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Visualizzazione post con etichetta Invecchiamento. Mostra tutti i post
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Alzheimer. Placche amiloidi, sistema immunitario o disfunzioni lisosomali?

Il fallimento delle sperimentazioni cliniche delle terapie anti-Alzheimer centrate sulla rimozione delle placche amiloidi ha messo in discussione l'ipotesi amiloide come (unica) responsabile del morbo di Alzheimer. Discussione che ha spinto ad investigare altri potenziali fattori causali primari (inteso come antecedenti la comparsa delle placche) come attacco immunitario, proteine Tau, virus, colesterolo, infiammazione, etc.
Le terapie anti-amiloide testate erano basate su anticorpi finalizzati ad attivare la risposta immunitaria (e la rimozione) contro le placche amiloidi. Tra queste menziono aducanumab, lecanemab e donanemab che hanno dato (modesti) risultati accompagnati però da effetti collaterali (conseguenza quasi scontata ricordando che la loro funzione è attivare una risposta infiammatoria locale). In un prossimo futuro si prevede l'utilizzo di vaccini a RNA invece dei terapia anticorpali.
Per ulteriori informazioni vi rimando al precedente articolo sul tema o al tag "Alzheimer"
Tra le nuove ipotesi è particolarmente interessante quella proposta da Ralph Nixon della NYU, che vede nella disfunzione dei lisosomi cioè gli organuli cellulari deputati alla distruzione dei prodotti di scarto delle cellule, l'evento causale.
Evidenze prodotte in molti laboratori hanno mostrato che sia nei modelli animali che nelle cellule cerebrali dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer (AD), i lisosomi appaiono ingrossati e disfunzionali ancor prima della comparsa delle placche amiloidi. Lo stesso vale per gli endosomi, anch'essi componenti del meccanismo di eliminazione dei prodotti di scarto delle cellule. L'idea è che una minore efficienza nello smaltimento provochi l'accumulo di prodotti di scarto, tra cui la β-amiloide, all'interno delle cellule cerebrali e a cascata morte cellulare e liberazione nello spazio extracellulare di molecole che fungono da centri di aggregazione per placche sempre maggiori, alterando la funzionalità delle cellule cerebrali adiacenti. 
Questo spiegherebbe per quale motivo la rimozione delle placche amiloidi (ottenuta mediante anticorpi) si sia dimostrata di scarsa utilità: sarebbe come rimuovere un irritante che tuttavia continua ad essere prodotto.
La disfunzione lisosomiale sarebbe causata da una alterazione del pH di questi organelli, insufficientemente acidi perché avvenga la degradazione delle molecole di scarto. A conferma di questa ipotesi esperimenti condotti sui topi con farmaci che riacidificano i lisosomi hanno evidenziato una riduzione delle placche di beta-amiloide e una minore morte cellulare.
Nesso causale confermato anche dalla scoperta che le stesse mutazioni geniche associate al rischio Alzheimer (favorendo la produzione di β-amiloide) alterano anche la funzionalità dei lisosomi.
Nello specifico si ritiene che il frammento di APP (proteina precursore della β-amiloide) che rimane nella membrana endosomale dopo l'azione della β-secretasi, noto come APP-βCTF (o C99), interferisca con le pompe che regolano il pH lisosomiale. Ipotesi rinforzata dall'osservazione che mutazioni nel gene APP, responsabile di alcune forme di Alzheimer familiare (FAD), causano una produzione eccessiva di APP-βCTF. 


APP e le secretasi nella genesi degli aggregati amiloidi
(credit: J. Zhao et al)

Altro gene le cui varianti sono associate al rischio FAD è PSEN1, le cui mutazioni sono state correlate alla comparsa di anomalie funzionali nelle pompe che acidificano i suddetti organelli. 

In sintesi mentre il modello standard (anche noto come ipotesi amiloide) presuppone che le placche di β-amiloide si formino e uccidano i neuroni dall'esterno, il lavoro del gruppo di Nixon ha prodotto una quantità crescente di evidenze che suggerisce il contrario, cioè che "la scintilla della malattia" inizi dentro le cellule (nei lisosomi) per poi diffondersi alle cellule adiacenti attraverso l'accumulo di prodotti di scarto liberati dalle cellule morte. Terapie finalizzate alla sola rimozione delle placche porterebbero nel migliore dei casi ad un rallentamento della progressione della malattia senza però rimuovere le cause della malattia.

Sebbene anche i sostenitori irriducibili dell'ipotesi amiloide concordino con il fatto che l'Alzheimer sporadico sia principalmente un problema di mancata eliminazione dei prodotti tossici, ritengono responsabili di tale carenza le cellule della microglia (deputate alla pulizia e difesa del sistema nervoso centrale). Ipotesi contestata da Nixon secondo cui queste cellule entrano in gioco più tardi nel corso della malattia; la microglia elimina l'amiloide extracellulare, ma questo avviene solo dopo che è stata rilasciata dalla cellula morente.

Ref.
- Makin S. Nature 640, S4-S6 (2025)
- van Dyck, C. H. et al. N. Engl. J. Med. 388, 9–21 (2023). 
- Sims, J. R. et al. JAMA 330, 512–527 (2023).
- Malampati, S. et al. Alzheimers Dement. 20, e095538 (2025).
- Lee, J. H. et al. Nature Neurosci. 25, 688–701 (2022).
- Im, E. et al. Sci. Adv. 9, eadg1925 (2023).


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Geni protettivi contrastano la predisposizione alle forme ereditarie di Alzheimer

I geni (o più correttamente la combinazione allelica) che costituiscono il nostro genoma contribuiscono a definire il rischio di sviluppare alcune patologie, rischio pesato dalla penetranza genetica.
In alcuni casi essere portatori di un (solo) allele “sbagliato” non avrà alcuna rilevanza sul rischio incrementale di una malattia (ad esempio i portatori di una copia del gene mutato per la fibrosi cistica o per la anemia mediterranea non si ammalano) mentre in altri casi il rischio di sviluppare un tumore aumenterà considerevolmente (una copia del gene BRCA1 mutato conferisce una probabilità del 60% di sviluppare un tumore alla mammella nel corso della vita).
Nel caso delle malattie neurodegenerative, come Parkinson o Alzheimer (da qui in poi AD, Alzheimer's Disease), che in genere si manifestano in tarda età, quindi dopo il periodo riproduttivo e come tale la permanenza degli alleli predisponenti nella popolazione non è controselezionata, i fattori causali sono eterogenei; oltre alla componente genetica vi sono fattori esterni come ambiente e stile di vita, il che rende complicata l’identificazione degli alleli facilitanti, spesso molteplici e ciascuno con impatto minimo ma cumulativo. Diverso il discorso per le forme familiari della malattia (AD familiare o FAD) dove la chiara ereditarietà del tratto si associa ad una precocità dei sintomi, fatto che ha permesso non solo di identificare i geni coinvolti e di validare i fattori di rischio associati ai vari alleli ma anche di testare farmaci sperimentali pensati per prevenire la malattia prima che diventi sintomatica (quando i sintomi compaiono il danno è già irreversibile).
Predisposizione ed alta penetranza equivale a certezza della malattia?
Non necessariamente. Si tratta di fattori di rischio che anche in caso di probabilità dell’80% lasciano un certo margine condizionato da fattori terzi (ambiente e stile di vita). C’è però un altro elemento da mettere sulla bilancia, l'esistenza di fattori genetici protettivi.
Già in un precedente articolo su infezione da HIV e rischio AIDS ho discusso di questi fattori che in quel caso erano varianti geniche che rendevano l’infezione del virus (o la sua replicazione) più difficile e lo “smantellamento” del sistema immunitario, alla base della fase clinica nota come AIDS, limitato.
Fenomeni simili di resistenza ad una infezione associati ad aumentato rischio di altre malattie sono noti per malaria/emoglobinopatie, colera/fibrosi cistica, tubercolosi/sindrome di Tay-Sachs, e resistenza a infezioni fungine/fenilchetonuria. Da un punto di vista evolutivo l'aumentato rischio di malattia, in genere legato alla presenza di due copie del gene alterato, è ampiamente compensata dalla resistenza ad un dato patogeno ad alta mortalità.
In tal senso riporto l'identificazione (in due studi separati) di tre individui appartenenti a famiglie con chiara predisposizione all’AD, che pur essendo portatori delle varianti alleliche  di rischio, rimasti asintomatici per oltre un decennio rispetto all'età media in cui si è sviluppata la malattia nei consanguinei, suggestivo di un aplotipo (combinazioni di alleli) protettivo. Di questi tre individui l’ultimo identificato è quello di maggior interesse data la mole di dati genetici ottenuti e il follow-up decennale. 
L'articolo in cui il soggetto è stato descritto è apparso poche settimane fa su Nature Medicine che riassumo brevemente di seguito.


Nell'ambito dello studio Dominantly Inherited Alzheimer Network (DIAN), iniziato nel 2011, sono stati analizzati e seguiti nel tempo i membri di  una famiglia ad alto rischio (FAD), portatrice di una mutazione nel gene PSEN2, codificante per l'enzima gamma secretasi che ha tra i suoi "bersagli" APP (proteina precorritrice della beta-amiloide) i cui prodotti sono i "mattoni" delle placche amiloidi.
La maggior parte delle mutazioni associate al FAD (almeno 200) sono a carico del gene PSEN1. Le mutazioni nel gene PSEN2 sono più rare, da qui l’interesse per questa famiglia.
La proteina mutata favorisce la produzione di prodotti la cui aggregazione porta alle placche amiloidi, ritenute il passaggio chiave nel processo neurodegenerativo (meccanismo noto come “ipotesi amiloide”, ipotesi che negli ultimi anni ha cominciato a mostrare alcune crepe).
La mutazione è di tipo autosomico dominante che tradotto vuol dire che il gene non si trova su un cromosoma sessuale (quindi ereditarietà non legata al sesso) ed è sufficiente essere portatori di una sola copia del gene mutato per avere la quasi totale certezza di manifestare i sintomi causati dalla mutazione (nel caso FAD sviluppare la malattia intorno ai 50 anni).
Date le premesse grande fu la sorpresa quando si scoprì che un membro della famiglia analizzata, 61 anni e portatore della mutazione, mostrava una piena funzionalità cognitiva a differenza di 11 dei suoi 13 fratelli “portatori” in cui la demenza si era invariabilmente palesata intorno ai 50 anni.
Non bastasse la sorpresa della asintomaticità, la scansione cerebrale mediante PET mostrava un cervello simile a quello di persone con l'Alzheimer, pieno di placche amiloidi ma con una differenza sostanziale: l’assenza di aggregati dovuti alla proteina Tau, minimamente presenti solo nel lobo occipitale, una regione del cervello coinvolta nella percezione visiva solitamente non responsabile dei sintomi di AD. 
Test di memoria e altre valutazioni cognitive diedero punteggi normali e costanti nel tempo (oggi l'uomo è un sano settantenne), alcuni dei quali anzi migliorarono grazie alla pratica.
Quale allora la differenza tra questo individuo sano e i consanguinei malati portatori della stessa mutazione? Le variabili possibili sono quelle ambientali (stile di vita, alimentazione, etc) come pure l’avere ereditato, per pura casualità, una combinazione di alleli “protettivi” in grado di minimizzare l’effetto della mutazione
Alcuni alleli protettivi sono noti da tempo (ad esempio APOE ε2), nessuno di questi però presente nel soggetto in esame dove invece sono state identificati 9 alleli assenti nei fratelli malati. Di queste varianti 6 non erano mai state associate al rischio AD, ma correlabili a processi di neuroinfiammazione e al controllo del corretto ripiegamento (folding) delle proteine.

Tra le ipotesi formulate quella che la presenza di varianti antinfiammatorie insieme a fattori esterni e comportamentali spiegherebbero l'assenza di sintomi pur in presenza di fattori scatenanti come le placche amiloidi (declassate da agenti causali ad agenti facilitanti). 
A supporto di tale ipotesi il ridotto stato infiammatorio delle aree coinvolte nel AD, pur in presenza di placche amiloidi, rispetto a quanto osservato nei soggetti sintomatici; dato che suggerisce una minore reattività del sistema immunitario contro le placche amiloidi 
Ricordo per inciso che in molte malattie i danni maggiori sono causati da una reazione eccessiva o anomala del sistema immunitario contro un  “fattore scatenante” più che al fattore stesso. 
Se sommiamo questi dati con la ridotta presenza di accumuli di proteina Tau diventa lecito ipotizzare che le placche amiloidi siano condizione necessaria ma non sufficiente per la malattia e che (forse) l'innesco definitivo viene da altre alterazioni che facilitano (oppure non impediscono) la formazione di aggregati di Tau, un combinato che favorirebbe la attivazione locale di una infiammazione cronica e a cascata neurotossicità.

Identificare i fattori genetici protettivi potrebbe un giorno portare allo sviluppo di trattamenti farmacologici utilizzabili anche nelle forme sporadiche dell'AD come trattamento preventivo.

Tra gli studi clinici in atto vale la pena segnalare quello basato su lecanemab, un anticorpo che attacca l'amiloide (approvato dalla FDA nel 2023) in combinazione con anticorpi diretti contro la proteina tau.


Fonte
Longitudinal analysis of a dominantly inherited Alzheimer disease mutation carrier protected from dementia
Jorge J. Llibre-Guerra et al, (2025) Nature Medicine


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Diagnosi precoce della demenza con un esame del sangue

Diagnosi precoce della demenza: le proteine del sangue rivelano le persone a rischio

Lo studio di fattibilità è stato recentemente pubblicato sulla rivista Nature Aging.
Non si tratta, beninteso, di un risultato definitivo ma a suo favore una analisi condotta su un ampio campione di individui e su un migliaio di proteine ematiche alla ricerca di molecole candidate ad essere fattore prognostici.
L'indagine ha una importanza doppia in quanto cerca di trovare rimedio ad un doppio problema, cioè l'assenza di esami che possano prevedere l'insorgenza della malattia (prima che i sintomi compaiano) e un limite intrinseco allo sviluppo di farmaci efficaci.
Quando compaiono i sintomi i danni cerebrali sono già molto estesi (per capirci, nel caso del Parkinson i sintomi compaiono quando più dell'80% dei neuroni dopaminergici sono morti) il che rende impossibile testare farmaci preventivi essendo il danno irreversibile.
Scopo dello studio era identificare biomarcatori ematici rilevabili in soggetti sani che poi, a distanza di anni, avrebbero sviluppato demenza.
Nello specifico l'analisi è stata fatta su 1463 proteine ematiche da 52645 adulti i cui campioni erano già disponibili nella biobanca del Regno Unito, valutando poi quei soggetti (1417) che nei successivi 14 anni mostrarono i sintomi della malattia.
In particolare, si trovò che l'elevato livello ematico di quattro proteine – GFAP, NEFL, GDF15 e LTBP2 – era più elevato già dieci anni prima della comparsa dei sintomi.
La GFAP, una proteina che fornisce supporto strutturale ad una classe di cellule nervose chiamate astrociti, era già stata proposta come marcatore diagnostico per la malattia di Alzheimer. Discorso simile per la GDF15.
I dati indicano che le persone con alti livelli di GFAP nel sangue hanno più del doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alle persone con livelli normali e hanno quasi tre volte più probabilità di sviluppare l'Alzheimer.

Importante è stato l'utilizzo di modelli di apprendimento automatico per progettare algoritmi predittivi, combinando i livelli dei quattro biomarcatori proteici con fattori demografici quali età, sesso, livello di istruzione e storia familiare. Il modello ha previsto l’incidenza di tre sottotipi di demenza, compreso il morbo di Alzheimer, con una precisione di circa il 90%.

Fonte
Plasma proteomic profiles predict future dementia in healthy adults
Guo, Y. et al. Nature Aging (2024)


Padri anziani e tasso di mutazione nei loro gameti

Il sistema riproduttivo maschile è in un certo senso un hotspot di innovazione da cui (sul lunghissimo periodo) possono emergere anche nuovi geni. Le mutazioni di origine paterna (beninteso quelle che non alterano la funzionalità spermatica e che non diminuiscono la vitalità embrionale) sono infatti più frequenti di quelle materne.
Fatto noto, ma meccanicisticamente poco compreso, è che l’età avanzata del padre aumenta il rischio di trasmettere mutazioni alla progenie.

Un recente studio pubblicato su Nature Ecology & Evolution da ricercatori della Rockefeller University ha indagato il suddetto fenomeno usando come modello animale la Drosophila (moscerino della frutta), modello classico per studi di genetica, con il quale si spera di ricavare informazioni sul rischio di malattie ereditarie negli esseri umani.
Altro vantaggio di usare Drosophila è il loro elevato (e rapido) tasso di riproduzione, che permette di analizzare l’effetto di ciascun mutante anche nella “vecchiaia” e su più generazioni.
Va da sé che il processo studiato è la spermatogenesi, la produzione di spermatozoi dalle cellule germinali. I ricercatori hanno scoperto che in realtà il tasso di mutazioni non cambia nei testicoli dei moscerini giovani e anziani ma le mutazioni fissate alla fine del processo sono maggiori in quelli anziani, come se queste fossero state identificate e rimosse durante lo sviluppo spermatico nei giovani.
La prima, ovvia, ipotesi fu che il sistema di rilevazione e/o di riparazione del DNA perdesse di efficienza con l’età o magari i progenitori germinali negli “anziani” avessero di partenza un maggior carico mutazionale.
Entrambe le ipotesi si rivelarono corrette dato che ci sono più mutazioni per ogni gene nelle mosche più vecchie che nelle mosche più giovani.

Tenere “in ordine” il genoma è già un compito complesso, e lo è ancora di più quando ad essere coinvolte sono le cellule germinali maschili che, per la loro funzione, sono ad altissimo ricambio. A questo si aggiunga che nei testicoli vi è un tasso di espressione genica (nel senso di numero di geni attivi) più alta che in qualunque altro distretto corporeo.
Per quanto apparentemente controintuitivo (in fondo il compito della spermatogenesi è formare gameti mediante il processo meiotico, e produrre il maggior numero di spermatozoi, non “costruire” o svolgere funzioni complesse) c’è una ragione per comprendere tale massiccia attività trascrizionale dei geni: una sorta di meccanismo di sorveglianza genomica che permette di rilevare subito le mutazioni problematiche (prodotto proteico non funzionante ad esempio). Un dato confermato dal fatto che i geni effettivamente espressi (quindi "valutati") durante la spermatogenesi hanno un tasso di mutazione alla fine del processo di maturazione, inferiore rispetto ai geni non trascritti.
Gli spermatozoi nei moscerini anziani (ricordo che la vita media della Drosophila è 70 giorni) hanno un calo di efficienza proprio nei geni attivi e questo fa pensare che la colpa sia in una ridotta efficienza del sistema di riparazione associato alla trascrizione.
Lo studio si è basato sul sequenziamento di RNA da singola cellula prelevate dai testicoli di circa 300 moscerini, metà dei quali giovani (48 ore) e il rimanente vecchi (25 giorni).
Nota. QUI maggior dettagli sulla tecnica di single cell sequencing. La scelta di usare RNA invece di RNA per ottenere informazioni genetiche permette di focalizzarsi sui geni attivi. Utilizzare le informazioni da una singola cellula permette inoltre di evitare il rischio concreto di diluizione dell’informazione sia perché le cellule mutate sono rare che per il fatto che nel processo di estrazione delle delle cellule dai testicoli si prendono vari tipi cellulari, ognuna con un proprio profilo di espressione; mettere tutto in un unico calderone annacquerebbe i dati.
Per capire se le mutazioni rilevate fossero somatiche (ereditate dai genitori) o de novo (comparse nella linea germinale) si è usato come riferimento il genoma (cioè il DNA) di ciascun moscerino.

Il passo successivo sarà espandere l’analisi a più gruppi di età e confermare che le anomalie siano causate dal meccanismo di riparazione associato alla trascrizione (e nel caso verificare le ragioni di questa perdita di efficienza). Rimane anche da capire se una linea germinale (maschile) più a rischio di mutazioni abbia un reale impatto sulla fertilità.
Un dato di estremo interesse negli umani per rispondere al quesito se i figli concepiti da padri anziani siano portatori di più mutazioni e se siano a maggior rischio (anche solo per ragioni di epigenetica, quindi in assenza di mutazioni) di sviluppare malattie (anche genetiche) e alcuni tipi di cancro.

In calce copio un precedente articolo su temi correlati cioè "I padri adolescenti hanno rischio maggiore di trasmettere mutazioni?"

Fonte
Transcriptional and mutational signatures of the Drosophila ageing germline.
Evan Witt et al, (2023) Nature Ecology & Evolution



***

I figli di padri adolescenti sono più a rischio mutazioni di quelli concepiti da (padri) adulti?

L'essenza del pensiero scientifico si manifesta anche nel valutare articoli (ovviamente pubblicati su riviste serie) che vanno contro le idee acquisite; un processo che incentiva a ripensare la tematica affrontata, spingendo a rivedere i dati precedenti.
Finora nessuno (dal genetista al semplice curioso di scienza) avrebbe mai avuto molto da ridire circa il fatto che le cellule germinali di un adolescente sono meno "alterate" rispetto a quelle di un adulto. E non mi riferisco soltanto alla migliore efficienza riproduttiva legata al migliore stato fisiologico di un giovane in piena salute rispetto al cinquantenne medio. Parlo di "alterazioni" in senso letterale, cioè dell'informazione genetica, quindi di mutazioni. 
Le cellule germinali aploidi derivano da una serie di divisioni cellulari a carico di cellule progenitrici diploidi che culminano nel processo meiotico da cui emergeranno le cellule mature (oociti o spermatozoi).
Il processo di maturazione degli spermatozoi
nei testicoli
1
 lamina basalespermatogonia, 3/4 spermatociti di 1° e
2° ordine, 5/6 spermatidi e spermatozoi maturi, 7 Cellule
del Sertoli,
 8 tight junction (barriera sangue-testicoli)
Maschi e femmine (limitiamoci per semplicità ai mammiferi) producono durante la loro vita riproduttiva, un numero di cellule molto diverso. Il numero di cellule germinali prodotte dai maschi ha dell'incredibile: tra 40 e 200 milioni di cellule al giorno per tutta la durata della vita adulta (alias sessualmente matura); le femmine sono più parsimoniose e nel caso della specie umana gli oociti che giungono a maturazione sono (in media) uno ogni mese (per chi volesse approfondire l'argomento --> spermatogenesi e oogenesi).

Limitiamoci qui al maschio, che è il tema centrale dell'articolo a cui faccio riferimento.
Da quanto scritto prima è chiaro che per mantenere costante il numero di spermatogoni e alimentare la linea differenziativa che attraverso gli spermatociti porterà agli spermatozoi (durante la quale non avvengono più divisioni mitotiche) è necessaria una continua divisione cellulare delle cellule "sorgente". Una divisione che deve al tempo stesso mantenere costante il numero di cellule indifferenziate e assicurare il costante rifornimento di cellule germinali mature.

Il lungo viaggio della gametogenesi maschile (credit: unsw.edu.au)
Tanto più sono le divisioni cellulari, tanto maggiore è il lavoro di duplicazione del DNA e di rimando la probabilità che vi sarà un errore di copiatura del DNA, cioè la mutazione.
Le mutazioni sono il risultato congiunto di errori di copiatura del DNA durante la divisione cellulare e di alterazioni chimiche causate sia da agenti ambientali standard (radiazioni, ossigeno, radicali liberi, etc) che dal normale metabolismo cellulare. La riparazione dei danni del DNA è un processo generalmente molto efficiente e ridondante (esistono cioè meccanismi diversi che si occupano di scoprire e correggere i danni in tutte le fasi del ciclo cellulare) ma la forza dei numeri (numero di cellule, numero di divisioni, entità dello stress ambientale, etc) fa si che ci sia sempre qualche alterazione che sfugge al controllo di qualità, fissandosi così nel genoma. Se la mutazione avviene in una cellula germinale il rischio associato alla mutazione può essere trasmessa alle generazioni successive.
Da questo concetto lineare deriva che le cellule germinali di un adolescente maschio dovrebbero essere meno alterate di quelle di un adulto. Ovvio, no? Un dato che trova riscontri nella realtà con il fatto che la prole di maschi anziani ha una maggiore incidenza di alcune patologie.
Eppure …
... una ricerca pubblicata su "Proceedings of the Royal Society B" rivela che gli spermatozoi degli adolescenti hanno un tasso di mutazione 6 volte superiore a quello delle ragazze (e fin qui ok, dato che il carico mitotico è diverso) ma anche superiore a quello dei ventenni e paragonabile a quello dei loro padri
Da questo semplice sillogismo deriva che la progenie di padri adolescenti è più a rischio mutazione di quella di padri adulti e questo potrebbe spiegare alcune frequenze anomale di malattie con base genetica (ma non necessariamente familiare, quindi alterazioni ex novo) come l'autismo, la schizofrenia e la spina bifida (in quest'ultimo caso l'acido folico è un fondamentale strumento preventivo - ma non assoluto - specifico per i deficit nutrizionali e non genetici). 
I ricercatori hanno dimostrato che all'inizio della fase puberale il carico replicativo delle cellule germinali maschili è maggiore di quanto finora stimato: 150 divisioni cellulari (invece delle 30 attese) contro le 22 di quelle nella femmina.
Anche qui la conclusione che emerge è ovvia, cioè il maschio adolescente è di per sé più a rischio  (per il numero di mutazioni potenzialmente trasmessibili allo zigote) di quanto lo sia la madre adolescente. Un rischio maggiore derivante dal maggior carico mitotico delle cellule progenitrici.

E' necessario tuttavia pesare l'impatto che una mutazione ha sulla fitness della cellula germinale alterata, diverso nei maschi e nelle femmine. Le cellule maschili sono sottoposte ad una maggiore pressione selettiva nelle fasi immediatamente precedenti la fecondazione di un oocita. Una vera e propria "corsa ad ostacoli" che di fatto screma gran parte delle mutazioni dannose per la fisiologia cellulare (o semplicemente che rendono la cellula meno performante).
Pur tenendo in considerazione questo aspetto, se si misura il tasso di mutazione nelle cellule maschili (6 volte superiore) e lo si somma al maggior numero di divisioni cellulari allora il fattore rischio torna a pendere verso il maschio.
Dato che non parliamo "solo" di numero complessivo di mutazioni ma di tasso di mutazione, la domanda chiave è per quale motivo  il tasso sia maggiore nei maschi adolescenti è ignoto. Al momento ci sono solo ipotesi, tra cui quella che forse il numero di divisioni cellulari maschili è maggiore di quanto stimato (e questo modifica la stima del tasso reale) oppure che i meccanismi di correzione degli di errori di copiatura sia per qualche motivo meno efficiente durante la pubertà.
Qualunque sia la ragione, il dato che emerge è che le cellule spermatiche degli adolescenti hanno frequenze di mutazione superiori del 30% a quelle dei ventenni, paragonabili a quelle di uomini intorno ai quarant'anni. 

Lo studio, condotto su oltre 24 mila soggetti tra genitori e figli (ovviamente biologici) di diversa origine geografica ed età, ha monitorato la comparsa di mutazioni in regioni del DNA note come microsatelliti, sequenze ripetitive di DNA che non essendo codificanti non sono soggette ad una selezione funzionale della cellula e quindi mostrano il dato grezzo del tasso di mutazione

E' importante sottolineare che l'aumentata frequenza di mutazioni NON si traduce linearmente in una aumentato fattore di rischio, dato che per essere potenzialmente rischiosa la mutazione deve colpire regioni importanti del gene (codificanti o regolatorie).

In conclusione la stima del rischio per la progenie di un padre adolescente è circa il 2% contro l'1,5% di un ventenne.

Come bonus dell'articolo un bel video (200 frame al secondo) che mostra il movimento di uno spermatozoo all'interno di un struttura che mima l'apparato genitale femminile. Solo le cellule spermatiche migliori riescono ad arrivare alla metà. Un esempio della selezione che elimina molte delle cellule mutate.

Credit: "Female reproductive tract assists swimming sperm" - Cornell University



Il campo di studio è tuttavia lungi dall'essere compreso nei dettagli a causa del numero di variabili coinvolte. Lo dimostra uno studio condotto dalla Georgetown University in cui vengono sottolineati i fattori di rischio associati ad un padre "maturo"; ne parlerò più dettaglio nel prossimo articolo.


Fonte
- Elevated germline mutation rate in teenage fathers
 Peter Forster et al, (2015) Proceedings of the Royal Society B

I virus comuni possono innescare il morbo di Alzheimer?

Dopo la parentesi a-scientifica del precedente articolo sull'Alzheimer (i dati manipolati che hanno affondato l'ipotesi amiloide), torniamo alla scienza con un nuovo studio sulle cause che potrebbero contribuire all'insorgenza della malattia.
Image credit: Tufts University
Viviamo in un mondo ricco di virus e siamo, nella quasi totalità, stati già infettati da virus come influenza, EBV (mononucleosi), Herpes (famiglia che annovera tra i suoi membri l'herpes classico e la varicella) e molti altri.

Rimanendo nell'ambito degli herpesvirus alcuni di questi hanno la sgradita caratteristica di rimanere con noi per tutta la vita, nascosti (Herpes simplex) nei gangli nervosi del sistema periferico, occultati dal loro essere dormienti alle pattuglie immunitarie, ma pronti a riemergere in caso di abbassamento delle difese (a seguito di stress, colpi di freddo, invecchiamento, ...) per poi tornare silenti una volta che le pattuglie immunitarie abbiano riportato la situazione alla normalità.

Tra le varie patologie che possono emergere da questi risvegli inopportuni, il fuoco di Sant'Antonio è forse la forma più nota specie negli anziani.
Nota. Il termine è in verità alquanto ampio dato che comprende tre patologie ad eziologia del tutto diversa (herpes zoster, ergotismo e erisipela). Solo la prima è quella di nostro interesse.
Tralasciando le varie caratteristiche cliniche della malattia basti qui dire che lo studio di cui oggi mi occupo ha evidenziato come a seguito dell'attivazione virale che si manifesta come fuoco di Sant'Antonio, si possono innescare eventi infiammatori cerebrali che favoriscono l'accumulo di proteine anomale classicamente associate all'Alzheimer (AD). 
Sulle cause prime dell'AD ci sono solo ipotesi e poche certezze. Tra le ipotesi formulate quella amiloide (oggi "in disgrazia"), la Tau, le ipotesi vascolare e infiammatoria, da variazioni isoprenoidi, ... .  Il vero dilemma delle ipotesi amiloidi e Tau (aggregati extracellulari e intracellulari, rispettivamente) è sempre stato se questi siano causali o causati (epifenomeni) dalla malattia. Una malattia che, ricordo, inizia impercettibilmente e può essere confusa con il normale invecchiamento, da cui si differenzia poi per la velocità di progressione e gravità dei sintomi.
In estrema sintesi le cause sono poco chiare, fatto salvo i casi di familiarità della malattia che hanno portato all'identificazione di un certo numero di alleli (variazioni geniche) ad alto rischio
Lo studio, pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease, frutto della collaborazione tra università inglesi e americane, mostra che il virus varicella-zoster (VZV), agente causale della varicella e del fuoco di Sant'Antonio, può attivare l'herpes simplex (HSV) e mettere in moto le prime alterazioni tipiche dell'AD.

Solitamente l'HSV-1, la variante più comuni dell'HSV responsabile dell'herpes labiale, giace dormiente all'interno delle cellule del ganglio del nervo trigemino. Una volta attivato però, oltre a causare le lesioni esterne ben note, può innescare una serie di reazioni che risultano nell'accumulo di proteine ​​tau e beta amiloide nei neuroni e alla progressiva  perdita di funzionalità degli stessi. Sarebbe quindi un "uno-duo" virale a mettere i neuroni in una situazione di rischio aumentata, mentre il solo HSV non sarebbe un fattore di rischio.

Secondo le stime dell'OMS sono circa 3,7 miliardi le persone sotto i 50 anni ad essere infettate dall'HSV-1 (infezione che, ripeto, dura per tutta la vita anche se asintomatica causa virus dormiente). Discorso simile per per il VZV con stime di persone positive intorno al 95% già prima dei 20 anni. I dati indicano che circa 1 persona su 3 positive al VZV manifesterà nel corso della vita sintomi legati al fuoco di Sant'Antonio.

Per comprendere meglio la relazione di causa-effetto tra i due virus e il morbo di Alzheimer, i ricercatori hanno ricreato ambienti simili a quelli del cervello in piccole spugne di 6 millimetri fatte di proteine ​​della seta e collagene. Il passaggio successivo è stato usare queste spugne come substrato per la crescita e successivo differenziamento fino a neuroni (tra loro interconnessi) di cellule staminali neurali. Una sorta di mini-cervello, da un punto di vista della cablatura.
Su questo "milieu strutturale" si è studiato l'effetto della infezione virale con i virus prima citati, sia singolarmente che in combinazione. Mentre i neuroni infettati da VZV, non hanno mostrato la formazione di placche/agglomerati di tau o beta-amiloide, il risultato cambiava usando neuroni già infettati da HSV-1 (allo stato dormiente) poi esposti a VZV. Qui si è osservata la riattivazione di HSV e un netto incremento delle proteine ​​​​tau e beta-amiloide, con successivo decremento funzionale a livello delle connessione interneuronali.
Si è inoltre osservato che i campioni infettati da VZV rilasciavano molte più citochine, gli effettori della risposta infiammatoria, i veri responsabili del "risveglio" dell'HSV.
È probabile quindi che i vari cicli di attivazione dell'HSV-1 (cioè le recidive erpetiche che tutti noi sperimentiamo in vita) possa causare (nei soggetti infettati con VZV) un accumulo dei danni infiammatori e con esso danni funzionali ai neuroni.

Il vaccino per VZV, utile per varicella e herpes zoster, sembra correlarsi ad un minor rischio di demenza precoce, molto probabilmente diminuendo la probabilità di riattivazione virale durante i periodi di stress.

Per legarci alla situazione pandemica attuale, ricordo anche alcuni pazienti anziani guariti dal COVID19 hanno sviluppato problemi neurologici, guarda caso legati alla riattivazione di VZV e HSV-1.
I prossimi anni ci diranno quanto la recente pandemia ha aumentato il rischio (indiretto) di patologie neurodegenerative.

Articolo successivo sul tema --> Alzheimer una malattia autoimmune?

Fonti
- Potential Involvement of Varicella Zoster Virus in Alzheimer’s Disease via Reactivation of Quiescent Herpes Simplex Virus Type 1
Dana M. Cairns et al, (2022) Journal of Alzheimer's Disease



La "top ten" degli imprevisti dell'evoluzione nel "progetto" Homo sapiens

L'evoluzione non è un percorso lineare ma è fatto di oscillazioni multidirezionali che non possono prescindere dal "materiale" di partenza. Il che implica che se l'organismo è troppo specializzato (o adattato) ad una particolare nicchia ecologica o se i cambiamenti ambientali sono troppo repentini e duraturi, allora è molto probabile che quella particolare specie scomparirà dando origine ad un"ramo a fondo cieco" nell'albero evolutivo.
Si tratta di un concetto molto importante in biologia, utile per capire che noi (intesi come specie vivente in un dato momento) siamo la summa degli aggiustamenti evolutivi avvenuti nel corso di centinaia di milioni di anni fa, da quando i vertebrati si affacciarono sulla terraferma, e perché sussistano in noi quelli che potrebbero essere definiti come errori progettuali, alla base sia di malattie che di funzionalità ridondanti o "non ottimali".
Se ci fosse stato un demiurgo capace di progettare un essere umano, di sicuro avrebbe apportato modifiche sostanziali al nostro prototipo. Dobbiamo invece convivere con un corpo che pur rimarchevole sotto molti di vista (la fisiologia di una singola cellula vale da sola anni di studio "stupefatto" - generalizzando una famosa frase di J.B.S. Haldane), presenta anomalie che, come detto, nascono dall'aver dovuto fare di necessità virtù nelle soluzioni evolutive. Il che non impedisce convergenze funzionali partendo da punti totalmente diversi come evidente nella capacità di volare di uccelli (alias i discendenti dei dinosauri e totalmente non correlati con gli estinti pterosauri), pipistrelli e gli insetti: stesso risultato ma diversa modalità di implementazione strutturale.
Nota. Evoluzione è in realtà un termine fuorviante nel suo senso letterale. Sebbene sia innegabile l'aumento di complessità tra un protozoo e un qualunque mammifero, la comparsa di una nuova specie non può essere semplificata immaginandola un gradino sopra a quella da cui è originata; meglio pensarla come meglio adatta ad una situazione contingente, scomparsa la quale potrebbe divenire svantaggiata rispetto alla "versione originale". Per ragioni simili è errato posizionare la specie umana in cima alla piramide evolutiva, se si ragiona in senso strettamente biologico. L'evento evolutivo è quello che assicura la maggiore fitness genetica, quindi la capacità di dare luogo a progenie più adatta in determinate condizioni. Se l'ambiente rimanesse identico nel tempo la comparsa di nuove specie si ridurrebbe drasticamente. Gli squali sono esseri perfetti e non a caso dominano i mari, pressoché immutati, da molte decine di milioni di anni, sopravvissuti perfino ad almeno due estinzioni di massa (l'ultima quella del Cretaceo). Questo non esclude però che essi potranno scomparire in poche decine di anni se i cambiamenti ambientali (di origine, ahime, umana) continueranno al ritmo attuale.
 Non si inventa nulla di nuovo dall'oggi al domani ma si opera su ciò che c'è. Le osservazioni di Darwin prima e l'analisi embriologica di Haeckel poi, portarono alla formulazione della «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale l’ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, alias lo sviluppo evolutivo della specie.  Secondo Haeckel, le fasi cruciali nello sviluppo di un embrione, che portano alla formazione delle varie strutture anatomiche, avverrebbero secondo una sequenza analoga a quella con la quale le stesse strutture sarebbero comparse nel corso dell’evoluzione. Ad esempio, nell’embrione umano vi è uno stadio in cui si forma una sorta di appendice caudale, lunga fino ad 1/6 dell'embrione, che in seguito si riassorbe, mentre gli abbozzi degli arti continuano a svilupparsi. Un rimodellamento regolato da processi come l'apoptosi (suicidio programmato delle cellule) che "scolpisce" gli abbozzi per riplasmarli in strutture diverse da quelle "iniziali" il tutto codificato da istruzioni genetiche accumulatesi con il passare delle generazioni.
Se si osserva lo sviluppo di una mano nell'embrione umano si osserverà che in una certa fase apparirà palmata, salvo poi venire scolpita in dita separate grazie al "suicidio e riassorbimento" delle cellule che formavano la membrana interdigitale. Non a caso con una certa frequenza (1 su 3000 nati vivi) si manifestano difetti dello sviluppo embrionale intorno alla 8a settimana, che causano la sindattilia in cui una o più dita sono solo parzialmente o per nulla separate. Un problema oggi risolvibile chirurgicamente senza lasciare tracce ma che appunto va cercato in una errata attuazione del programma di sviluppo implementato a partire dai lontani progenitori tra i vertebrati terrestri.
Tale legge è ancora oggi considerata uno dei principi biologici fondamentali, anche se alcuni aspetti delle idee di Haeckel, considerati alla luce delle successive ricerche embriologiche, si sono rivelati non corretti, o quanto meno non generalizzabili.

Esserci evoluti da uno stadio protocellulare a quello di vertebrati bipedi, senza peli e difese strutturali da predatori e intemperie ma in grado di progettare la disponibilità alimentare ha certamente molti vantaggi ma non è esente da qualche svantaggio perché il passato è dentro di noi. In un certo senso sarebbe come costruire un palazzo usando le fondamenta e i muri portanti di un edificio preesistente; si possono fare miglioramenti, rinforzare i punti critici e modernizzare la classe energetica ma saremo sempre dipendenti dai limiti della struttura iniziale.

Volendo elencare alcuni dei difetti evolutivi che ci portiamo dietro avremmo ampia possibilità di scelta; dal singhiozzo alla appendice fino ai denti del giudizio, il percorso evolutivo che ha portato al Homo sapiens si è caricato di alcune imperfezioni evidenti ma forse proprio per questo umane. Mi limiterò alle prime 10 che mi vengono in mente.

1. Siamo delle chimere
Comincio con il prenderla molto alla lontana (in senso letterale su scala temporale) ricordando che in un periodo imprecisato  intorno a 2 miliardi di anni fa, dalla unione (o forse sarebbe meglio dire, un pasto non riuscito) tra un proto-eucariote ed un batterio in grado di usare l'ossigeno nacque l'antenato delle odierne cellule eucariote con l'evoluzione di un rapporto simbiontico tra mitocondrio (l'ex batterio) e la cellula predatrice. Per altre informazioni vedi articolo precedente --> QUI.
Un evento simile ha portato alla comparsa di eucarioti fotosintetici (le cellule vegetali). Ma questa è un'altra storia.
La "digestione" non riuscita di un batterio aerobico e di un cianobatterio è l'origine più probabile degli attuali mitocondri e cloroplasti, rispettivamente (--> Il batterio ispiratore di Star Wars)

Questo rapporto, senza il quale non sarebbero mai potuti comparire gli organismi pluricellulari complessi in quanto energicamente dispendiosi, si è evoluto a tal punto che alcuni geni del mitocondrio (perché ovviamente il batterio aveva un suo genoma indipendente) si sono trasferiti nella cellula ospitante, in un luogo ben più protetto (e controllabile) come il nucleo. Tuttavia il trasferimento è stato parziale e infatti il mitocondrio ha ancora oggi un proprio genoma e propri apparati trascrizionali e traduzionali. Questo fa si che sia sensibile a mutazioni nel DNA, cosa non rara in un ambiente ricco di radicali liberi. L'impatto delle mutazioni mitocondriali è "frenato" sia dal fatto che in un genoma così compatto come quello mitocondriale, le mutazioni sono quasi sempre "distruttive" (quindi si auto-estinguono insieme al mitocondrio alterato) che dall'alto numero di mitocondri presenti in una cellula (variabile e regolabile a seconda delle necessità cellulari) che diluisce l'eventuale anomalia funzionale. Ciò nondimeno quando una mutazione diventa dominante la cellula prima e l'organismo pluricellulare poi subiranno le conseguenze come ben dimostrano alcune patologie umane quali le miopatie mitocondriali (a carico dei muscoli) e la sindrome di Leigh (che colpisce il sistema nervoso centrale). Un demiurgo previdente avrebbe caricato in toto le istruzioni per fare funzionare la nostra centralina energetica nel nucleo, sia perché un luogo più al riparo dallo stress ossidativo che per la presenza di un apparato di riparazione del DNA più efficiente.

2. Singhiozzo
Un "cortocircuito" presente anche in altri mammiferi oltre a noi. Anche qui bisogna risalire l'albero evolutivo fino ad arrivare ai primi pesci capaci di catturare l'ossigeno dall'aria (quando necessario) senza bisogno di filtrarlo dall'acqua incanalata attraverso le branchie. Utilizzavano a tale scopo dei polmoni primitivi in cui l'aria veniva convogliata e poi espulsa. Poiché si trattava di necessità temporanee il pesce doveva avere un mezzo per chiudere la glottide (ingresso ai polmoni) quando tornava sott'acqua; il movimento muscolare di chiusura si accoppiava a quello che spingeva l'acqua attraverso le branchie il che preveniva "dimenticanze". Noi che di questi animali proto-terrestri siamo i discendenti, ci portiamo dietro le vestigia di questo meccanismo che, persa oramai di ogni funzionalità, può ogni tanto corto-circuitare nella comparsa del singhiozzo. Il singhiozzo infatti altro non è che l'attivazione di questi muscoli "antichi" che fanno chiudere rapidamente la glottide mentre aspiriamo (non più l'acqua oramai ma solo aria).
I muscoli che usiamo per respirare sono quelli intercostali, situati tra le costole e il diaframma - un foglietto di muscolo sotto i polmoni. Il singhiozzo non a caso compare dopo avere mangiato o bevuto, troppo o troppo rapidamente, una attività che induce l'estensione delle pareti dello stomaco, situato proprio sotto il diaframma. L'espansione provoca una risposta nel diaframma che induce la contrazione della glottide. Uno dei motivi per cui è così difficile smettere di singhiozzare è che l'intero processo è controllato da una parte del nostro cervello evolutasi ben prima della "coscienza" - o meglio del controllo "voluto" dei movimenti.

Seppur fastidioso il singhiozzo è temporaneo; quando invece assume i caratteri di eccessiva ricorrenza o cronicità, il problema va cercato nella "cablatura nervosa" a livello spinale o cerebrale.

3. Mal di schiena
L'impalcatura ossea del tronco dei vertebrati si è evoluta lungo un asse portante (la colonna vertebrale entro cui sono poi stati raccolti "i cavi" nervosi) da cui si sono dipartite delle appendici (le costole) necessarie per contenere gli organi interni. Mentre la struttura nelle sue molteplici variazioni si è rivelata in grado di assolvere al movimento dei tanti tipi di vertebrati terrestri, la sfida funzionale si è complicata con l'acquisizione da parte degli ominidi dell'andatura eretta (bipede). Il cambiamento ha imposto un rimodellamento dell'asse scheletrico facilmente osservabile dall'analisi comparativa dei reperti ossei di Australopitechus e Homo.
Il cambiamento posturale non è stato un evento di poco conto in quanto si è avuto un ribaltamento della distribuzione del peso, culminato con la l'acquisizione di una forma ad S della colonna vertebrale. Il peso di testa e spalle e dell'azione muscolare per tenere la posizione eretta si scarica in noi sulle vertebre, soggette quindi ad stress e alla comparsa di dolori spesso cronici. Se questo non dovesse bastare, il rimodellamento del bacino aggiuntosi all'aumento della dimensione cranica ha reso il parto un evento nettamente più traumatico di quanto osservabile in qualunque altro mammifero. Per compensare in parte il problema il periodo gestazionale si è accorciato in modo da permettere la nascita di "immaturi" (se comparato all'aspetto e capacità della progenie di altri mammiferi non primati).

4. Intestino "cedente"
Una volta indirizzati verso la posizione eretta, anche l'intestino si è trovato in una situazione "precaria" non più sostenuto dai muscoli addominali e soprattutto dallo stomaco come nei quadrupedi (vedi ad esempio --> qui). Il risultato di questa distribuzione verticale del peso (sulle cavità interne e negli uomini sullo scroto) è la comparsa di ernie inguinali.


5. Mangiare e soffocare
Tutti conoscono la manovra di Heimich o hanno visto in qualche film persone a cui era andato per traverso del cibo, salvate da questa tecnica. Un problema sconosciuto ai nostri amici a quattro zampe proprio perché è un "effetto collaterale" della posizione eretta.
Nella maggior parte degli animali la trachea (dove avviene il passaggio dell'aria) e l'esofago (dove transita il cibo) sono disposte in modo che l'esofago sia posizionato sotto la trachea. Nella gola di un gatto, ad esempio, i due canali corrono approssimativamente orizzontali e paralleli tra loro prima di dirigersi ai polmoni e allo stomaco, rispettivamente. In questa configurazione, la gravità tende a spingere il cibo verso il basso quindi verso l'esofago e i rischi di un errato percorso coinvolgono al più la sola aria inspirata e non il cibo. Negli esseri umani non è così, con i due canali pressoché verticali e esofago e trachea alla stessa altezza. 
La combinazione di questi fattori fa si che la probabilità che il cibo "sbagli strada" è molto alta ma è fortunatamente prevenuta dalla chiusura della epiglottide. Se questa non si chiudesse in tempo il rischio di soffocare sarebbe molto alto. Le scimmie, dotate di posizione "quasi eretta" sono meno a rischio; ad attenuare il rischio la minore evoluzione dell'apparato vocale la cui funzionalità è strettamente correlata alla struttura della laringe, la sede delle corde vocali.

6. Sensibilità al freddo
La pelliccia è qualcosa di simile ad un caldo abbraccio in una fredda giornata d'inverno, una protezione quasi onnipresente tra i mammiferi. Gli umani insieme a poche altre specie (il ratto talpa ad esempio) l'anno persa durante l'evoluzione complice l'essersi evoluti in ambienti tropicali. Sulle cause che hanno portato alla sua perdita (esistono animali tropicali dotati di un rivestimento isolante - non traspirante) il consensus non è definitivo; una delle spiegazioni più plausibili è che con il crescere della dimensione del "branco"negli ominidi il rischio di trasmissione di malattie derivanti da zecche e pidocchi abbia facilitato la discendenza degli individui glabri (i capelli sono meno a rischio di veicolare parassiti pericolosi). Essere glabri in Africa non era di per sé svantaggioso ma lo divenne con la migrazione verso nord dei neandertal prima e dei sapiens poi.

In entrambi i casi la perdita di peli poté essere compensata solo con la parallela capacità di dotarsi di pellicce artificiali, un passaggio che ha permesso non solo di colonizzare i climi temperati ma anche quelli artici. Vero è tuttavia che da un punto di vista evolutivo la perdita dei peli sarebbe stato svantaggioso per la migrazione in climi più freddi, ostacolando di fatto il successo della specie. Questo ribadisce un concetto chiave, cioè che l'evoluzione NON è lungimirante ma è legata al momento in cui avviene, quindi non è di per sé un evento "di progresso".

7. La pelle d'oca
Rimaniamo sul tema "pelliccia" per ricordare che i nostri antenati pelosi erano dotati, come molte altre specie, di speciali muscoli nella pelle chiamati "erettori del pelo" che si contraevano sia per cause "emotive" (come lo stress) che per il freddo, utile in quest'ultimo caso per creare una "bolla d'aria" isolante trattenuta dall'aumentato spessore del rivestimento. Fenomeni simili si osservano nei cani e negli uccelli, ad indicare "l'atavicità" di questa scelta funzionale. Nel nostro caso la scomparsa di gran parte dei peli ha lasciato "solitarie" le fibre muscolari lisce che percorrono la nostra cute, la quale continua a contrarsi con il freddo dando così mostra del fenomeno della "pelle d'oca". Un fenomeno da non confondere con il classico raggrinzimento dei polpastrelli in acqua invece dovuta (con ogni probabilità) ad una "scelta evolutiva" facilitante la presa in acqua, grazie all'aumento della superficie di contatto. Anche qui ad essere coinvolte sono le fibre muscolari lisce ma non quelle associate ai peli.
Piloerezione (pelle d'oca) sul corpo di un essere umano
(Photo by Ildar Sagdejev)


8. Cervello e denti. Una coesistenza difficile
Come già scritto in un precedente articolo (--> Le dimensioni contano), l'equazione cervello grande-grande intelligenza non è corretto sebbene il quesito somigli molto al classico "se sia nato prima l'uovo o la gallina". 
Sta di fatto che un cervello sufficientemente esteso è condizione necessaria perché si possano evolvere aree specializzate e con esse quella che noi definiamo genericamente "intelligenza". Durante l'evoluzione degli ominidi si è assistito ad un progressivo aumento del volume cranico causato, ovviamente, da mutazioni genetiche (vedi ad esempio quella in LAMC3 descritta QUI). L'aumento del volume impone un aumento dimensionale del "contenitore", il che non è un processo senza conseguenze come ben sapeva il T. rex.
Il testone di questo dinosauro (dotato più che di grande cervello di mascelle possenti) ha imposto una redistribuzione del peso lungo tutto il corpo con la atrofizzazione delle braccia (che avrebbero spostato il baricentro troppo in avanti) e coda e gambe sufficientemente possenti da permettergli di "non cascare in avanti".
Nel caso degli ominidi l'aumento dello spazio cranico allocato al cervello ha sottratto materiale osseo alle mascelle rendendole meno possenti rispetto a quelle dei nostri cugini primati. La "perdita" ci avrebbe portato in un vicolo cieco evolutivo (incapaci di masticare carne e corteccia) se non fosse comparsa "l'inventiva" capace di farci scoprire gli utensili e l'uso del fuoco per la cottura del cibo (è noto che questo è il passaggio cruciale nella nostra evoluzione in quanto fornì un surplus calorico inusitato capace di sostenere la spesa energetica del cervello, che ricordo arriva fino al 20% del totale giornaliero).
Le mascelle ridimensionate non si sono accompagnate ad una parallela riduzione dei denti che quindi "non stanno più nella bocca". Questa è la ragione per cui ci troviamo con denti "fastidiosi / in eccesso" come i denti del giudizio che causano spesso problemi e devono essere rimossi.


9. Obesità
Uno degli aspetti a cui la nostra fisiologia non si è ancora adattata è "l'improvvisa" abbondanza di cibo. Se i nostri antenati arboricoli avevano tutto sommato un rapido accesso a frutta, vegetali e talvolta carne, nel momento stesso in cui i primi ominidi cominciarono la loro avventura in spazi aperti il problema costante divenne trovare il cibo. Un problema come sappiamo non limitato solo a noi ma a qualunque animale, specialmente i carnivori che il cibo devono cercarlo e che per tale motivo stanno spesso giorni senza mangiare.
Anche dopo il nostro "affrancamento" dalla mera ricerca di cibo (con l'invenzione di agricoltura e allevamento) la certezza di avere un importo calorico adeguato era tutto fuorché certo, legato a molteplici variabili ambientali e umane. Gli ultimi 30 mila anni hanno selezionato quindi individui in grado di sopportare una assunzione di cibo discontinua e soprattutto monotematica (a seconda del luogo in cui tali popolazioni si erano adattate). Nell'ultimo secolo la situazione si è rovesciata con una paradossale inversione di tendenza per cui il cibo ipercalorico ("cibo spazzatura") è diventato di più facile accesso agli individui più poveri. Risultato, una "epidemia" di obesità che è tracimata dai paesi più agiati (ma dove era più lecito attendersela) fino a popolazioni che fino a pochi anni fa (letteralmente) avevano una dieta di pura sussistenza. Esempi classici sono le percentuali di obesi in crescita esponenziale in Cina e perfino Africa; casi eclatanti sono quelli che riguardano i discendenti degli indios - la parola nativo americano è una idiozia semantica -del Sudamerica e negli abitanti della Polinesia (vi rimando all'articolo precedente --> Ingrassate d'inverno? Colpa della genetica) .
La ragione è semplice: non siamo programmati per una assunzione di cibo costante e tutta questa disponibilità, a qualunque ora, non può fare altro che mandare in corto circuito la nostra fisiologia.
La fame è uno stimolo fondamentale evolutasi come "coercizione" per andare alla ricerca del cibo. Le nostre papille gustative si sono evolute per spingerci a preferire gli alimenti più ricchi di molecole ipercaloriche (a bassa disponibilità in natura) come zuccheri, sali e grassi ed evitare invece quelli amari, generalmente associati a tossine. E' come se avessimo un GPS corporeo che ci spinge verso cibi che data l'attuale abbondanza si traducono in bombe ad orologeria metaboliche.


10 - .... l'elenco potrebbe continuare 
Potremmo andare avanti citando molti altri esempi di vestigia funzionali o di strutture "migliorabili, dai capezzoli maschili all'appendice, dai tumori della pelle nel fototipo chiaro a tutti gli inconvenienti dell'invecchiamento più evidenti negli umani che in altri animali (ma solo perché oggi viviamo più a lungo di quanto la selezione naturale ci abbia "plasmato" --> QUI o il tag "invecchiamento" ) oppure del punto cieco nei nostri occhi, dei muscoli vestigiali ancora presenti per muovere l'orecchio, del coccige da cui un tempo spuntava la coda, dei problemi per i maschietti del sedersi a lungo su sellini di biciclette, ... .
Come scritto sopra, il corpo è costruito su un vecchio modulo, costituito da parti aggiunte o migliorate di volta in volta quasi fossimo delle creature assemblate da un geniale dr. Frankestein in grado di usare i pezzi disponibili per fare l'upgrade al modello successivo.
Nondimeno si tratta di un mirabile esempio di come l'evoluzione sappia fare di necessità virtù e di come ciascuno di noi (ivi compresi gli altri animali, piante, protozoi, funghi e microbi) siamo il prodotto preziosissimo di 3,5 miliardi di anni di messa a punto.

(clicca per ingrandire)


Spermidina. L'integratore alimentare che protegge il cuore

Di fronte a tanti prodotti che millantano virtù a dir poco miracolose (ovviamente senza mai uno studio scientifico a supportare tali affermazioni) fortunatamente ve ne sono altri che si basano su principi attivi, riconosciuti come funzionanti tra gli addetti ai lavori. Il che non vuol sempre dire conoscerne nei dettagli il meccanismo di azione (spesso pleiotropico) ma che i dati raccolti sono sufficienti per validare l rapporto causa-effetto e per definirne la finestra terapeutica.
Vino e cuore
Nota. Parlo di integratori e non di farmaci per i quali è invece obbligatorio il lungo e costosissimo iter clinico (vedi --> QUI) per ottenere l'approvazione. Al contrario, gli integratori e i prodotti erboristici sono soggetti ad una disciplina molto più lassa come ben evidenziano gli scaffali dei supermercati pieni di prodotti che promettono un aiuto generico contro malanni vari e invecchiamento,
Tra le molecole naturali più interessanti per le sue proprietà benefiche c'è il resveratrolo, un polifenolo presente nel vino, originato dalla buccia dell'uva. Se i nostri "cugini" francesi hanno dei tassi insolitamente bassi di patologie cardiache rispetto a quanto sarebbe lecito attendersi in base alla loro dieta, ricca di grassi saturi (il cosiddetto "paradosso francese"), la ragione è nel loro alto consumo pro-capite di vino.
Questo vuol dire che bere molto fa bene? Assolutamente no! E' solo indicativo del fatto che nel vino sono presenti ANCHE molecole con azione protettiva oltre a quella dannosa dell'alcol.
Un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine ci fornisce ora un'altra molecola che, almeno nei topi, ha mostrato interessanti proprietà protettive a livello cardiovascolare, utile anche per contrastare alcuni sintomi cardiaci comuni nell'invecchiamento.
Una tra le più frequenti disfunzioni che compare con l'età è l'ipertrofia cardiaca e a cascata il declino della funzione diastolica.
Nello studio si è scoperto che l'aggiunta della spermidina nella dieta non solo ha un impatto positivo sulla aspettativa di vita dei topi, ma è efficace anche nei test condotti sui topi anziani, contrastando l'ipertrofia e la funzione diastolica prima e generando effetti positivi sulla pressione poi (risultati confermati anche nei ratti).
spermidina

La spermidina appartiene alla classe delle poliammine e può agire a diversi livelli sul metabolismo cellulare. Ad esempio è in grado di inibire l'enzima ossido nitrico sintasi neuronale (nNOS). In linea generale produce effetti su processi chiave che coinvolgono gli ioni calcio, sodio e potassio, quindi ha una azione diretta sul mantenimento del potenziale di membrana. Un altro meccanismo in cui è coinvolta è la autofagia, uno dei processi con cui le cellule riciclano le proprie componenti danneggiate evitando un accumulo che provocherebbe disfunzioni nella funzionalità cellulare.
Tra gli alimenti in cui è presente in maggiori quantità vi è la soia essiccata, il formaggio cheddar, funghi, crusca di riso, fegato di pollo, piselli, ceci, mango e nei sempre presenti cavolfiori e broccoli.
 Fonte
- Cardioprotection and lifespan extension by the  natural polyamine spermidine.
Eisenberg, T.  et al (2016) Nat. Med. 22 , pp. 1428–1438

- Molecular basis of the 'anti-aging' effect of spermidine and other natural polyamines.
Minois N. (2014) Gerontology, 60(4):319-26




Contiene spermidina o N-(3-aminopropil)-TMDA

Modificare l'espressione genica per ringiovanire. Luci e ombre dai risultati di laboratorio

Ringiovanire o anche solo rallentare l'inesorabile scorrere delle lancette è un sogno inseguito dagli umani fin dal momento in si accese la scintilla dell'IO e con essa l'inevitabile consapevolezza della propria caducità.
 Sebbene io appartenga più alla scuola di pensiero riassunta dalla canzone "Who Wants to Live Forever?"  dei Queen (colonna sonora del mitico film "Highlander"),  è indubbio che i continui progressi nella ricerca medica abbiano rinforzato in molti il "miraggio della giovinezza".
Non è semplice definire in poche parole la biologia dell'invecchiamento essendo un fenomeno che si manifesta su più livelli. Se guardiamo ad una cellula dobbiamo confrontarci con un valore, il  Limite di Hayflick, che definisce il massimo numero di divisioni a cui una cellula può andare incontro; un valore che nell'essere umano è compreso tra 50 e 70. La capacità replicativa della cellula è soggetta a molteplici controlli e molti sono gli attori in gioco, uno di questi è la telomerasi. Si tratta di un enzima essenziale per "rattoppare" le estremità dei cromosomi - dette telomeri - che per motivi intrinseci al processo replicativo si accorciano ad ogni duplicazione del DNA. Dopo un certo numero di mitosi, il gene codificante la telomerasi comincia a spegnersi, causando così la progressiva riduzione delle estremità cromosomiche non più riparate; quando la lunghezza dei telomeri scende sotto un certo valore la cellula "sente il danno" e attiva il blocco proliferativo. Il processo nel suo complesso è noto come senescenza cellulare. Molte cellule tumorali sfuggono a questo controllo mantenendo attiva la telomerasi, eliminando così uno dei meccanismi di controllo, oltre quello dell'apoptosi (alias "suicidio cellulare programmato"). La senescenza cellulare serve sostanzialmente ad evitare che le cellule "vecchie" (quindi più danneggiate) generino altre cellule in una spirale ascendente di danni genetici. La correlazione tra età e danno cellulare è ben evidente se si osserva l'aumentata frequenza dei tumori nella popolazione con l'aumento della età media. Nelle cellule germinali e in genere nelle cellule staminali, il limite di divisioni cellulari possibili viene superato sia agendo sullo stato epigenetico che attuando una divisione cellulare "asimmetrica" in cui solo una delle cellule figlie mantiene tutta o in parte la staminalità mentre l'altra è "libera" di iniziare il percorso differenziativo.
Se ci focalizziamo invece sull'organismo, l'invecchiamento è il risultato dei danni accumulatisi nelle cellule (tra l'altro divenute metabolicamente inefficienti) e nella conseguente ridotta capacità dei tessuti di ripararsi; con l'età la cute diventa meno elastica, le giunture meno flessibili, le ossa più fragili e siamo in media meno capaci di difenderci sia dai patogeni che dalle nostre stesse cellule "alterate". Ogni ipotetica terapia finalizzata a contrastare l'invecchiamento non potrà quindi prescindere dalla necessità di minimizzare i danni cellulari (impossibile sul lungo periodo dato che una cellula produce le tossine che la danneggeranno) o di sostituire i "pezzi" danneggiati.
Bisogna infine sottolineare che l'invecchiamento non è un fenomeno universale sebbene sia particolarmente evidente nei mammiferi e anche nei lieviti (--> "Non tutti gli organismi invecchiano"). Vedi anche  --> QUI.
Molte sono state le vie percorse (nella realtà o nella finzione narrativa) per inseguire il miraggio della vita "eterna" e per contrastare il naturale decadimento fisiologico. Dal mero assemblaggio di pezzi di ricambio "rigenerati" (--> "Frankestein" di Mary Shelley) oppure "freschi"  (-->  "Non lasciarmi" di Kazuo Ishiguro), alle vere pratiche efferate attuate dalla contessa Erzsébet Báthory (quasi conterranea e contemporanea di Vlad) che usava il sangue delle vergini come balsamo ringiovanente, arriviamo all'immaginario cyberpunk di "Ghost in the Shell" con il suo armamentario di protesi e "editing" genetico (non così "irrealistico" oggi rispetto ai tempi in cui il fumetto uscì). Nel mezzo ci sono tutti gli elisir miracolosi o i nutrienti salutistici di utilità dubbia (ancorché una dieta sana sia importante ma non determinante se abbiamo un background genetico "ottimo" o "cattivo").

Nella realtà odierna, qualsiasi laboratorio di biologia e genetica molecolare "di medio livello" è dotato di tutti gli strumenti per riprogrammare le cellule in coltura, spingendone indietro la lancetta del loro orologio biologico.
Detto così potrebbe sembrare una sorta di Frankesteinizzazione in vitro ma in verità si tratta di metodi sviluppati nell'ultimo decennio per risolvere il problema etico dell'utilizzo di cellule embrionali umane.
Nota. Il problema etico, e le relative limitazioni legali, è un fatto puramente occidentale. In oriente la flessibilità operativa è molto maggiore come ben evidenziato dagli studi sulla clonazione umana in Corea (parlo solo di quelli dichiarati; non dubito che studi simili siano in atto in Cina). Per approfondimenti --> "Il turismo delle staminali".
L'idea di usare le cellule embrionali (e in particolare quelle nelle primissime fasi dopo la formazione dello zigote) è legata alla loro totipotenza, la capacità di originare un nuovo organismo completo, e quindi a qualunque cellula del corpo. Tutte le altre cellule (non solo nell'adulto ma anche quelle dei feti ad uno stadio di sviluppo appena più avanzato) hanno perso tale potenzialità, limitandosi nel migliore dei casi alla pluripotenza;  ad esempio le cellule staminali emopoietiche possono originare i vari tipi di cellule del sangue ma sicuramente non un epatocita. Le staminali prelevate dal cordone ombelicale sono utilizzabili "per sé" (leggasi senza manipolazioni genetiche) come sostituti emopoietici ma non come strumento per riparare altri tessuti.
Le cellule totipotenti sono quelle presenti nelle primissime fasi dopo la fecondazione. Già quando si arriva alla blastocisti il percorso differenziativo possibile è limitato al "solo" embrione (niente sacco vitellino). Un gradino sotto sono le cellule staminali dell'adulto capaci (se presenti) di ripopolare distretti corporei molto specifici (ad esempio le cellule del sangue o quelle della cute). 

Quando si iniziò ad indagare la possibilità di usare le cellule per riparare i tessuti danneggiati, la scelta più ovvia cadde sulle cellule embrionali mancando all'epoca ogni conoscenza su come "convincere" altri tipi di cellule a fare quel lavoro. Negli ultimi anni questa necessità è stata quasi del tutto aggirata grazie agli studi di Shinya Yamanaka e John Gurdon sulla riprogrammazione delle cellule adulte (lavoro che è valso loro il Nobel nel 2012). Per dirla in modo semplice si è scoperto come trattare le cellule differenziate dell'adulto (non tutte per il momento) in modo da far loro "perdere la memoria di cosa erano", rendendole capaci di trasformarsi in un altro tipo di cellula; uno strumento estremamente potente quando il fine è utilizzare le cellule dello stesso soggetto minimizzando così il rischio di rigetto (ad esempio le cellule della cute del braccio per riparare il tessuto cardiaco). Il trattamento si basa sul forzare l'espressione di alcuni geni o mediante l'inserimento degli stessi dall'esterno oppure con trattamenti chimici in grado di "risvegliarli" dal loro torpore "adulto". Quattro sono i geni chiave - Oct4, Sox2, Klf4 e c-Myc - e codificano per proteine regolatorie in grado di di indurre una serie di effetti a cascata.

Il trattamento è sufficiente per "cancellare" il programma che le cellule avevano seguito durante lo sviluppo embrionale e che le aveva "intrappolate" dentro una finestra di possibilità differenziative ristretta, pronte così per seguire un nuovo percorso.

La gerontologia sperimentale si basa sulle conoscenze acquisite nel campo dell'invecchiamento cellulare sull'uomo e sui modelli animali per sviluppare trattamenti in grado di agire sull'orologio biologico o più prosaicamente per contrastare i danni legati all'età.
Il campo è molto interessante ma altrettanto specialistico; riassumerò di seguito alcuni lavori cercando di condensarli in poche righe.
  • Un primo filone di ricerche parte da un approccio classico (i primi esperimenti risalgono all'inizio del '900) centrato su sulla ricerca di fattori solubili presenti nel sangue in grado di "ringiovanire" i tessuti. Si tratta per dirla in modo più tecnico di esperimenti di parabiosi eterocronica o semplicemente dell'unione chirurgica dei vasi di due animali di età diversa dimostratasi capace di ringiovanire i tessuti dell'animale più anziano. Più recentemente e con modalità nettamente meno invasive si è ottenuto lo stesso effetto dopo iniezioni di plasma prelevato da animali giovani. Elemento comune è evidentemente la presenza nel plasma di un qualche fattore capace di riprogrammare le cellule anziane e/o di riattivare le staminali dormienti. Vedi anche il precedente articolo -->"Il sangue giovane ringiovanisce il cervello vecchio".
  • Il vero punto di svolta lo si ebbe però nel 2006 con gli studi sulla riprogrammazione delle cellule adulte differenziate riportandole ad uno stato pluripotente. L'idea portante era di ricreare qualcosa di simile allo stato germinale, trasferendo il nucleo delle cellule trattate all'interno di uno zigote a cui era stato rimosso il nucleo (nel cui citoplasma rimanevano però le istruzioni "di inizio") ponendo così le basi per la clonazione. Una capacità ottenuta solo in parte e con risultati alterni (in Cina e Giappone è fiorente il mercato legale della clonazione del proprio animale domestico). In un ambito più "scientifico", riprogrammare le cellule dell'adulto è la via "ideale" per il trattamento di patologie degenerative (o successive a lesioni spinali) grazie alla possibilità teorica di generare sostituti dei tessuti lesionati, in primis cellule nervose e muscolari.
  • Più recentemente Alejandro Ocampo e collaboratori hanno descritto in un articolo su Cell che era possibile aumentare la vita media di topi affetti da sindrome di invecchiamento precoce facendo loro esprimere i fattori di riprogrammazione prima citati; la scelta di usare i topi progerici è una "scorciatoia" sperimentale che permette di ottenere più velocemente i dati sulla efficienza di una terapia anti-invecchiamento. Non solo la vita media dei topi aumentava del 20%, ricalcando l'effetto ottenibile con i metodi classici della restrizione calorica nella dieta, ma gli effetti del ringiovanimento erano osservabili sia a livello cellulare che tissutale. La ripetizione dell'esperimento su topi normali ha dato però solo una parziale conferma; i tessuti mostravano sì un netto miglioramento delle capacità funzionali (come la riparazione delle lesioni) nei topi anziani, ma non si sono avute evidenze statisticamente significative di un effetto sulla longevità. Il vero punto importante viene però dall'avere ottenuto gli effetti cercati (almeno nei topi progerici) facendo esprimere i geni candidati solo per tempi limitati evitando così i danni dell'espressione continuata. Esperimenti precedenti avevano infatti dimostrato che forzare l'espressione dei geni in modo continuativo faceva perdere alle cellule lo stato differenziato e nell'animale si aveva un aumento della frequenza di tumori - teratomi nello specifico. Dato che lo scopo primo è ripristinare lo stato pre-senescente, la perdita dello stato differenziato è inutile ancorché dannosa. Esperimenti simili, ovviamente SOLO in coltura, sono stati condotti anche su cellule umane con risultati paragonabili.

L'obiettivo della ricerca futura non è - spero - quello di renderci immortali ma di sviluppare strategie per massimizzare la guarigione delle ferite, ripristinando la capacità presente naturalmente negli organismi giovani di riparare i tessuti e rimuovere efficacemente le scorie del metabolismo, causa prima dell'invecchiamento dei tessuti.


Fonte
In Vivo Amelioration of Age-Associated Hallmarks by Partial Reprogramming
Ocampo, A. et al. Cell 167, 17191733 (2016)

*** 

Nota. Qualche settimana dopo avere scritto l'articolo è stato pubblicato un lavoro sulla rivista Nature centrato sull'effetto "ringiovanente" del sangue "giovane" sul cervello. In estrema sintesi i ricercatori hanno iniettato plasma umano estratto dal cordone ombelicale, da giovani oppure da adulti in topi immunodeficienti (così da non avere problemi di rigetto). L'analisi fatta successivamente delle strutture cerebrali del topo (nello specifico il giro dentato) ha dimostrato un effetto positivo sulle funzionalità cognitive SOLO con il plasma derivato dal cordone ombelicale. I ricercatori sono andati quindi a cercare le differenze tra i diversi plasma giungendo alla conclusione che a fare la differenza in positivo è la proteina TIMP2, capace di indurre l'espressione nei neuroni del fattore di trascrizione FOS con una serie di effetti a cascata.
(Human umbilical cord plasma proteins revitalize hippocampal function in aged mice. Castellano JM et al, Nature - 2017 - 544(7651):488-492)




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