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Batteri zombie e tubercolosi

La tubercolosi colpisce oggi oltre 12 milioni di persone nel mondo (vedi QUI). Le previsioni per il prossimo futuro, nonostante il calo registrato negli ultimi anni nei paesi sviluppati, non sono positive.
Se la vaccinazione prima e la scoperta degli antibiotici poi avevano fatto sperare in un futuro in cui la tubercolosi sarebbe diventata non solo una malattia rara ma un problema del passato, la diffusione sempre maggiore di ceppi batterici multi-resistenti ha riproposto il problema facendo spostare indietro di anni le "lancette terapeutiche".
Il trattamento ad oggi usato per i casi più resistenti, una combinazione di quattro farmaci diversi, non solo non è più garanzia di successo ma si è mostrata labile di fronte alla sfida di ceppi batterici sempre più agguerriti.

Ad alimentare il problema dei ceppi multi-resistenti le condizioni di sovraffollamento delle megalopoli dei paesi in via di sviluppo e il nuovo fenomeno della tubercolosi come malattia di importazione, conseguente ai movimenti migratori incontrollati verso l'Europa (articolo precedente, QUI)

M. tubercolosis (CDC/Elizabeth White)
Il rischio tubercolosi oggi è globale e non è più confinato a paesi a rischio o ai ricordi letterari di paesi da anni dotati di strutture sanitarie e norme igieniche adeguate.
Ma tralasciamo per il momento il discorso centrato sulla resistenza agli antibiotici, di cui ho ampiamente discusso in passato (QUI), e concentriamoci su un aspetto non meno problematico cioè le recidive di cui soffrono molti pazienti dopo aver completato il trattamento ed essere "apparentemente" guariti.
Alcuni studi recenti hanno indagato le modalità con le quali il Mycobacterium tuberculosis (il batterio responsabile della tubercolosi) elude un trattamento di per sé efficace. Sembra infatti che in presenza di un ambiente sfavorevole il batterio si trasformi in una sorta di "zombie" all'interno del corpo del paziente. Nulla a che vedere con comportamenti narrati da George Romero però; si tratta di un termine scelto dai ricercatori per indicare un batterio che si pone in una condizione di quasi totale inattività metabolica "vigile e reversibile", in grado cioè di riattivarsi una volta che il pericolo sarà venuto meno.
Nota. I ricercatori hanno volutamente usato l'ambiguo termine "zombie" invece del classico "spore", cioè le classiche forme inerti tipiche di alcuni batteri Gram positivi (come avviene in Streptomyces, Bacillus e Clostridium), anch'esse indotte in risposta a condizioni ambientali inadatte per la vita batterica (temperatura, carenza di nutrienti o di acqua, etc). Le spore rappresentano una sorta di scialuppa di salvataggio creata e liberata dalla cellula in lisi sotto forma di endospora. Questa contiene difatti tutti i codici necessari per tornare attiva e vitale ma è metabolicamente inattiva (uno stato definito come criptobiotico).
Nel caso della tubercolosi il batterio fa qualcosa di diverso dal diventare una spora quando l'ambiente diventa "pericoloso": assume una forma non propriamente vitale dato che non si divide ma a differenza della spora mantiene attiva la produzione di energia e la sintesi proteica. In pratica evita di dirigere il suo metabolismo verso la via che porta alla crescita cellulare prima e a cascata alla divisione cellulare.

Proprio la possibilità delle cellule di entrare nello stato "zombie", definito tecnicamente come NGMA (acronimo per "non cresce ma ha metabolismo"), sarebbe la causa principale delle recidive della malattia in pazienti apparentemente curati per la TBC.
Quale è il segnale che dice al batterio "pericolo imminente. Mettersi in sicurezza"? Una qualunque condizione di pericolo immediato come un trattamento antibiotico aggressivo.

Per quale motivo si scopre solo ora l'esistenza di questo stato metabolico nel micobatterio?
La difficoltà era intrinseca al problema, dato che la caratterizzazione di un batterio si basa in primis sulla sua capacità di proliferare (un problema importante in microbiologia quando bisogna isolare una specie che ha bisogno per crescere di condizioni molto particolari). Se il batterio non cresce, non puoi isolare la colonia e quindi non puoi identificare il batterio.
L'elemento chiave che ha permesso di identificare questa peculiarità batterica è stato lo scoprire che alcuni dei batteri apparentemente uccisi dal trattamento antibiotico erano in realtà metabolicamente attivi: quindi per definizione queste cellule non erano né morte né spore, e tantomeno in stato stazionario.
Forti di tale osservazione i ricercatori del EPFL (Politecnico Federale di Losanna) hanno pensato bene di modificare geneticamente i batteri in modo tale da renderli in grado di produrre una proteina fluorescente, la presenza della quale poteva essere utilizzata come marcatore di attività trascrizionale dei geni e quindi segnalatore di metabolismo. Ottenuto il batterio modificato diventava un giochetto seguire al microscopio a fluorescenza il comportamento dei batteri cresciuti in diverse condizioni di stress (carenza di nutrienti, presenza di antibiotici o condizioni che simulassero l'attacco da parte del sistema immunitario del paziente).

Si è così ottenuta la prova che il Mycobacterium tuberculosis risponde alle condizioni di stress diversificando la sua popolazione in modo da massimizzare le possibilità di sopravvivenza. Uno degli esiti della diversificazione è la comparsa di cellule nello stato zombie (NGMA).
Il fenomeno è stato confermato in vivo: si è infatti osservato che i polmoni dei topi malati di tubercolosi sono particolarmente ricchi di queste cellule.
Ma il dato più interessante è che queste cellule sono paradossalmente meno abbondanti nei topi con sistema immunitario inefficiente. Il che a ruota indica che è proprio il sistema immunitario a giocare involontariamente un ruolo negativo chiave agendo come fattore "stressogeno" per indurre i batteri a "rintanarsi" nello stato NGMA.
Una volta che il batterio è "zombificato", l'azione degli antibiotici perde notevolmente di efficacia essendo queste molecole generalmente attive sulle cellule proliferanti e in ogni caso dotate di una discreta attività metabolica.
Questo spiegherebbe le recidive al termine del trattamento e, a lungo, andare anche la comparsa di ceppi resistenti agli antibiotici.
Il problema non è poi così diverso da quello che è necessario fronteggiare per sviluppare una terapia efficiente e duratura contro l'HIV. Fintanto che il virus rimane silente, integrato nel genoma dei linfociti, i farmaci hanno probabilità nulla di portare alla eradicazione della malattia. Solo rimuovendo il fattore di selezione negativa alla proliferazione (fornito dal cocktail di farmaci anti-retrovirali), il virus riprende a dividersi ridivenendo così sensibile al trattamento. Ma se si rimuove il selettore negativo, il virus riprende a dividersi e si torna al punto iniziale. Non necessariamente. Se il virus viene ingannato forzandolo a replicarsi ma mantenendo nel contempo il trattamento farmacologico, allora si può sperare di eradicarlo dai suoi santuari. Tale approccio è portato avanti da alcune linee di ricerca, ovviamente ancora in fase sperimentale.
E' verosimile che il futuro prossimo della ricerca sulla tubercolosi si focalizzerà su trattamenti mirati contro le cellule "zombie" sfruttando delle particolarità metaboliche della cellula o forzando la stessa ad uscire dallo stato NGMA (ridivenendo così sensibili ai trattamenti standard).
Un compito non semplice. Ma almeno oggi sappiamo in che direzione muoverci.

Fonte
- Stress and Host Immunity Amplify Mycobacterium tuberculosis Phenotypic Heterogeneity and Induce Nongrowing Metabolically Active Forms
Manina G, et al,  Cell Host & Microbe (2015)


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Consiglio vivamente la lettura dell'articolo di Heidi Arjes (Current Biology, 2014, 24(18): 2149-2155) se volete maggiori informazioni sulle cellule zombie.
Il lavoro di questa giovane e brillante ricercatrice dell'università di St. Louis, si è focalizzato sulle condizioni di stress che portano la cellula (Staphylococcus aureus) verso il punto definito di "non ritorno".
Il video di seguito ne riassume i concetti principali. 



Se invece il vostro interesse è più verso il gore o atmosfere orrorifiche in biologia, allora vi consiglio la lettura di articoli precedenti: "Formiche zombie"; "La larva di vespa nasce come Alien"; "Ci sono cellule vive in cadaveri?"




L'epidemia di Ebola ad un anno dall'inizio

In occasione di una conferenza a cui è intervenuto Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases - NIAID, è stato possibile avere un quadro aggiornato dei numeri dell'epidemia di Ebola in Africa. Una epidemia "poco interessante" oramai per i media, ma mai dimenticata dagli addetti ai lavori, siano essi scienziati, addetti alla sicurezza o semplicemente persone che ben conoscono i rischi reali legati alle pandemie nel mondo globalizzato di oggi.

Domanda diretta. L'epidemia è finita? No 
(2 anni dopo questo articolo un nuovo focolaio di Ebola è apparso in zona del tutto diversa dell'Africa --> "Ebola. Di nuovo")
Il territorio è stato messo controllo grazie soprattutto agli sforzi americani che hanno dispiegato circa 3 mila militari e migliaia di civili, impegnati in attività di logistica e nella sanità. Una azione di petto e su larga scala che si è resa necessaria a causa delle enormi problematiche infrastrutturali e sociali locali.
Giusto per avere una idea delle gravi carenze infrastrutturali locali, nei mesi successivi alla presa d'atto internazionale della situazione di emergenza e quando il materiale sanitario per affrontare l'emergenza (in primis indumenti protettivi per gli operatori sanitari) era già arrivato nell'area, si riscontrava una penuria di materiale base (negli ospedali si disponeva solo un paio di guanti - in teoria usa e getta - alla settimana e di un solo camice da lavare ogni fine giornata).
Questo pur essendo i magazzini territoriali pieni del materiale carente negli ospedali da campo.
Il motivo? Il materiale, una volta scaricato dagli aerei cargo veniva semplicemente stipato nei magazzini dalle autorità locali senza essere inventariato. Di fatto quindi non si sapeva cosa fosse disponibile, dove fosse e in che quantità. L'esercito ha costruito una catena di distribuzione parallela, istruendo i locali delle norme base sulla gestione del magazzino, e grazie al supporto degli elicotteri si sono fatti carico di distribuire il materiale ospedaliero in tempi rapidi a qualunque struttura sanitaria ne avesse fatto richiesta, per quanto remota fosse. Non parliamo necessariamente di villaggi dispersi in luoghi inaccessibili (paradossalmente più al sicuro dal contagio per via umana) ma di località  distanti anche solo 50 km; una distanza che in termini pratici equivaleva a quasi una giornata di viaggio date le strade e il traffico locali. La logistica parallela ha permesso da una parte di evitare l'ecatombe del personale sanitario (ricordo che questi rappresentano circa il 25 per cento delle persone infettatesi nelle prima parte del 2014) che aveva, a cascata, scatenato una comprensibile fuga o riluttanza a fornire assistenza medica sul territorio.

credit: CDC
 Altro elemento importante è che prima che Obama decretasse l'area come zona vitale per la sicurezza nazionale autorizzando l'intervento (dietro, sia chiaro, il placet dei governanti locali) la quasi totalità delle ONG aveva lasciato il paese a causa del grave e non gestibile rischio per i loro operatori (non solo per il rischio infezione ma anche per il timore di sommosse anti-mediche, vedi sotto). Tra le ONG l'eccezione è Médecins Sans Frontières, che una volta di più ha dimostrato nei fatti di essere l'organizzazione che più preferisce l'operatività alle chiacchiere mediatiche o alla pubblicità. Una organizzazione solida e pragmatica che ha accettato senza alcuna preclusione ideologica l'offerta di aiuti logistici e medici offerti dall'esercito americano.

L'organizzazione logistica e l'assistenza sanitaria per quanto fondamentali non sarebbero stati sufficienti senza una parallela campagna informativa capillare ai locali su come minimizzare il rischio di infezione, sui sintomi da riconoscere e sulla necessità di trasportare i congiunti malati negli appositi centri sanitari. E' stato così possibile iniziare un monitoraggio accurato delle nuove infezioni, intervenendo in modo mirato sui nuovi focolai di infezione.

A differenza di altre malattie infettive, il virus Ebola si trasmette solo quando il soggetto infettato diviene sintomatico; tuttavia i sintomi iniziali possono essere confusi con quelli causati da altre malattie endemiche, ad esempio la malaria (lo schema riassuntivo dei sintomi nelle diverse fasi della malattia è disponibile QUI).
Una sottovalutazione spiegabile con il fatto che il virus Ebola era praticamente sconosciuto in Africa occidentale (le precedenti epidemie sono tutte avvenute nella zona delimitata da Zaire, Congo e Sudan). La non percezione del pericolo è stata anche la causa delle sommosse che hanno costretto molte ONG a fuggire dal paese: i parenti dei ricoverati, convinti che il malessere dei congiunti fosse uno dei tanti che periodicamente colpiscono gli abitanti di quelle aree e vedendo che la stragrande parte dei ricoverati moriva durante la degenza, cominciarono ad associare gli ospedali a centri in cui venivano uccise persone "sane".
Due le conseguenze di tale pensiero: i nuovi infettati venivano nascosti nei villaggi (con conseguenze morte degli altri abitanti); sommosse dirette contro il personale sanitario culminato anche con l'uccisione di medici ed infermieri.
Sfuggiva ovviamente che non trattandosi di malaria o di altre febbri, il tasso di mortalità arrivava fino al 90 per cento, in assenza di terapie di mantenimento (e anche con queste il tasso di mortalità è superiore al 40 per cento). Un tasso spaventoso spiegabile con il suo rapido decorso, essendo tra le più aggressive a livello sistemico (culmina in una disfunzione multi-organo che in genere porta alla morte), oltre che per l'assenza di terapie farmacologiche valide (vedi sotto).

Sappiamo oggi che il motivo per cui il virus non si era mai palesato in quest'area geografica non era perché era assente ma perché le probabilità di contatto tra essere umano ed il serbatoio naturale del virus erano molto scarse. E anche quando il contatto fosse avvenuto, la bassa densità di popolazione, unita alle difficoltà degli spostamenti e al rapido decorso della malattia, di fatto impedivano la comparsa stessa di una epidemia. In altre parole ogni nuova infezione si auto-estingueva perché chiunque l'avesse contratta moriva pochi giorni dopo la comparsa dei sintomi.
Nelle ultime decadi l'aumento della popolazione locale, le procedure di disboscamento e la conseguente penetrazione umana in aree prima a bassissima densità umana hanno attivato una sorta di bomba ad orologeria deflagrata con il paziente "zero".

L'analisi retrospettiva data al 26 dicembre 2013 il primo malato la cui sintomatologia è attribuibile (a posteriori) al virus Ebola. Si trattava di un bambino di 18 mesi residente nel villaggio di Meliandou in Guinea. La sua morte avvenne due giorni dopo la visita ambulatoriale, ma nel frattempo il virus aveva già cominciato a diffondersi, nella sua famiglia e tra i vicini prima, per raggiungere, intorno al 12 gennaio 2014, l'ospedale di Guéckédou.

Sulla dinamica dell'infezione del paziente zero è possibile solo fare ipotesi. L'unica certezza è che il bambino era solito giocare nei pressi dell'albero cavo raffigurato nella foto, un luogo frequentato anche dai pipistrelli della frutta, gli animali ritenuti essere il serbatoio naturale del virus.

Il confronto tra la distribuzione del pipistrello della frutta e le zone colpite da Ebola identificano aree che potrebbero diventare serbatoi naturali del virus (-->mappa ingrandita). Credit: WHO/OMS

La contaminazione è probabilmente avvenuta attraverso l'ingestione da parte del bambino di frutta contaminata da saliva/feci di pipistrelli o anche solo per avere portato alla bocca oggetti contaminati (un evento più che comune per un bambino).
L'albero cavo da cui, probabilmente, ha avuto inizio l'epidemia 2014-15 (EMBO Mol. Med. 2015, v7, pp.17-23)

E' con gennaio 2014 quindi che il virus esce "dalla foresta" in cui risiede da sempre dando inizio ad una trasmissione totalmente mediata dal contatto umano (o meglio dai liquidi prodotti dai soggetti sintomatici) che porterà a circa 20 mila infezioni in pochi mesi.
Dal luogo dell'epicentro il virus procedette inesorabile (compatibilmente con i lenti spostamenti causati dalle disastrate strade degli infettati asintomatici o dei sintomatici ancora in grado di spostarsi) via via alle prefetture limitrofe (vedi mappa a marzo 2014)
Il focolaio iniziale a marzo 2014 ...
Un anno dopo questa è la diffusione dell'epidemia (come casi registrati). Ovviamente faccio riferimento alla sola Guinea. Nella tabella a lato sono indicati i casi registrati nei paesi limitrofi.
... i casi registrati ad oggi (marzo 2015)
I diversi colori indicano quanto tempo è trascorso dall'ultimo caso di Ebola: meno di 7 giorni (rosso); tra 22 e 42 giorni (giallo); più di 42 giorni (verde).
E' ad agosto 2014 che l'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) dirama l'allerta di emergenza sanitaria globale, un allarme che scatta quando una malattia contagiosa supera la soglia di un morto ogni 10 mila persone per giorno.
L'obiettivo primario diviene a quel punto impedire con ogni mezzo che i diversi focolai di epidemia che dalla Guinea si erano propagati nei paesi adiacenti arrivassero nella vicina e popolosa Nigeria, un evento che avrebbe avuto conseguenze disastrose. L'aumento dei controlli, il blocco delle frontiere e l'arrivo di personale competente in loco, sembra essere stato risolutivo. Alla fine di ottobre 2014 il WHO ha dichiarato ufficialmente che il pericolo in Nigeria era stato scongiurato e che l'epidemia nel paese, dopo 42 giorni dall'assenza di nuovi casi, era ufficialmente finita.
Un esempio mirabile di come i controlli rigidi abbiano permesso (in un paese di molti milioni di persone) di limitare i casi a 19 di cui 7 letali (fonte WHO).
Aggiornamento 5 maggio 2015
  • Liberia: Nessun nuovo caso dal 20 marzo 2015. Epidemia ufficialmente finita.
  • Guinea: 9 nuovi casi confermati al  4 maggio.
  • Sierra Leone: 21 nuovi casi confermati al 27 aprile. 6 casi nel periodo dal 22 al 29 April
Ma se il caso è chiuso in Nigeria non si può dire lo stesso nei paesi da cui l'epidemia è partita, sebbene gli enormi sforzi compiuti abbiano messo l'epidemia sotto controllo e per la prima volta da mesi il numero di nuovi casi ha subito un drastico calo.
Di seguito la conta dei casi cumulativi nell'area aggiornata ad aprile 2015 ...
Dati aggiornati al 15/4/2015 (credit: WHO; The Economist)
Questo il numero di nuovi casi dall'inizio dell'anno.
L'epidemia in questi paesi è chiaramente sotto controllo ma non può assolutamente essere definita conclusa (fonte: WHO)
Gli ultimi bollettini redatti dal WHO indicano che sebbene l'epidemia sia sotto controllo e la casistica di nuove infezioni sia in drastico calo, il virus è tutt'altro che annientato e rimane in agguato. Limitandoci alla sola Guinea (l'epicentro della malattia, vedi sotto) nella settimana conclusasi con il 12 aprile sono stati registrati 37 nuovi casi, contro i 30 della settimana precedente. In leggero rialzo ma circa 15 volte meno del picco registrato a dicembre 2014.

L'epidemia del 2014 ha avuto un impatto senza precedenti rispetto alle precedenti epidemie (vedi grafico) o almeno quelle di cui si ha notizia; la malattia è stata identificata nel 1976 ma è verosimile che il passaggio del virus da animale ad uomo fosse già avvenuto più volte in passato. I motivi per cui solo nel 1976 se ne è avuta l'evidenza vanno cercati in primis nella natura auto-limitante della malattia in condizioni di bassa densità della popolazione.


I numeri non sono l'unico dato peculiare di questa epidemia che si distingue anche per la sintomatologia. Nonostante l'attributo che caratterizza il virus Ebola nei media, quello di virus emorragico, in realtà questa non è la sua caratteristica principale e di sicuro NON è tra i virus emorragici più aggressivi (trovate gli altri virus --> qui). La perdita di sangue riguarda in media il 45% dei pazienti e solo nelle fasi avanzate della malattia. L'epidemia attuale di Ebola  presenta una frequenza dei sintomi emorragici inferiore al normale mentre diventa massiccia la perdita di liquidi a livello gastrointestinale (diarrea e vomito sono responsabili della perdita di 5-10 litri di liquidi corporei al giorno!!).
Quali siano le motivazioni che hanno reso questa epidemia diversa dalle precedente, lo potrà dire solo lo studio accurato del genoma virale e il confronto con quello delle epidemie precedenti.
Aumentare la percentuale di sopravvivenza vuol dire agire, in assenza di farmaci specifici, sui sintomi che mettono a rischio immediato la sopravvivenza del paziente, sintomi che qui coincidono con una profonda disidratazione. La pratica sul campo ha mostrato che ristabilire per quanto possibile un equilibrio dei liquidi corporei fa guadagnare tempo al paziente e consente al suo sistema immunitario di montare una risposta adeguata.
La reidratazione può avvenire per via orale o se la perdita di liquidi è troppo alta (il che vuol dire quasi sempre) per via endovenosa. La via endovenosa è chiaramente ad altissimo rischio per gli operatori sanitari ed ancora di più le procedure di dialisi che si rendono necessarie nelle fasi avanzata della malattia quando il collasso della funzionalità renale è il segnale di pericolo di vita imminente.
E' facilmente comprensibile allora comprendere la sfida che hanno dovuto affrontare gli operatori sanitari per implementare tali procedure in ospedali da campo.
 ***
In apertura ho accennato al fatto che il luogo in cui il bambino si è verosimilmente infettato è un albero frequentato da pipistrelli. 
Ebola è infatti un chiaro esempio di zoonosi, cioè di malattia trasmessa da microbi che non hanno l'essere umano come ospite naturale. Nella maggior parte dei casi la possibilità che un virus riesca ad infettare e a riprodursi in un ospite non adatto è molto bassa. Tanto maggiori sono i contatti e tanto maggiore la possibilità che uno dei tanti virus mutati prodotti ad ogni riproduzione del virus abbia acquisito, per puro caso, caratteristiche in grado di superare la barriera interspecifica. Una volta che il virus riesce ad infettare l'essere umano in modo produttivo (cioè è in grado di generare una progenie virale a sua volta infettiva) l'epidemia può iniziare, sempre che il paziente sopravviva abbastanza a lungo.
Nota. Non tutte le zoonosi sono uguali. In alcune malattie (malaria, Lyme, etc) l'infezione avviene sempre e soltanto partendo da un animale infettato. Ad esempio non ci si può infettare di malaria anche vivendo insiema a malati (tranne nel caso di trasfusioni) se il microbo (un plasmodio) non transita prima nella zanzara dove avviene la sua maturarazione. In altre è necessario un lungo processo selettivo per rendere il virus permissivo in grado di infettare e di riprodursi nel nuovo ospite (HIV, morbillo, vaiolo).
***
Ben difficilmente Ebola potrà essere eradicata. Il progressivo disboscamento rende sempre più facile il contatto tra noi e nicchie ecologiche finora nascoste. La probabilità che i contatti finora saltuari con scimmie, pipistrelli, roditori (o altro) infettati da virus ignoti non è più materia di statistica teorica ma di quando si manifesterà il prossimo focolaio.

***
Ultimo considerazione sui vaccini in via di sperimentazione.
Uno dei problemi principali che hanno dovuto affrontare gli sperimentatori è come fare i test. Per ovvie ragioni etiche e di rigore scientifico non è concepibile fornire prodotti che non siano stati validati in laboratorio prima (compresi test su modelli animali) e in studi clinici poi. Non fare questo equivarrebbe a dare ad un soggetto un prodotto che non solo non si sa se funziona ma di cui si ignorano gli effetti collaterali, potenzialmente letali.
Il modello animale di eccellenza sono le scimmie, come noi sensibili al virus Ebola. Tra l'altro il tasso di mortalità dei primati non umani infettati è perfino superiore a quello riscontrato in essere umano (quindi i dati sperimentali devono essere corretti per il tasso di mortalità).
I dati ad oggi disponibili indicano che:
  • l'utilizzo di virus attenuati o inattivati non conferisce protezione in primati;
  • l'utilizzo di immunizzazione genetica o di vaccini ricombinanti conferisce un grado di protezione insufficiente;
  • i vettori (lo scheletro in grado di trasportare pezzi di Ebola in modo sicuro ed immunogenico) più promettenti  sono quello della stomatite vescicolare (VSV) e l'adenovirus (AdV);
  •  è stato approvato per uso di emergenza un vaccino post-esposizione mostratosi valido in scimmie se somministrato fino a 48 ore dopo l'esposizione al virus. I test su essere umano sono in atto e sono condotti sul personale sanitario entrato in contatto con il virus e quindi a rischio elevato di infezione.
I risultati della sperimentazione ad oggi sui vaccini

Un compito arduo quello di trovare una cura.
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, il virus Ebola ha un tasso di variazione nettamente inferiore al virus influenzale (e mi riferisco non ai ceppi classici ma a quelli responsabili di SARS et similia). Fortunatamente per noi Ebola non è strutturalmente adatto a mutare come un virus influenzale che deve tale proprietà all'essere dotato di più filamenti, quindi in grado di riassortirsi ogni volta che una cellula viene infettata da due virus influenzali diversi.
Ma questa è un'altra storia.


*** AGGIORNAMENTI IMPORTANTI ***

--> I primi risultati degli studi clinici sull'efficacia dell'immunizzazione passiva (marzo 2016)
--> Il virus può persistere nei pazienti guariti  (luglio 2016)
--> Ebola, di nuovo! (luglio 2019). Nuovo focolaio, non correlato, in ltra zona dell'Africa equatoriale

(Tutti gli articoli apparsi su questo blog sul tema Ebola --> qui)


Vitamina B e morbo di Alzheimer. Nessun effetto terapeutico dimostrato

E' vero che assumere integratori vitaminici aiuta a contrastare l'insorgenza o a rallentare la progressione di malattie neurodegenerative come l'Alzheimer?

D'istinto direi di no in quanto non è verosimile che vi sia ora (o vi sia stata nelle decadi immediatamente precedenti) una insufficiente assunzione di vitamine con l'alimentazione.
E' vero però che proprio la presunta carenza di vitamine è spesso il fulcro su cui si basano alcuni approcci terapeutici miranti a contenere i danni neurodegenerativi, se non a ripristinare alcune funzionalità cognitive conseguenti all'Alzheimer.
A confermare la fondatezza dei miei dubbi arriva ora uno studio dell'università di Oxford in cui si afferma che le vitamine del gruppo B, non rallentano né il declino mentale legato all'età e tanto meno sono in grado di prevenire la malattia di Alzheimer. Una cattiva notizia certo, ma non inattesa e soprattutto scientificamente fondata.
La forza dell'articolo britannico è la potenza statistica derivante da una metanalisi su un campione complessivo di 22 mila persone, provenienti da 11 studi clinici randomizzati volti ad indagare la relazione tra vitamina B e funzioni cognitive nell'anziano.

Metanalisi. Analisi che raggruppa studi già pubblicati, pesandoli per i diversi parametri usati, in modo da ottenere risultati con validità statistica maggiore di quella presente nei singoli lavori.
Di seguito alcuni elementi per capire su cosa verteva l'ipotesi terapeutica della vitamina B.
  • Nei soggetti affetti da morbo di Alzheimer sono spesso presenti alti livelli ematici di omocisteina
  • alti livelli di questo aminoacido in soggetti sani sono correlati con il rischio futuro di sviluppare tale malattia neurodegenerativa.
La summa di questi elementi è alla base della cosiddetta "ipotesi della omocisteina" secondo la quale
l'assunzione di vitamine del gruppo B (tra cui acido folico e vitamina B12) potrebbe ridurre il rischio di malattia di Alzheimer, riducendo i livelli della omocisteina.
Tale ipotesi aveva ottenuto una prima conferma da uno studio del 2010 in cui si mostrava come soggetti malati con alti livelli di omocisteina sembravano beneficiare dall'assunzione di vitamine del gruppo B (benefici evidenziati con un minor rimpicciolimento del volume cerebrale, tipico delle fasi medio avanzate della malattia).

Lo studio però era troppo piccolo per essere statisticamente significativo. La nuova analisi, sotto l'egida della "B-Vitamin Treatment Trialists Collaboration", nasce proprio dalla necessità di ottenere dati più solidi.

I nuovi dati indicano che da un punto di vista funzionale non si ha alcun miglioramento sulle capacità intellettive dei pazienti. Se si guarda a misure della funzione cognitiva globale - o punteggi per specifici processi mentali come la memoria, la velocità o la funzione esecutiva - non si è osservata alcuna differenza tra coloro che hanno assunto regolarmente vitamine del gruppo B e quelli trattati con placebo.
"Sarebbe stato stato molto bello trovare qualcosa di diverso dai risultati finali" ha affermato Robert Clarke dell'Università di Oxford, che ha guidato il lavoro. "Il nostro studio però mette la parola fine al dibattito in corso: le vitamine del gruppo B (B12 e acido folico) non riducono il declino cognitivo con l'avanzare dell'età."
I risultati sono stati pubblicati sul American Journal of Clinical Nutrition.

Il dato va ad aggiungersi alle evidenze in altri che campi che ridimensionano le leggende metropolitane sulle vitamine come panacea di quasi tutti i mali. L'assunzione di integratori, contenenti tra l'altro vitamine del gruppo B, non ha una dimostrata azione preventiva sulle malattie cardiache, sull'ictus o sul declino cognitivo. Il fatto che circa il 25-30% della popolazione adulta faccia uso di integratori multi-vitaminici, con la convinzione che siano buoni anche per cuore e cervello è privo (stante una alimentazione non deficitaria) di fondamento scientifico. Ha molto più senso mangiare più frutta e verdura (assumendo così anche le fibre), evitare troppa carne rossa e limitare l'eccesso calorico. Soprattutto negli anni che precedono la comparsa dei sintomi!!

Questo non vuol dire che assumere integratori a base di vitamina B (oltre a quelle presenti nella dieta) sia inutile. Soprattutto nel caso delle donne che vogliono diventare madri assumere acido folico regolarmente entro il terzo mese di gestazione, è fondamentale dato il dimostrato effetto protettivo per il nascituro dai difetti del tubo neurale.

Tornando al morbo di Alzheimer, i migliori consigli ad oggi sono una dieta sana e bilanciata, fare esercizio fisico regolare e mantenere la pressione sanguigna e il peso sotto controllo. E soprattutto mantenere attivi i rapporti sociali, un efficace baluardo contro i problemi cognitivi (vedi anche l'articolo "Sono veramente utili i programmi di Brain Training?").
Il lavoro presentato non esclude che l'assunzione di vitamine B possa essere utile in gruppi specifici di persone affette da demenza. Ma non ci sono al momento dati in grado di indicarci quali siano i soggetti (se vi sono) che potrebbero avere un maggior beneficio da tale trattamento; anche se verosimilmente si tratta di quelle persone in cui la decadenza delle facoltà cognitive è legata a squilibri di natura organica.

In conclusione, assumere vitamina B (nelle dosi consigliate) male non fa, ma non ci sono evidenze che serva a qualcosa.

Sullo stesso tema vedi anche "Vitamine e terapia malattie neurodegenerative", "Vitamina B12 e acne"o in generale i tag "vitamine" e "Alzheimer" presenti nel pannello a lato.

Fonte
- Effects of homocysteine lowering with B vitamins on cognitive aging
Robert Clarke et al, American Journal of Clinical Nutrition


Dal gorilla di pianura il virus che originò due dei sottotipi di HIV-1

Due dei quattro gruppi di virus che ricadono sotto il nome di HIV-1, il gruppo O e P, hanno avuto origine da un virus che infetta i gorilla delle pianure.

 Questo è quanto emerge da uno studio comparativo tra il virus dell'immunodeficienza delle scimmie (SIV) e l'omologo umano (HIV), condotto da un team internazionale di ricercatori della University of Pennsylvania, dell'università di Montpellier e dell'università di Edimburgo. L'articolo è stato pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences - USA).
Albero filogenetico e distribuzione dei vari sottotipi di HIV

La parentela tra SIV e HIV è nota da tempo, così come il diretto rapporto di discendenza della forma umana da quella di scimmia, conseguenza sia della comparsa di mutanti virali parzialmente competenti per l'infezione umana (dalla cui progenie si sono poi via via selezionati virus più efficienti) che dall'aumento dei contatti uomo-primati (successivo al disboscamento) e all'ampliamento della rete di trasporto tra le comunità rurali e i grandi centri abitati. Sappiamo anche che il colpo decisivo che ha trasformato una epidemia ristretta e a scarsissimo impatto nella attuale epidemia globale è legato al diffondersi di trattamenti medici in cui il concetto di sterilità era un optional ... (ad esempio utilizzo di uno stesso ago su più persone).
HIV-SIV-phylogenetic-tree straight.svg
Uno degli alberi filogenetici usati per connettere tra loro i vari sottotipi di SIV e HIV
graphic by Thomas Splettstoesser (www.scistyle.com) by wikimedia
Per comprendere la dinamica dell'epidemia è necessario quindi fare un percorso a ritroso andando a cercare, per ciascun gruppo di HIV, l'animale portatore del SIV correlato.

La presenza di quattro tipi (M, N, O, P) di HIV-1 è indicativa del fatto che il passaggio del virus da scimmia a essere umano è avvenuto in almeno quattro distinte occasioni, ciascuna caratterizzata da diverso "successo".
Mentre il gruppo M è come dice il nome (M = Major) quello che si è maggiormente adattato alla fisiologia umana divenendo responsabile della pandemia di AIDS a livello globale (il 90% dei casi, circa 40 milioni le persone infettate, hanno questo virus), i gruppi N e P sono stati trovati solo in un numero ristretto di individui in Camerun; in particolare il tipo P, identificato solo nel 2009, è quello a maggiore somiglianza con il virus di gorilla (SIVgor), ad indicarne verosimilmente l'origine.
Il gruppo O,  sebbene non così diffuso come il gruppo M, è comunque responsabile di circa 100 mila infezioni nell'Africa centro-occidentale.
Data l'ampia diffusione del tipo M non stupisce che questo abbia a sua volta generato una discendenza eterogenea, rappresentata dai sottotipi A, B, C, D, F, G, H, J e K.
Western lowland gorilla
(©by Greg Hume /Wikipedia)
Di tanto in tanto, in seguito alla contemporanea infezione in un individuo di due sottotipi di HIV-1, si creano le basi per una ulteriore eterogeneità, derivante da eventi di ricombinazione del genoma virale. La maggior parte dei nuovi ceppi non da luogo ad alcuna discendenza a causa di una ridotta o nulla funzionalità, ma alcuni tra i miliardi di virus prodotti durante la fase replicativa avrà la combinazione genica ottimale per superare le forche caudine della competizione con gli altri virus; da qui la comparsa di nuove varianti. 
L'eterogenea progenie virale presente nelle persone con doppia infezione va sotto il nome di CRF (circulating recombinant forms). Dall'identificazione del CRF presente in un paziente è così possibile così risalire all'area geografica di appartenenza (per approfondimenti vedi anche QUI).

Se studi precedenti avevano già chiarito l'origine dei gruppi M e N, identificata nelle comunità di scimpanzé del sud del Camerun, l'origine dei gruppi O e P è rimasta avvolta nell'incertezza. Una lacuna conoscitiva che ha reso necessaria una analisi sistematica per rintracciare il serbatoio naturale da cui questi virus sono originati.
Il capillare lavoro di campionamento per tracciare il passaggio del HIV da scimmia a essere umano (©PNAS)
 Il lavoro descritto nello studio è stato capillare e sistematico, con il prelievo sul campo delle feci di diverse popolazioni di gorilla, quelli di pianura (sia delle zone orientali che occidentali dell'Africa equatoriale) e di montagna (da Camerun, Gabon, Repubblica Democratica del Congo e Uganda).
L'identificazione del SIVgor in quattro dei siti analizzati nel Camerun meridionale ha posto la base teorica per attribuire ai gorilla di pianura occidentali l'origine di alcuni gruppi di HIV.
Nota. Ricordo che a differenza dell'epidemia di Ebola dove il contatto tra virus ed essere umano o primate (tipicamente dopo ingestione di frutta contaminata da escrementi di pipistrelli) porta nella stragrande maggioranza dei casi ad una infezione sintomatica (e fatale senza trattamento nel 90% dei casi), nel caso del SIV non solo l'infezione interspecie è altamente improbabile in quanto poco efficiente ma le scimmie "serbatoio" sono identificabili solo dopo analisi di laboratorio data la bassa patogenicità del virus nelle scimmie (a differenza del HIV negli umani). Lo studio non era quindi finalizzato ad identificare un nuovo focolaio ma per ricostruirne la dinamica di diffusione.
Il sequenziamento del genoma del SIVgor ha provato lo stretto grado di parentela tra questo e i gruppi O e P del HIV-1. In altre parole il gorilla di pianura occidentale può essere visto come il contatto critico avuto dal "paziente zero" infettato da queste forme di HIV.
Nota. Ho volutamente tralasciato ogni accenno sull'origine del HIV-2 in quanto distinta da un punto di vista geografico (centrata su Guinea e Costa d'Avorio), temporale e delle scimmie coinvolte. Ad esempio mentre l'origine del HIV-1 è identificata nei primati antropomorfi (scimpanzé e gorilla), nel caso del HIV-2 l'origine è verosimilmente nei cercocebi. Inoltre sebbene da un punto di vista clinico (AIDS) non ci siano grosse differenze a seconda di quale sia il virus colpevole, dal punto di vista "adattativo" ci sono nette differenze sia nella efficienza di infezione che nel numero di infetti, con i casi dovuti a HIV-2 in netta minoranza e in costante declino anche nelle aree africane in cui è sorto, soverchiato oramai dal HIV-1. Per approfondimenti sull'origine dei due virus vedi l'articolo di Paul Sharp (riferimento a fondo pagina)
Comprendere l'origine di una malattia virale è fondamentale sia per monitorare nuove trasmissioni inter-specie che per studiare le mutazioni che hanno permesso al virus di infettare l'essere umano.

Articolo successivo sul tema HIV --> "HGPV e HIV".
La ricostruzione della via seguita dal virus dalle scimmie alla pandemia  --> "Quando e come HIV arrivò in USA".

***
Molto interessante lo studio apparso su Nature di novembre in cui si ricostruisce la filogenesi del ceppo dominante negli USA, confutando allo stesso tempo l'identità di quello che fino a poco tempo era considerato il paziente ZERO del nordamerica, un assistente di volo canadese. Il ceppo era infatti già presente nei primi anni '70 ed è di origine caraibica.
image credit: M. Worobey et al. (Nature, 2016, ;539(7627):98-101)

Per articoli precedenti sul tema --> HIV

Fonte
- Origin of the HIV-1 group O epidemic in western lowland gorillas
Mirela D’arc et al,  PNAS March 2, 2015 

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Di seguito una bibliografia essenziale per ripercorre il tragitto evolutivo del virus dalla scimmia alla pandemia globale:
- Origins of HIV and the AIDS Pandemic
  Sharp PM e Hahn BH, Cold Spring Harb Perspect Med. 2011
- "Dating the common ancestor of SIVcpz and HIV-1 group M and the origin of HIV-1 subtypes by using a new method to uncover clock-like molecular evolution".  
   The FASEB Journal 15 (2): 276–78. doi:10.1096/fj.00-0449fje. PMID 11156935.

- Il primo caso umano di cui si hanno tracce di HIV in biopsie (materiale bioptico però di pessima qualità)
 "An African HIV-1 Sequence from 1959 and Implications for the Origin of the Epidemic". Nature
- La ricostruzione della diffusione del ceppo in USA
"1970s and 'Patient 0' HIV-1 genomes illuminate early HIV/AIDS history in North America"
Worobey M. et al. Nature. 2016 Nov 3;539(7627):98-101

Perchè i giapponesi pensano che puzziamo ...

... e perché la fisiologia dà loro ragione

Chiunque abbia vissuto per qualche tempo in Giappone (o in estremo oriente) o abbia anche solo avuto contatti quotidiani con persone di quei paesi avrà di certo notato, con un misto di stupore e ammirazione, il loro essere … "inodore". Chiaramente mi riferisco alla mancanza di effluvi aromatici di origine corporea legati non tanto alla sudorazione "standard" (generalmente inodore) quanto a quella associata allo stato emotivo
Image credit: BBC
 I nostri amici asiatici possono essere reduci da una partita di tennis in una calda giornata estiva o nel bel mezzo di una riunione agitata e ad alto coinvolgimento emotivo (quindi stressogeno) ma mai percepirete in loro odori sgradevoli.

Questa loro invidiabile caratteristica trova un immediato riscontro visivo quando si visita un supermercato giapponese. Se da noi il reparto deodoranti copre un'area non secondaria del reparto "cura della persona", da loro ci si limita a pochissimi prodotti esposti e per di più di scarsa varietà. Spazio medio? Un ripiano.
Altro riscontro, meno piacevole, il loro istintivo ribrezzo verso i gaijin (in generale gli stranieri ma più in particolare i non-asiatici) additati come esseri puzzolenti. Il che, benché non politically correct (che palle questa parola ipocrita che oramai pervade la nostra società), è "comprensibile" se si pensa al fatto che un giapponese medio emana molti meno "aromi" rispetto anche al più virtuoso tra noi che fa dell'igiene personale un mantra quotidiano ineludibile.
Essendo giapponesi, il loro ribrezzo "a priori" non viene quasi mai esternato, se non quando sono alticci. Ma se entrerete in confidenza con uno di loro, allora, pur profondendosi in mille scuse, ammetterà che "si, i gaijin puzzano".
Purtroppo per noi non si tratta di una diversa attenzione all'igiene personale. Se fosse questo il caso sarebbe facilmente risolvibile educando il "puzzone" di turno, pena l'esclusione dal consesso sociale. Si tratta invece, ahinoi, di una caratteristica fisiologica per la quale, pur con la variabilità interpersonale, un non-asiatico è a rischio-odore già a metà mattina (come chi frequenta i mezzi pubblici sa bene).
Nota. Il rischio varia, a parità di igiene personale, tra una persona e l'altra. Alcuni sono più soggetti di altri alla sudorazione "emotiva" (come vedremo quella a maggior rischio odore) mentre altri pur caratterizzati da intensa sudorazione (facile identificarli in palestra) sono solo debolmente "odoriferi". Il tutto al netto delle non poche persone tra i non asiatici che soffrono di bromidrosi che ho volutamente escluso dalla comparazione in quanto condizione particolare. Vale la pena ricordare che iperidrosi e bromidrosi sono fenomeni distinti che solo raramente (per fortuna della persona colpita) coesistono.
Possiamo quindi cestinare le obiezioni mosse storicamente fin dai primi contatti tra giapponesi e occidentali tipo "non vi lavate come noi", "la colpa è della vostra dieta ricca di latticini e carne", ... ; meglio cercare una risposta scientifica.

Il punto chiave è che l'essere umano è dotato di due tipi di ghiandole sudoripare: eccrine e apocrine. Le ghiandole sudoripare eccrine sono piccole e si trovano quasi ovunque nel corpo. Secernono sulla superficie un liquido che è una mistura di acqua e sale, che ha lo scopo principale di raffreddare il corpo.

Le ghiandole sudoripare apocrine invece hanno solo in parte una funzione termoregolatoria; sono la nostra carta di identità ormonale e identitaria e sono le principali responsabili (o meglio producono le molecole responsabili) dell'odore corporeo.
©health.howstuffworks)
Sono in genere più grandi delle ghiandole eccrine e sono distribuite in modo molto più specifico, principalmente ascelle e zona pubica. Invece di secernere direttamente sulla pelle, la secrezione avviene nel follicolo pilifero, lungo il quale il sudore migrerà poi all'esterno. Il liquido secreto contiene proteine, lipidi e steroidi. Di per sé queste molecole non generano odore (o almeno non a livello conscio come i feromoni insegnano).
L'odorosità è a valle e deriva dall'essere molecole di cui "sono golosi" i microorganismi che vivono sulla nostra pelle. I batteri si nutrono di questo sudore, lo metabolizzano, e i prodotti di scarto generati sono i responsabili dell'odore.
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La carta di identità odorifera che ci contraddistingue deriva dal fatto che batteri diversi usano enzimi diversi per scomporre le molecole presenti nel sudore, a sua volta molecolarmente eterogeneo. Quindi sia la flora batterica con cui conviviamo che i nostri livelli ormonali (e non solo) disegnano il nostro fingerprint odorifero, talmente specifico da rendere possibile ad un cane seguire le tracce di una persona e identificarla tra tante.

Riassumendo, la flora batterica (che varia nelle diverse parti del corpo) metabolizza l'humus risultante dalle sostanze secrete dalle ghiandole sudoripare o di derivazione cheratinocitaria; ad esempio l'odore del cuoio capelluto deriva da sudore e sebo, quello ascellare principalmente da sudore mentre nei piedi il punto di partenza è sudore più cheratina. Ad aumentare la variabilità interpersonale (o della stessa persona in momenti diversi) contribuiscono fattori come patologie (e i farmaci usati), i cambiamenti ormonali e l'alimentazione.
Ma allora hanno ragione i giapponesi a considerare l'odore dei gaijin come un segno di barbarie essendo la conseguenza di una scarsa igiene? In fondo se uno si lavasse accuratamente, la pelle diventerebbe un luogo inospitale per i batteri prevenendo così la formazione dei prodotti di scarto.
Stessa cosa per l'alimentazione. Mangiare cipolle non aiuta di sicuro, come so bene io avendo frequentato colleghe dell'est Europa, bellissime alcune ma ... "inavvicinabili".
Di sicuro l'igiene gioca un ruolo fondamentale così come evitare alcuni cibi aiuta, ma ... sfortunatamente per noi il problema è a monte e quindi  a parità di igiene e di alimentazione il risultato netto è che il giapponese medio è meno "a rischio" di un non asiatico virtuoso. "A monte" vuol dire che la componente genetica è fondamentale e si traduce negli asiatici in una minore densità e numero di ghiandole sudoripare apocrine.

La genetica
Il fenomeno è riconducibile al gene ABCC11. Di questo gene esistono due varianti che differiscono per una mutazione puntiforme (538A/G che si traduce in una sostituzione Arg180Gly). Le persone con l'allele G hanno più ghiandole sudoripare apocrine attive, mentre quelle con l'allele A ne hanno meno e, in conseguenza, un odore scarso o nullo.
Da un punto di vista evolutivo l'allele G è la versione originale del gene presente nel genere Homo quando iniziò la sua marcia al di fuori dell'Africa. Data l'ampia distribuzione dell'allele A nelle popolazioni asiatiche è verosimile che la sua comparsa sia avvenuta nelle prime fasi della radiazione verso oriente dell'Homo sapiens.
La diversa frequenza allelica nelle diverse popolazion. Il grafico è stato ottenuto caricando i dati di popolazione sul database "ALFRED"  (ALlele FREquency Database)

Per quale motivo l'allele A sia diventato dominante in Asia non è chiaro. Eliminando l'ipotesi deriva genetica, una delle ipotesi considerate più probabili lega questo allele ad un leggero vantaggio (0,1%) nel freddo ambiente siberiano, selezionato nel corso di una migrazione multisecolare (circa 2000 generazioni).
(credit: gbhealthwatch.com)
I due grafici sopra riportati mostrano chiaramente come la maggior parte dei non-asiatici (siano essi africani o abitanti di un'isola del Pacifico) ha la versione puzzolente del gene. Tra i popoli "fortunati" l'allele indesiderato è presente solo nel 25% dei giapponesi, in meno del 15% dei cinesi e praticamente in nessun coreano.

Curiosamente c'è un modo indiretto (a parte annusare) per capire quale quale sia il nostro allele (e se siamo predisposti al cattivo odore o se questo sia invece è colpa di una cattiva igiene): l'analisi visiva del cerume in quanto questo è prodotto da una ghiandola apocrina sita nel canale uditivo. I possessori dell'allele A hanno un cerume "secco" mentre quello dei gaijin è "umido".

Articolo successivo sul tema --> "Identificato l'enzima batterico che ci fa puzzare"

Letture utili
- Dependence of Deodorant Usage on ABCC11 Genotype: Scope for Personalized Genetics in Personal Hygiene
Santiago Rodriguez et al Journal of Investigative Dermatology (2013) 133, 1760–1767
- A SNP in the ABCC11 gene is the determinant of human earwax type
Yoshiura K et al. Nature Genetics (2006) 38 (3): 324-30
- ATP-Binding Cassette, Sub-Family C, MEMBER 11; ABCC11 
omim.org/entry/607040
- The impact of natural selection on an ABCC11 SNP determining earwax type
Ohashi, J. et al. Molecular Biology and Evolution (2011) 28:849-857
- The Smell of evolution
National Geographic (2013)

Statine, colesterolo e rischio di Parkinson. Un quadro ancora confuso

Le statine sono tra i farmaci più efficaci per la prevenzione delle patologie cardiovascolari grazie alla loro capacità di inibire la sintesi del colesterolo endogeno agendo sull'enzima idrossi-metilglutaril-CoA reduttasi.
Il livello del colesterolo ematico è la summa del colesterolo endogeno e di quello assunto con il cibo. Con la mezza età non è raro osservare un aumento del livello del colesterolo anche in presenza dieta morigerata, ad indicare una  una anomale gestione del colesterolo endogeno. In questi casi il trattamento con statine diventa un utile strumento di prevenzione. Il che ovviamente non autorizza a cambiare la dieta in peggio.
Ma se le proprietà delle statine sono indubbie altrettanto noti sono gli effetti collaterali che a tale trattamento possono associarsi e che il medico curante deve valutare in modo da massimizzare l'efficacia minimizzando, dove presenti, gli effetti non voluti. Questo è il motivo per cui l'inizio del trattamento con le statine, che ricordo deve essere portato avanti per gli anni a seguire, viene solo in seguito alla decisione del medico (per ulteriori informazioni --> farmacovigilanza.org).

La cautela è quindi d'obbligo (come deve essere per ogni molecola ad azione farmacologica) e lo è ancora di più quando alcuni studi hanno fanno balenare l'ipotesi di un potenziale effetto protettivo delle statine contro il rischio del morbo di Parkinson.
RIPETO. Si trattava SOLO una ipotesi basata su dati preliminari. Giusto per capirci è stato lo stesso Xuemei Huang, autore dello studio che aveva indicato tale possibilità (sostanziata poi da da altre ricerche indipendenti) a frenare ogni entusiasmo dopo aver revisionato i dati.
Nota. L'analisi dei dati ottenuti durante una sperimentazione clinica è un processo molto complesso che spesso necessita di anni, cioè dopo che si sono accumulati dati a sufficienza o dopo la valutazione di parametri prima considerati secondari. Non si tratta quindi di faciloneria nell'analisi ma di un processo. L'onestà intellettuale di uno scienziato (a differenza di tanti praticoni) si esplicita nel suo rivalutare i dati, accettare le critiche circostanziate e aggiornare o confutare la sua stessa ipotesi.
Nel dettaglio, quello che si è scoperto dopo avere raccolto molti altri dati metabolici sui pazienti testati è che in realtà l'elemento protettore non sono le statine ma … il colesterolo !!
In altre parole usare le statine NON riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson.
La malattia di Parkinson (PD) colpisce circa 5 milioni di persone in tutto il mondo e il numero è destinato a salire vertiginosamente con l'aumentare della percentuale di persone anziane anche nei paesi in via di sviluppo, posti in cui per ovvie ragioni tale malattia era fino a poco tempo fa sconosciuta. Sebbene la causa prima del PD sia sconosciuta quello che è certo è le aree cerebrali colpite sono quelle ricche di neuroni che producono dopamina. Con il progredire della lesione, la capacità di compensazione cerebrale dei danni viene meno e cominciano così a manifestarsi i tipici sintomi del Parkinson. Per avere una idea della capacità del cervello di compensare deficit locali pensate che devono morire il 90 per cento (!!!!) dei neuroni dopaminergici della substantia nigra prima che compaiano i sintomi del Parkinson. D'altro canto questo indica che quando i sintomi compaiono il danno è già molto esteso e quindi (al momento) difficilmente trattabile.
Nel nuovo studio Xuemei Huang e i colleghi del National Institute of Environmental Health Sciences, hanno messo assieme due dati contrastanti presenti nella letteratura scientifica:
  1. alti livelli di colesterolo nel sangue si correlano ad una minore incidenza di PD;
  2. soggetti sotto trattamento con statine si ammalano meno di PD.
Due dati chiaramente conflittuali.
La soluzione del dilemma venne dopo che ci si accorse che dei soggetti analizzati nel punto 2, non si era tenuto conto del livello del colesterolo PRIMA dell'inizio che iniziassero il trattamento con le statine.
Allo scopo di avere dati sufficientemente solidi su tale punto, gli autori hanno preso in esame i dati clinici già disponibili raccolti nell'ambito di uno studio pluridecennale ("Atherosclerosis Risk in Communities study") iniziato prima che le statine diventassero i farmaci classici. Correlando questi numeri con la incidenza di PD nella popolazione, Huang ha potuto così ricavare dei numeri statisticamente solidi che mostravano che alti livelli di colesterolo "cattivo" (LDL) e di quello totale abbassavano il rischio PD.
Questo spiega il motivo per cui le statine sembravano proteggere dal Parkinson.
Chi prende le statine?
Ovviamente, chi ha alti livelli di colesterolo. Da qui la confusione tra effetto delle statine ed effetto del colesterolo che le statine devono normalizzare.
Non stupisce allora che guardando questi studi sotto questa nuova prospettiva le statine potrebbe avere un effetto opposto aumentando il rischio di PD.
ATTENZIONE. Questo NON VUOL ASSOLUTAMENTE DIRE che le statine siano deleterie. Ogni farmaco deve essere valutato per un rapporto benefici/effetti collaterali. Le statine hanno una azione indubbiamente positiva nel ridurre il rischio di problematiche vascolari e ictus; tale vantaggio in termini di minore morbilità e di aumento della sopravvivenza è nettamente superiore al rischio aggiuntivo di sviluppare il PD.
Il punto chiave è un altro e riprende quanto già scritto in precedenza: i farmaci vanno usati con cognizione di causa, quindi quando il rapporto rischio/beneficio è basso.
Il numero di persone salvate con le statine è indubbio. Compito del medico è individuare chi siano le persone che possano beneficiare maggiormente del trattamento con statine ed evitare di fare trattamenti quando non necessario (vale a dire quando i vantaggi sono infinitesimi rispetto ai fattori di rischio aggiuntivi).
Per intenderci, non ha alcun senso per un trentenne (a meno che non soffra di ipercolesterolemia famigliare) iniziare a scopo preventivo la terapia a base di statine. Stesso dicasi per un cinquantenne con valori di colesterolo nella norma (vedi tabella su livelli ottimali, pesati per fattori come fumo, pressione ed età).
Per un calcolo del fattore di rischio fare riferimento allo strumento fornito dall'Istituto Superiore di Sanità (-->qui)
L'utilizzo improprio delle statine non è un problema secondario, dato il connubio deleterio tra interessi commerciali da una parte e un salutismo diffuso (ma troppo spesso privo di conoscenze adeguate) che si traduce in trattamenti altrimenti procrastinabili al futuro. Solo negli USA sono 43 milioni le persone che usano le statine e il numero supererà i 56 milioni nei prossimi anni. Le nuove linee guida (criticate da alcuni) raccomandano l'uso di statine anche ad alcuni pazienti senza colesterolo alto, quando siano presenti altri fattori di rischio per le malattie cardiache e ictus.

Chiudiamo con una domanda.
In che modo il colesterolo conferirebbe protezione contro il PD? E' possibile ad ora solo formulare ipotesi. Il livello di colesterolo ematico non si riflette nei colesterolo cerebrale e quindi ridurre i livelli ematici potrebbe avere conseguenze non prevedibili nel cervello. Del resto il coenzima-Q10, prodotto nello stessa via metabolica del colesterolo, ha un ruolo chiave per aumentare la produzione energetica delle cellule, fondamentale per cellule energivore come i neuroni. Una ipotesi è che riducendo la quantità di colesterolo prodotto anche il Q10 possa calare e questo si ripercuota sulla capacità dei neuroni di resistere agli stress metabolici. E' solo una ipotesi ma vale la pena ricordare il vecchio detto che "ciò che è buono per il cuore [necessariamente] buono per il cervello".


Fonte
- Statins, plasma cholesterol, and risk of Parkinson's disease: A prospective study
X. Huang et al, Mov Disord. 2015 Jan 14

La base Concordia in Antartide. 6 mesi di isolamento e 4 di buio

Il nome Concordia evoca oggi nella mente degli italiani (e non solo) i fatti legati alla tragedia dell'isola del Giglio; pochi forse sanno che questo è anche il nome di una base di ricerca italo-francese sita in Antartide.
La base Concordia (credit: ESA)
Mentre nel nostro emisfero (e alla nostra latitudine) siamo da poco entrati ufficialmente nella primavera, per i residenti alla base Concordia questo è il periodo che precede il completo isolamento lungo 6 mesi, di cui 4 immersi nella perenne notte antartica.
L'Antartide e le basi internazionali. Concordia si trova a est del Ross Ice Shelf (clicca qui per una mappa ingrandita). Credit: alexanderkumar.com

 Il pensiero comune legato all'Antartide lo associa ad un panorama di ghiacci a 360 gradi, intervallati da catene montuose come il Sentinel Range.
Ellsworth Mountains nel Sentinel Range in cui il monte Wilson svetta con i suoi 4892 metri (credit: NASA)
Una immagine certamente vera ma che trascura un aspetto chiave che rende questo posto un ideale punto di osservazione della volta celeste.
Quale? L'essere uno dei posti più aridi della Terra con soli 200 mm di precipitazioni annuali, sia a causa del freddo che, nello specifico della base Concordia,  dell'essere sita su un altopiano (il Plateau Antartico orientale). La temperatura minima registrata alla base è stata di -84,7 °C  nell'agosto 2010 (la media nel semestre invernale è di -51 °C) mentre le precipitazioni nevose sono inferiori ai 10 cm annui.
Uno dei panorami meno noti dell'Antartide è quello ... privo di ghiacci: aree in genere delimitate da montagne, che appaiono, ai fortunati che riescono a visitarle, come brulli luoghi rocciosi che sembrano emergere da un altro mondo e dalle profondità del tempo (il che in un certo senso è vero). Il nome Dry Valleys, site non lontano dal McMurdo Sound (--> googlemap), riassume perfettamente l'essenza di questi panorami.
(altre foto qui)
Tornando alla base Concordia, la domanda ovvia è perché si sia deciso di costruire una base in questa area. I motivi sono molti e vanno dallo studio dei ghiacci (e di quello che c'è sotto) allo studio astronomico. E' proprio l'assenza di precipitazioni a rendere l'atmosfera "asciutta", quindi ideale per l'osservazione della volta celeste.
L'isolamento forzato durante l'inverno australe la rende interessante anche per un altro motivo che ha a che fare con i viaggi spaziali: la promiscuità forzata in un ambiente ostile, in cui l'unica fonte di luce è quella artificiale, rappresenta un luogo ideale in cui studiare le dinamiche comportamentali dei 13 residenti.
I potenziali conflitti tra i membri della missione rappresenta uno dei principali problemi di cui il pianificatore dei viaggi interplanetari deve tenere conto. La "semplice" trasferta su Marte (vedi link) richiederà un viaggio, per il solo volo di andata, di 6-8 mesi un tempo in cui non sarà possibile "uscire a farsi un giro" per sbollire le eventuali liti! Per tale ragione l'ESA ha scelto i residenti della base Concordia per condurre due dei cinque esperimenti chiave in vista della missione su Marte. 
Vivere nella base Concordia d'inverno è simile sotto molti punti di vista a vivere nello spazio, dove l'equipaggio è tagliato fuori dal mondo (tranne per le comunicazioni), senza luce solare e in condizioni di bassa pressione di ossigeno (la base si trova a 3200 metri sul livello del mare, in pratica come abitare sul Plateau Rosà di fronte al monte Cervino).
Gli altri tre esperimenti verranno condotti alla Halley Research Station (gestita dagli inglesi) sita sul Mare di Weddell.
La base Halley VI (credit: BBC)
Che il rischio sia concreto è un dato di fatto, come sa bene chi fa lunghe traversate in barca a vela. Sottovalutare o peggio ancora non rilevare lo stato stato di stress di un membro dell'equipaggio è il modo migliore per innescare situazione catastrofiche su cui la base di controllo sulla Terra non ha di fatto alcun potere. E' altresì poco utile sperare che sia sufficiente basarsi sull'autovalutazione di personale appositamente addestrato per ricavare indicazioni univoche dello stato emotivo di una persona; servono parametri indipendenti che fungano da segnali di allarme in grado di attivare adeguate contromisure, per impedire "deflagrazioni" emotive dagli esiti spesso tragici.

Limitandoci ai due esperimenti che verranno condotti alla base Concordia, il primo sarà centrato sull'analisi vocale con il fine di identificare sia piccole variazioni di intonazione o sintattiche (indicatori di un minor controllo) che variazioni nella dinamica (intesa come tempi e preferenze) delle interazioni interpersonali (indicatore di tensioni latenti).
Il secondo esperimento che si svolgerà in parallelo sia nella base italo-francese che in quella inglese verterà sulla adattabilità della vista ai quattro mesi di buio esterno e all'influenza della illuminazione artificiale.

Sotto un video dell'inverno australe realizzato dalla Agenzia Spaziale Europea (ESA)

Winter at the Concordia station in Antarctica (ESA)


***   aggiornamento settembre 2015  ***


articolo su phys.org --> QUI

foto pubblicata di una spettacolare aurora alla base Concordia
Foto trovata su gizmodo.com.au

Il ritorno del Sole alla base
Lorenzo Moggio, Giampietro Casasanta e Beth Healey, i tre membri della base che hanno risposto alle domande sul topic dedicato di Reddit Science"ask me anything!" (credit: ESA/IPEV/PNRA, photo by Julien)
***Settembre 2015***
Il sole è tornato (Credits: ESA/IPEV/PNRA-B. Healey). More at Juliens blog


 Di seguito il video documentario sulla base Concordia tratto dalla XXI missione italiana in Antartide.
Se non vedete il video, cliccate su --->youtube




Articolo successivo sulla base Concordia --> QUI.

  (potrebbe anche interessarvi --> "6 of the loneliest jobs in the world")


Fonte
 ESA

Siti in cui seguire le attività della base
  • Chronicles from Concordia --> link
  • ItaliAntartide XXX spedizione su facebook
  • su Reddit (vivamente consigliato)
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