.
Sarà interessante verificare se lo stress cronico può "spingere" i follicoli piliferi umani dallo stato anagen a telogen o se invece, come nei topi, agisce prolungando il telogen. Altro elemento da verificare è se oltre ad agire sulla durata del telogen, lo stress agisca direttamente sull'ancoraggio dei follicoli piliferi 
C'è poi un problema potenziale da valutare bene.
Negli umani (data la vita molto più lunga di quella murina) l’invecchiamento della pelle porta con sé un accumulo di mutazioni nelle cellule progenitrici, comprese mutazioni pre-tumorali; vero che nella stragrande maggioranza dei casi questo non si traduce in tumore dati i sistemi di controllo (senescenza ed eliminazione delle cellule). Sarà quindi importante capire se l’espressione forza di GAS6 (che attiva la proliferazione cellulare di queste cellule) non si traduca in una inattesa liberazione del potenziale "mutante" di queste cellule.
Meglio senza senza capelli o glabri che con rischio aumentato di tumore della pelle a causa di un trattamento anti-calvizie. 


Commento a margine. Un articolo pubblicato la settimana scorsa su Journal of Neurosciences, smonta la correlazione tra stress e la perdita di controllo tipica di alcuni disturbi alimentari.

Fonte
- Corticosterone inhibits GAS6 to govern hair follicle stem-cell quiescence
Sekyu Choi et al. (2021) Nature, v. 592, pp. 428–432


Nuova conferma della radiazione di Hawking mediante rilevazione di fononi in un sistema che emula l'orizzonte degli eventi

Fino all’arrivo di Stephen Hawking l’assunto sui buchi neri era che da questi non potesse sfuggire nulla, nemmeno la luce (da cui il nome), e che quindi questi oggetti fossero destinati a persistere fino alla fine dei tempi senza mai perdere la massa-energia da essi catturata dall'inizio della loro formazione.

Con la formulazione nel 1974 di quella che sarebbe poi stata chiamata radiazione di Hawking il quadro cambiava; non solo qualcosa poteva sfuggire al buco nero ma il concetto stesso di radiazione (emissione verso l'esterno) permetteva di ipotizzare che, sebbene su tempi enormi, un buco nero potesse evaporare e quindi scomparire. Una ipotesi del genere potrebbe sembrare contraria alle leggi della fisica in quanto nulla può andare più veloce della luce; nessuna contraddizione in realtà, la radiazione non origina da "dentro" il buco nero ma dalla regione di confine ed è mediata dalle particelle virtuali (il principio di indeterminazione di Heisenberg implica che il vuoto completo dello spazio pullula di coppie di particelle "virtuali" che entrano ed escono dall'esistenza). 
Visualizzazione 3D delle fluttuazioni quantiche nel vuoto 
(credit: Derek B. Leinweber)

Facciamo un passo indietro per contestualizzare il tutto.
Il sunto del ragionamento di Hawking era che un buco nero dovrebbe comportarsi (irradiare) seguendo le regole della black body radiation, per cui un oggetto "caldo" emette una radiazione infrarossa costante. Per Hawking i buchi neri vanno assimilati a stelle normali, che irradiano costantemente un certo tipo di radiazione dipendente dalla loro temperatura.
Tuttavia la gravità di un buco nero è così potente che nemmeno la radiazione elettromagnetica può sfuggire alla sua presa, una volta che il fotone (l'unico "corpo che può viaggiare alla velocità della luce essendo privo di "massa") supera il cosiddetto punto di non ritorno, chiamato orizzonte degli eventi. Se nulla può viaggiare più veloce della luce, ne deriva che nulla può tornare indietro una volta superata questo "confine". 
Hawking ipotizzò che dai buchi neri poteva comunque emergere una debole radiazione grazie a quelle che vengono chiamate particelle virtuali la cui esistenza è prevista dalla meccanica quantistica, particelle che appaiono e scompaiono (annichilendosi a vicenda) in ogni istante in seguito a fluttuazioni quantistiche
L'esistenza di queste particelle, meno che istantanea, non implica creazione di materia dal nulla ma semmai prestiti e quindi non vanno contro il principio di conservazione dell’energia.
La loro esistenza effimera vale fintanto che l’area in cui si verifica tale “comparsa” non sia a ridosso dell’orizzonte degli eventi; quando la coppia di particella e antiparticella appare sul confine ed una di esse “supera” la linea di non ritorno, l’altra particella diretta in direzione opposta non potrà più interagire e scomparire con la sua “gemella” oramai persa per sempre.
Raffigurazione di come la coppia di fotoni "effimeri" può originare la radiazione di Hawking
(credit: Ali Övgün)

Per rispettare il principio di conservazione dell'energia complessiva, la particella che è precipitata nel buco nero avrà energia negativa (rispetto ad un osservatore) e come tale il buco nero perderà massa  (per l'osservatore esterno sarà come se il buco nero avesse emesso una particella).
Tuttavia questa descrizione, anche se evocativa è errata e me lo ha spiegato in dettaglio un fisico teorico con una sintesi che riassumo qui: nella teoria quantistica dei campi nello spazio-tempo curvo, ossia quando anche la gravità è in gioco, non è possibile definire chiaramente cosa sia una particella. La definizione di particella è chiara quando la gravità è assente, ma quando la gravità è inserita perde di significato. Hawking stesso non utilizza le particelle virtuali negli articoli tecnici. Insomma, è possibile ottenere i risultati sulla radiazione di Hawking in maniera rigorosa senza utilizzare il concetto di particella virtuale, che è solo un espediente divulgativo per rendere l'idea. La teoria proposta da Hawking è stata rivoluzionaria perché ha combinato la fisica della teoria quantistica dei campi con la relatività generale.
I tempi necessari perché questa “evaporazione” porti alla scomparsa di un buco nero sono talmente elevati da essere per noi poco comprensibili (VEDI il calcolo nella pagina "Hawking radiation calculator") e la loro energia troppo bassa per essere misurata anche ammettendo di avere un buco nero nelle vicinanze. Tra le ragioni che spiegano gli esperimenti (falliti) di generare microscopici buchi neri in laboratorio al CERN (mediante LHC) la principale è proprio quella di studiarli; vale la pena sottolineare che queste entità microscopiche (già la creazione di queste entità  necessita di energie al limite delle possibilità tecniche attuali), non porterebbero alcun rischio data la loro intrinseca labilità, con una emivita stimata di 10-27 sec.

Finora, tuttavia, nessuno era mai riuscito né a creare questi mini-buchi neri né a rilevare in altro modo la radiazione di Hawking. La prima, indiretta, conferma arriva nel 2019 con un esperimento al Weizmann Institute centrato sulla interferenza di segnali all'interno di una  fibra ottica.
Nell'esperimento gli scienziati hanno utilizzato una fibra ottica con micro-percorsi all’interno, che ricreano un effetto che possiamo assimilare ad un fiume che corre velocemente verso una cascata; oltre una certa velocità, nulla che si trovi sul fiume potrà sfuggire alla corrente e sarà trascinato verso il "salto" (una specie di orizzonte degli eventi). Lungo la fibra vengono sparati due impulsi di luce laser di colori diversi che si inseguono fra loro. Il primo interferisce col secondo e questa interferenza, molto intensa, cambia le proprietà fisiche della fibra, generando un cambiamento del suo indice di rifrazione. In quella fase si aggiunge un terzo impulso luminoso e si misura l'eventuale radiazione emessa. Si scoprì così che questa luce aggiuntiva generava una radiazione a frequenza negativa che equivale a dire una radiazione idealmente in uscita dal pozzo di potenziale. 

L'ovvio limite di questo esperimento è l'avere ottenuto l'analogo di una radiazione di Hawking solo dopo stimolazione invece che spontaneamente dal sistema.

Un nuovo esperimento israeliano (questa volta da un team del Technion Institute) pubblicato qualche settimana fa su Nature Physics ha fornito una nuova conferma alla radiazione di Hawking usando un approccio diverso. Il risultato riassunto in un paragrafo è l'elusiva radiazione è spontanea ed è stazionaria (non cambia cioè di intensità nel tempo). Il nuovo articolo è un proseguimento dell'approccio usato nel 2019 (pubblicato su Nature) con la creazione di un analogo di buco nero basato su onde sonore, di cui l'immagine sotto riassume il concetto.
Credit: Nature.org via techexplorist.com
Mentre i ricercatori del Weizmann sfruttarono l'interferenza di segnali ottici, il nuovo approccio parte dalla creazione di qualcosa di simile ad un buco nero noto come condensato di Bose-Einstein (BEC) vale a dire uno stato della materia in cui le particelle, raffreddate a livelli infinitesimali (milionesimi di kelvin), assumono proprietà particolari come la super fluidità e l'agire all'unisono come se fossero un singolo atomo.

Come materiale di partenza una minuscola quantità di gas di rubidio, pari a circa 8 mila atomi, raffreddato quasi allo zero assoluto, tenuti in posizione da un raggio laser (si, un raggio laser può raffreddare, anche se sembra controintuitivo). Usando un secondo raggio laser, i ricercatori hanno creato una "scogliera" di energia potenziale forzando così il flusso degli atomi di gas lungo questo "salto" in modo analogo all'acqua che precipita in una cascata. Il risultato è la creazione di qualcosa di paragonabile ad un orizzonte degli eventi in cui metà del gas aveva una velocità maggiore della velocità del suono e l'altra metà una velocità inferiore. 
Create le premesse, i ricercatori hanno cercato la comparsa spontanea di coppie di fononi (equivalente dei fotoni quando si parla di quanti di onde sonore) nel gas. 
Evidente il parallelismo tra i fononi e le coppie di particelle virtuali all'orizzonte degli eventi di un buco nero.
Il fonone della coppia "apparso" nella metà lenta del flusso di gas potrebbe viaggiare "controcorrente" sfuggendo così alla "cascata", mentre un fonone comparso nell'altra metà, che scorre a velocità supersonica, non ha nessuna possibilità di sfuggire. Trovate queste coppie di fotoni e verificata la loro correlazione, bisognava capire se questo analogo della radiazione di Hawking rimanesse costante nel tempo. Analisi complicata dalla labilità di questi fononi, distrutti velocemente dal calore generato dal processo, tanto da avere dovuto effettuare 97 mila misurazioni (sic!) in un periodo di 124 giorni per ottenere i dati cercati.
I dati hanno confermato che la radiazione di Hawking è stazionaria, come previsto da Hawking 40 anni prima.

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