CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Visualizzazione post con etichetta alimentazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta alimentazione. Mostra tutti i post

La pinguedine dei Labrador spiega anche quella umana

I Labrador retriever sono cani notoriamente di buon carattere ma con una innegabile tendenza ad ingrassare anche in ragione di un appetito mai pago.
Il 40-60% dei cani domestici è sovrappeso o chiaramente obeso, con problemi a cascata sia per la salute che per il carattere. Lo studio nei cani di razza è “facilitato” dalla omogeneità genetica frutto dei continui incroci per fissare e mantenere nel tempo i caratteri distintivi di quel breed
Ricercatori inglesi ne hanno analizzato i geni per tracciare le basi della predisposizione all’obesità con la speranza di sviluppare terapie utili anche per gli umani. Un primo studio del 2024 aveva mostrato il coinvolgimento del gene POMC in cui una mutazione rendeva i cani costantemente affamati pur bruciando a riposo il 25% di calorie in meno di altri cani (vedi dettagli a fondo pagina)

Il nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, hanno individuato nel gene DENND1B (di cui esiste omologo umano) il principale responsabile, gene che codifica per una proteina tipo GEF (Guanine nucleotide Exchange Factor) necessaria per la “ricarica” di enzimi noti come GTPasi 
Il GEF facilita il ricambio GDP/GTP sulla GTPasi eliminando la molecola "scarica" e sostituendola con il GTP "carico".
Il prodotto genico, la proteina DENND1B, svolge un ruolo importante all'interno del sistema di mantenimento dell'equilibrio energetico dell'organismo, noto come circuito leptina-melanocortina (vedi dettagli in calce all'articolo). DEEND1B agisce come un regolatore molecolare, influenzando la trasmissione dei segnali tra la leptina e i recettori melanocortinici nel cervello. Quando il gene DENND1B è alterato, la proteina può compromettere la capacità del corpo di rispondere correttamente ai segnali di sazietà inviati dalla leptina. Questo porta a una sensazione di fame persistente e a un aumento dell'assunzione di cibo.
Oltre a DENND1B sono stati identificati altri quattro geni che però non qui non prenderemo in considerazione essendo coinvolti in processi biologici chiave su cui non è consigliabile interferire.
Come nel caso umano anche l'obesità canina non è attribuibile ad un singolo gene ma al concorso di più geni che determinano una predisposizione.
Tra i geni con varianti a rischio nell'uomo abbiamo FTO (Fat Mass and Obesity Associated Gene), il recettore della melanocortina-4 (MC4R) e il gene della leptina (LEP),
Nei Labrador la variante genica di DENND1B pone un importante fattore di rischio che si traduce in obesità in assenza di una dieta controllata e di attività fisica costante, regola che vale anche per noi. Nello specifico tale variante determina, a parità di dieta e attività fisica, un incremento dell'8% di grasso corporeo.

Confrontando questo dato che le banche dati genetiche umane si è avuta la conferma che lo stesso gene è responsabile negli umani dell’aumento della massa corporea, legata ad un funzionamento anomalo del sistema di controllo dell'appetito.
Leptina. Ormone prodotto principalmente dalle cellule adipose. La leptina agisce sul cervello, in particolare sull'ipotalamo, segnalando la quantità di energia immagazzinata sotto forma di grasso. Quando i livelli di leptina aumentano (indicando un'abbondanza di energia), la sensazione di fame viene spenta e aumentano i processi che portano al consumo di energia. Al contrario, bassi livelli di leptina stimolano l'appetito e riducono il dispendio energetico.
Sistema melanocortinico. Sistema che fa parte dell'ipotalamo e comprende una serie di neuropeptidi e recettori che regolano l'appetito. Un esempio è l'ormone stimolante dei melanociti (α-MSH), che si lega ai recettori melanocortinici (MC3R e MC4R) per inibire l'appetito. La leptina agisce favorendo la produzione di α-MSH, amplificando così il segnale di sazietà.
Il gene POMC codifica per la proopiomelanocortina, una proteina precursore che viene poi suddivisa in vari peptidi (tra cui l'ormone α-MSH) che agiscono sul sistema melanocortinico per controllare l'appetito. Nei Labrador, alcune mutazioni nel gene POMC impediscono la produzione completa di alcuni peptidi regolatori dell'appetito, portando alla sensazione di fame costante 

Fonti
Low resting metabolic rate and increased hunger due to β-MSH and β-endorphin deletion in a canine model.
Marie T. Dittmann et al, (2024) Science Advances 

- Canine genome-wide association study identifies DENND1B as an obesity gene in dogs and humans.
NJ Wallis et al. (2025) Science



***
Qualche suggerimento per amanti dei Labrador
Pupazzo di Labrador che "respira" (Amazon)


"Manuale" del Labrador (Amazon)

Il boom in borsa dei farmaci antidiabetici che fanno anche perdere peso

Tra le hit di borsa degli ultimi mesi figurano alcune aziende farmaceutiche accomunate dal lancio di farmaci i cui principi attivi paiono ugualmente efficaci come antidiabetici e per perdere peso, due degli elementi chiave per contrastare la sempre più diffusa sindrome metabolica.

Elemento chiave dell'entusiasmo tra gli analisti l'incontrovertibile effetto positivo di questi farmaci contro l’obesità (Zepbound) e il diabete (Mounjaro) ma anche la lunghezza dell'ultimo studio clinico a supporto dei risultati, durato 176 settimane, che dimostra continuità dell’effetto e assenza di rilevanti effetti collaterali. Nello specifico rispetto al gruppo di controllo trattato in doppio cieco con un placebo, i soggetti (in sovrappeso o obesi) trattati con il farmaco hanno mostrato una riduzione media del 94% del rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (T2DM), la patologia più comune tra questa categoria di persone, e una riduzione media del 22,9% del peso corporeo.
Alla fine dello studio durato poco meno di 3 anni e mezzo è stato inserito un periodo di 17 settimane senza farmaco così da avere un quadro completo della funzione farmacologica e della durata dell'effetto nei mesi successivi. Vero che al termine del trattamento i pazienti hanno iniziato a riprendere peso mostrando una alterazione dei parametri in senso diabetico ma il fattore di rischio di sviluppare il diabete propriamente detto è risultato inferiore dell’88% rispetto a prima di iniziare il trattamento. Un trattamento che come per tante terapie della sindrome metabolica deve essere continuativo, sebbene (i dati lo confermano) possa essere interrotto senza grossi problemi.
Di nuovi farmaci contro l’obesità ce ne sono stati vari nell'ultimo decennio (molti dei quali ritirati dal mercato) ma ben pochi sono stati accompagnati da studi clinici con risultati così chiari come Zepbound e Mounjaro, prodotti da Eli Lilly, che in comune hanno come principio attivo la molecola tirzepatide, brevettata nel 2016 con finalità di controllo glicemico nei soggetti affetti da T2DM e approvata nel 2021 dalla FDA.
L’effetto dirompente lo si è avuto dopo la conferma che le osservazioni aneddotiche sulla capacità della stessa di indurre perdita di peso erano fondate.
Tali osservazioni avevano convinto molti medici a prescriverla off-label a individui obesi. Ricordo che in assenza di studi clinici dedicati un farmaco (approvato per altro scopo) NON può essere prescritto come terapia per altra patologia. La FDA ha autorizzato l’uso come farmaco per la perdita del peso solo nel 2023, nella formulazione nota come Zepbound.
Ciliegina sulla torta il nuovo studio (ora sotto revisione) dimostra l'efficacia della tirzepatide anche nei soggetti prediabetici con finalità di prevenzione.

La tirzepatide appartiene a una classe di farmaci antidiabetici che funzionano come agonisti del recettore dell'ormone peptidico Glp-1 (glucagon-like peptide 1), molecole con azione simile a quella dell'ormone peptidico Glp-1 prodotto dal corpo per regolare l’appetito
Nei soggetti sani il livello dell’ormone si abbassa durante il digiuno, il che è innesca lo stimolo della fame. Negli individui obesi il livello si mantiene basso e questo spiega la loro ricerca di cibo anche subito dopo avere mangiato. Ulteriori dettagli a fine articolo **.
Nota aggiuntiva. Uno studio recente ha dimostrato come l'atto di ingoiare induca il rilascio di serotonina (ormone associato alla sensazione di piacere) che spiega come, in individui predisposti, il mangiare invece di indurre sazietà porti ad un rinforzo del piacere di mangiare.
In aggiunga al suo ruolo di agonista, la tirzepatide funziona anche come recettore del peptide inibitorio gastrico (Gip), ormone che ha dimostrato di poter migliorare l'efficienza con cui l'organismo scompone gli zuccheri e i grassi attraverso l'aumento della produzione di insulina e del tempo di ritenzione del cibo nello stomaco. I recettori del Gip si trovano, non sorprendentemente, selle cellule beta nel pancreas.

Tutto fa pensare che i farmaci basati sulla tirzepatide diventeranno la gallina dalle uova d’oro per Eli Lilly senza che questo pesi sui conti (statali o personali) dato il costo molto contenuto del trattamento (pesato per la diminuzione dei costi sanitari in assenza di trattamento)

***

Altra azienda molto attiva nello stesso segmento terapeutico è la danese Novo Nordisk, i cui farmaci di punta sono Ozempic (per il diabete ma da usare con cautela come ben insegna quel "genio" di Lottie Moss) e Wegovy (per la perdita di peso). Diverso il principio attivo che qui è la semaglutide, anch’essa una molecola agonista del recettore Glp-1. 


Nota
** GLP-1 (glucagon-like peptide 1) è un ormone che stimola la produzione dell’insulina e inibisce la secrezione del glucagone. Viene rilasciato dall’intestino dopo il pasto quando la glicemia inizia a salire per effetto dei carboidrati assunti. Il che spiega la popolarità degli analoghi del Glp-1, per la loro impossibilità a causare ipoglicemia, rischio invece concreto con le iniezioni di insulina.
Il GLP-1 rallenta inoltre lo svuotamento gastrico il che a cascata aumenta la sensazione di sazietà e riduce l’appetito, agendo direttamente sui centri di regolazione della fame del sistema nervoso centrale. Alcune osservazioni indicano anche una potenziale azione protettiva delle cellule beta del pancreas e del cuore.
Una volta in circolo il GLP-1 viene distrutto dall’enzima DPP-4 (dipeptil-peptidasi 4) e questo spiega perché non sia mai stato utilizzato a scopo terapeutico (sarebbe necessaria una infusione continua…). Da qui la ricerca di molecole equivalenti (dette analoghi) capaci di agire da agonisti sul recettore dell’ormone e più resistenti alla degradazione, meglio ancora se associati a molecole/matrici inserite in dispositivi (es. cerotti o infusori) che rallentano l’assorbimento cutaneo così da allungare la finestra temporale di utilizzo. A seconda dell'analogo la somministrazione prevede iniezioni da 1 volta al giorno a una volta a settimana (dulaglutide)
Curiosità. La prima molecola con tali proprietà, exenatide, venne sviluppata a partire da una molecola estratta dal veleno della lucertola Gila Monster

Il rospo del deserto di Sonora non è l'unico animale che può provocare allucinazioni

Del rospo "psichedelico", e dei problemi che sta vivendo dopo l'articolo del NYTimes, ne ho scritto in precedenza e lì vi rimando per una trattazione completa.
Oggi amplio un poco il tema trattando di altri animali che, se maneggiati incautamente, danno gli stessi effetti collaterali.

Rana scimmia gigante (Phyllomedusa bicolor)
Habitat: bacino amazzonico; Sud America.
credit: TimVickers
Superfluo ricordare che, essendo un anfibio, il suo nome nulla ha a che fare con i noti animali marini (Cnidaria). Il nome deriva dal greco “phyllo” (foglia o fogliame) e “medousa” (regina o protettrice), quindi significa “regina/guardiana del fogliame”.
La cute produce una secrezione che nella forma essiccata, nota come kambô, e applicata su tagli o bruciature pelle, viene usata da alcune tribù come medicina e/o rituali sciamanici; negli anni si è diffusa anche nelle città fino ad essere proibita non tanto per i suoi minimi (e poco caratterizzati) effetti allucinogeni ma per l'elevato rischio di tossicità.
I dubbi sulla reale azione psichedelica vengono dal fatto che il kambô non attiva il recettore 5-HT2A, una proteina che rileva il messaggero chimico serotonina, come invece fanno le sostanze psichedeliche.
Le secrezioni avrebbero la finalità "rituale" di aumentare la resistenza dei cacciatori mentre la funzione originale (quella evolutasi nella rana) è di provocare nei predatori rigurgito, convulsioni e un cambiamento nella funzione cardiaca.
La composizione della secrezione è ancora poco caratterizzata per quanto riguarda quale fra le varie molecole (circa 200 peptidi) presenti siano i veri effettori

Spugna bucherellata (Verongula rigida)
La spugna bucherellata (traduzione letterale visto che non ho trovato il suo nome in italiano) e alcune altre spugne tra cui Smenospongia aura e Smenospongia echina producono 5-bromo-DMT e 5,6-dibromo-DMT e in quanto tali (la dimetiltriptamina o DMT è un allucinogeno) sono potenzialmente in grado di produrre effetti allucinogeni.
È noto che la spugna bucherellata concentra nei suoi tessuti sostanze chimiche chiamate monoammine dotate di azione neuromodulatrice. Questi composti non solo danno il sapore amarognolo alla spugna (già di suo un dissuasore per i predatori) ma possono anche alterare il comportamento nei pesci cocciuti limitando così il danno per la spugna a piccoli morsi prima di indurre il malcapitato a cambiare dieta.
Uno studio del 2008 sui ratti ha evidenziato una azione antidepressiva per il  5,6-dibromo-DMT mentre il 5-bromo-DMT mostrava proprietà sedative. 
Dato l'attuale interesse per la riscoperta di droghe modificate per uso terapeutico (su tutte l'approvazione della ketamina), non mi stupirebbe scoprire che alcune aziende stanno attivamente lavorando per selezionare prodotti da usare come antidepressivi, ansiolitici o antidolorifici.

Formica mietitrice californiana (Pogonomyrmex californicus)
Credit: Matt Reala
Il veleno della formica mietitrice californiana è costituito da enzimi non noti per indurre allucinazioni ma associati ad essi per come gli indigeni locali le usavano durante i loro rituali. Resoconti etnografici del secolo scorso riportano che le persone inghiottivano centinaia di formiche vive avvolte come palline all'interno di piume d'aquila, cosa che rende più che probabile che venissero morse dall'interno del tratto orofaringeo/esofago (dubito che fossero ancora vive nello stomaco).
Secondo gli studiosi, il dolore associato ad un tal numero di morsi di formiche, associato al freddo, al digiuno e alla privazione del sonno che caratterizzavano quei rituali, innescava allucinazioni e/o visioni mistiche insieme ad intorpidimento nella zona del morso. Uno stato che durava dalle 4 alle 8 ore.
Un morso di una di queste formiche è sufficiente ad uccidere un topo.
Il loro veleno serve come difesa dai grossi predatori, come piccoli mammiferi e lucertole.

Salpa (Sarpa salpa)
Varie sono le specie di pesci che possono causare allucinazioni uditive e visive se mangiati. Tra questi alcuni cavedani, i pesci pagliaccio e la salpa che userò qui come esempio essendo presente nel Mediterraneo.
Credit: Brian Gratwicke
Noto anche agli antichi romani come "pesce dei sogni", fatto che suggerisce i suoi potenziali effetti collaterali dopo averlo mangiato (ittioalleinotossismo). Sebbene rari sono stati documentati casi di intossicazione (Clinical Toxicology, 2006). Tra questi il caso di un quarantenne che dopo avere mangiato la salpa al forno ha in seguito avuto allucinazioni di animali urlanti e di artropodi giganti che circondavano la sua auto; sintomi durati 36 ore con cure mediche.
Non è noto quale sia il (o i) composto responsabile e alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti di sottoprodotti derivati dalla dieta del pesce.
Importante sottolineare che questo fenomeno è diverso da altre forme di avvelenamento da pesce, i cui esempi classici sono quello del pesce palla e della ciguatera, entrambi causati da tossine prodotte da microbi simbionti nel pesce o dall'anisakis cioè pesce mangiato crudo e infetto da nematodi. 
All'interno del pesce palla sono ospitati batteri simbionti  che producono la tetrodotossina (TTX), neurotossina che può causare paralisi e morte. La ciguatera invece è causata dall'ingestione di alimenti di origine marina contaminati da una tossina, di origine non batterica, nota come ciguatossina, presente in molti microrganismi (in particolare il dinoflagellato Gambierdiscus toxicus). Può causare diarrea, vomito e debolezza, nonché un disturbo sensoriale inverso, in cui le cose calde sembrano fredde e viceversa. In entrambi i casi non si hanno allucinazioni. 
Rimane da capire se questi allucinogeni presenti nella salpa siano incidentali (dovuti alla sua dieta) oppure fungano da deterrente per i predatori.

***


Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)

Alti livelli di caffeina ematica riducono il rischio di obesità e di diabete di tipo 2?

Alti livelli di caffeina nel sangue possono ridurre il peso corporeo e il rischio di diabete di tipo 2, questo almeno si deduce da una ricerca anglo-svedese che ha correlato il livello di caffeina nel sangue e il rischio di malattie metaboliche.
Lo studio, pubblicato a marzo sulla rivista BMJ Medicine, ha anche valutato se tali effetti protettivi si associassero (proprio a causa della caffeina) a malattie cardiovascolari, fibrillazione atriale inclusa.

Studi precedenti avevano, in effetti, già mostrato che bere 3-5 tazze di caffè al giorno (ogni tazza contiene 70-150 mg di caffeina)  diminuiva il rischio di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Tuttavia la maggior parte di tali studi era di tipo osservazionale, meno validi per stabilire un effetto causale a causa dell'imprecisato numero di fattori di confondimento e per la difficoltà di distinguere effetti specifici della caffeina da altri composti inclusi nelle bevande e negli alimenti.

I ricercatori hanno utilizzato una tecnica statistica chiamata randomizzazione mendeliana, che utilizza le varianti genetiche come strumento per indagare sulla relazione causale tra la presenza di uno (o più) varianti genetiche e la caratteristica da valutare.
I risultati dell'analisi hanno mostrato che una predisposizione genetica ad avere più alti livelli di caffeina ematica erano associati a un peso corporeo inferiore (BMI) e a un minor rischio di diabete di tipo 2.
Nello specifico sono state analizzate poco meno di 10 mila persone portatrici di varianti (comuni) dei geni CYP1A2 e AHR (già coinvolte in altri studi di lungo periodo), geni coinvolti nel metabolismo della caffeina.
Varianti associate a minor metabolismo della caffeina rallentano la velocità di rimozione della molecola dal sangue e questo spiega i livelli alti in assenza di una dieta appositamente arricchita di fonti di caffeina. Anzi, le persone portatrici di tali varianti genetiche bevono, in media, meno caffè, proprio perché hanno meno bisogno di "rimpolpare" la caffeina eliminata.
I ricercatori hanno anche tenuto conto di effetti protettivi indiretti sul rischio diabete della caffeina, ad esempio quelli (noti) legati alla concomitante perdita di peso tra chi fa fa più uso di caffeina. I risultati hanno mostrato che la perdita di peso è responsabile per il 43% dell'effetto della caffeina.
Dall'altra parte non sono emerse associazioni significative tra il livello di caffeina ematica (nei soggetti predisposti, NON in chi fa un uso smodato di caffè) e il rischio di una qualsiasi patologia cardiovascolare.


I risultati potrebbero (una volta validati e depurati di eventuali effetti legati alla popolazione studiata) dischiudere il potenziale di bevande contenenti caffeina ma senza calorie, come ausilio nella riduzione del rischio obesità e malattie metaboliche associate.


Fonte
- Appraisal of the causal effect of plasma caffeine on adiposity, type 2 diabetes, and cardiovascular disease: two sample mendelian randomisation study.
Susanna C Larsson et al. (2023) BMJ Medicine.

***

Fruttosio e Alzheimer. Nesso causale conseguenza dell'evoluzione o pura coincidenza?

Uno studio, pubblicato su The American Journal of Clinical Nutrition da un team dell'Università del Colorado, solleva il quesito se un eccesso di fruttosio cerebrale (sia endogeno che da dieta), noto per poter causare un locale stato infiammatorio, abbia un ruolo nell'insorgere del morbo di Alzheimer a causa dello spegnimento parziale di alcuni circuiti neurali, non utili in attività come accumulare cibo per l'inverno.

Il comportamento degli animali che vivono attraverso stagioni di abbondanza e scarsità, è volto (o meglio, si è evoluto per) ad assicurare cibo anche per gli imminenti periodi di scarsità del cibo. Lo stesso è avvenuto con i primi esemplari del genere Homo che, specie dopo essersi avventurati in aree con variazioni stagionali sia climatiche che di disponibilità del cibo, hanno dovuto evolvere comportamenti preventivi atti a creare scorte e a massimizzare lo sfruttamento delle risorse disponibili per un tempo limitato. Attività quali l'accumulo per tempi grami non è qualcosa di spontaneo ma necessita una ricalibrazione dei sistemi di controllo del comportamento tale per cui una attività spontanea come hic et nunc ("c'è cibo quindi lo mangio visto che ho un leggero languorino") viene "bloccata" in funzione di raccolta e stoccaggio" mentre consumo avidamente quello che non posso conservare (frutta, etc).

Attività come provvedere al foraggio (in senso generale) richiede attenzione (allo scopo), valutazione, comportamento esplorativo, assunzione di rischi e spegnimento di esigenze finalizzate alla soddisfazione immediata. Lo studio qui riportato dimostra che il metabolismo del fruttosio (sia esso  esogeno, cioè assunto con la dieta, che prodotto dall'organismo) e il suo principale metabolita (acido urico) aiuta a smorzare alcuni circuiti neurali che entrerebbero in conflitto con le esigenze di pianificazione, consentendo una maggiore concentrazione nelle attività di raccolta del cibo.

I ricercatori hanno notato che il fruttosio diminuisce il flusso sanguigno nella corteccia cerebrale (sede dell'autocontrollo) così come nell'ippocampo (memoria) e talamo (centrale di controllo), mentre aumenta nella corteccia visiva e nelle vie della "ricompensa" associata al cibo.

L'ipotesi è che la alterazione fruttosio-dipendente del metabolismo cerebrale sia inizialmente reversibile ma il suo persistere (come ad esempio una dieta moderna ricca tutto l'anno di fruttosio, grassi e altri zuccheri) possa portare alla progressiva atrofia cerebrale e alla perdita di neuroni, tipica della AD. 
Un adattamento (detto anche survival switch) che ha permesso a innumerevoli generazioni di Homo di prepararsi e superare periodi di scarsità, è diventato, ora che l'interruttore è sempre attivato, un fattore di  rischio.

Il fruttosio prodotto nel cervello può portare all'infiammazione (vedi articoli citati sotto) e, secondo lo studio, al morbo di Alzheimer. Studi classici hanno dimostrato come una dieta ricca di fruttosio ad animali di laboratorio induca vuoti di memoria, perdita della capacità di navigare in un labirinto e infiammazione cerebrale. Se si alimentano i ratti da laboratorio abbastanza a lungo con fruttosio, si osserva la comparsa di aggregati cerebrali costituiti da proteine tau e beta-amiloide, le stesse proteine osservate nell'AD. 
Meno convincente invero l'ipotesi dei ricercatori che la tendenza dei malati a vagare senza meta sia vestigiale della attività di ricerca del cibo. 
I prossimi studi dovranno indagare se la dieta o trattamenti farmacologici atti a bloccare il metabolismo del fruttosio possano avere una qualche funzione protettiva contro la malattia.

Fonte
- Could Alzheimer’s disease be a maladaptation of an evolutionary survival pathway mediated by intracerebral fructose and uric acid metabolism?
Richard J. Johnson et al. (2023) American Journal of Clinical Nutrition


Articoli sul tema FRUTTOSIO precedentemente pubblicati in questo blog, qui copiati per comodità. 


Anche il cervello produce fruttosio
(Luglio 2017)

A volte i nomi "amichevoli" traggono in inganno rinforzando l'associazione tra una molecola e un prodotto naturale "buono".
Fruttosio
Un esempio classico è quello del fruttosio, uno tra gli zuccheri più abbondanti nella frutta, e per questo motivo spesso preferito, insieme al miele, al posto del saccarosio, lo zucchero "comune".
Fin qui niente di male, purché (ma questo vale per tutto) il prodotto venga usato in modo quantitativamente "intelligente".

Il problema sorge con l'accoppiata "percezione di minor danno in quanto presente nella frutta" e l'intensivo uso che l'industria alimentare fa di questo zucchero (sotto forma di sciroppo di mais); il risultato netto è un incremento del suo consumo reale. Se a questo aggiungiamo il fatto che il fruttosio è da tempo indiziato di essere uno tra i responsabili dell'aumentata incidenza di obesità e diabete di tipo 2, allora le ragioni per considerarlo un "falso amico" ci sono tutte.

Come detto il fruttosio non è un prodotto cattivo di suo ma presenta caratteristiche che possono facilmente diventare negative in certe situazioni.
  • Ha un elevato potere dolcificante (tre volte superiore a quello del saccarosio) il che teoricamente dovrebbe spingere il consumatore ad usarne di meno. Vero però che una volta "cotto" (come avviene nelle preparazioni industriali) il suo potere dolcificante diminuisce, quindi il consumo reale aumenta e con esso il carico glicemico (soprattutto grazie al numero di prodotti che contengono fruttosio). 
  • Ha un basso indice glicemico (il che è buono) che si accompagna ad una sostanziale incapacità di attivare la produzione di insulina, al contrario del glucosio. D'altra parte, sebbene sia in grado di stimolare la sintesi dei lipidi (vedi sotto) non ha alcun effetto sulla produzione della leptina, l'ormone della sazietà, aumentando così il rischio di mangiare più del dovuto
  • Tra le ragioni del basso indice glicemico vi è il suo scarso assorbimento da parte dell'intestino, assorbimento dipendente da un trasportatore (GLUT5) diverso  da quello usato dalle cellule per il glucosio. Dato che il fruttosio viene assorbito lentamente e in modo variabile (alcuni individui hanno deficit di GLUT5), il suo accumulo intestinale favorisce il metabolismo batterico locale con disturbi facilmente immaginabili. 
  • A differenza del glucosio, metabolizzabile da ogni cellula, il fruttosio è usato principalmente dal fegato che lo stabilizza sotto forma di glicogeno, previa conversione in glucosio, pronto per essere mobilizzato in caso di bisogno. In condizioni normali il fruttosio viene convertito per la maggior parte in glucosio (54%), glicogeno (18%), lattato (15%) e meno dell'1% in trigliceridi. Di questi solo il glucosio e il lattato fungono da "combustibile" usato dalle altre cellule del corpo. Se c'è troppo fruttosio, la capacità trasformativa del fegato viene saturata e quello in eccesso viene trasformato in grasso, soprattutto nei soggetti con ipertrigliceridemia e diabete, innescando così problemi a cascata.
  • In condizioni normali la quantità di fruttosio assunta è ben al di sotto della soglia di rischio. Vale la pena ricordare però che se per assumere 50 grammi di fruttosio servono 5 mele (difficile che qualcuno ne mangi così tante in una volta sola... senza danni), la stessa quantità si ottiene bevendo qualche bicchiere di succo di frutta. Quindi i "limiti naturali" che ben funzionavano in passato sono oggi inefficaci, specialmente con la dieta estiva.

Nel 2013 un team di ricercatori della università di Yale notò che il fruttosio e il glucosio avevano un diverso effetto sul cervello; non solo il fruttosio appariva meno capace di stimolare la sazietà ma aveva l'effetto opposto. I test dell'epoca tuttavia non permisero di capire se l'effetto del fruttosio fosse diretto o mediato da derivati del suo metabolismo.

La risposta arriva oggi con un articolo pubblicato sulla rivista JCI Insight.
I test sono stati condotti su volontari sani a cui è stato somministrato glucosio per 4 ore, misurando poi la concentrazione dello zucchero nel sangue e nel cervello (mediante risonanza magnetica). La scoperta in un certo senso sorprendente fu che l'infusione di glucosio provocava un aumento di fruttosio nel cervello ma non nel sangue, ad indicare che il fruttosio cerebrale non era il prodotto della conversione epatica. L'ipotesi più probabile è che la conversione  avviene a livello cerebrale mediante la via dei poioli (anche nota come via del sorbitolo e aldosio reduttasi) che trasforma il glucosio in sorbitolo e poi in fruttosio.


Tra le considerazioni che questo studio innesca, quella che il livello di fruttosio (almeno nel cervello) non è semplicemente una conseguenza del fruttosio ingerito ma è (anche) il prodotto ultimo della conversione da altri zuccheri. Il problema in tutto questo è che mentre in presenza di glucosio viene attivato lo stimolo di sazietà, con il fruttosio questo non avviene. La scoperta potrebbe spiegare perché un aumento nella quantità di zuccheri ematici non solo non si traduce sempre in una diminuita voglia di cibo ma anzi possa avvenire il contrario.
Limitare l'assunzione di fruttosio servirebbe quindi a poco se si è soliti indulgere in altri zuccheri dato che questi verrebbero poi convertiti in fruttosio.
Il dato è utile prospettivamente per pensare a terapie mirate per contrastare, nei soggetti a rischio, l'aumento del fruttosio a livello cerebrale

Fonte
- Effects of fructose vs glucose on regional cerebral blood flow in brain regions involved with appetite and reward pathways.
Page KA et al. (2013) JAMA; 309(1):63-70

- The human brain produces fructose from glucose.
Hwang JJ et al, (2017) JCI Insight


***

Il fruttosio agisce sul cervello favorendo una alimentazione eccessiva
(Luglio 2013)

Ho trattato in passato il tema controverso del fruttosio. Controverso perchè se da una parte l'essere il fruttosio lo zucchero più abbondante della frutta e del miele lo ha di fatto semplicisticamente associato alle proprietà della frutta, dall'altro è da tempo sotto la lente d'ingrandimento dei ricercatori che lo additano a principale responsabile dell'obesità e delle malattie correlate.
Facciamo un passo indietro e riassumiamo alcuni concetti base.
  • Il fruttosio è insieme al glucosio il monosaccaride più "usato" dal nostro organismo.
  • Mentre il glucosio è spesso inglobato in molecole a diverso grado di complessità (ad esempio nel saccarosio, amido, glicogeno, etc) e quindi deve essere reso disponibile per scissione enzimatica, il fruttosio è pronto per essere usato.
  • Il fruttosio grazie al suo elevato potere dolcificante è ampiamente usato nella industria alimentare  (sotto forma di High Fructose Corn Syrup). E' inoltre uno zucchero "di moda" (lo potete vedere spesso sui banconi dei bar) visto il minore apporto calorico e il minore indice glicemico. 
L'insieme di questi fattori ha determinato una impennata dei consumi negli ultimi anni, soprattutto in USA, con conseguenze rilevanti sulla percentuale di obesi nella popolazione.
    Alcuni dati recenti aiutano a comprendere come e perchè l'organismo "percepisca" in modo diverso il glucosio e il fruttosio. Elementi questi che come vedremo hanno diretta influenza sull'aumento di peso.
    L'articolo a cui farò riferimento oggi è stato pubblicato sul Journal of American Medical Association da una equipe della Yale School of Medicine. Il dato centrale del lavoro è che mentre il glucosio inibisce l'attività cerebrale delle regioni coinvolte nel desiderio di cibo, il fruttosio è meno "bravo" in questo processo. In termini semplici il primo rende sazi più facilmente del secondo.

    Robert Sherwin, uno degli autori, ha analizzato mediante la tecnica non invasiva della risonanza magnetica funzionale, il cervello di volontari sani non obesi allo scopo di valutare i cambiamenti nel flusso sanguigno cerebrale in seguito all'ingestione di  glucosio o fruttosio. Da queste analisi è emerso che mentre il glucosio diminuiva il flusso sanguigno nelle regioni cerebrali deputate alla regolazione dell'appetito, il fruttosio non aveva effetti rilevanti. Stesso dicasi per la regolazione della sensazione di soddisfazione e di sazietà.
    Entrando un poco più nello specifico, il glucosio riduce l'attivazione dell'ipotalamo, della insula e dello striato, regioni queste coinvolte nella regolazione dell'appetito, della motivazione e nei meccanismi di reward (appagamento/ricompensa). L'aumento dei livelli di glucosio ematico attiva le connessioni ipotalamo-striatali, generando gli effetti prima citati.

    Una dieta ricca di fruttosio (soprattutto in forma "libera" cioè privo dei molteplici nutrienti presenti nella frutta) favorisce una maggiore ingestione di calorie a causa del ridotto senso di sazietà indotta. Un processo che in qualche sembra anche favorire il fenomeno della l'insulino-resistenza; una condizione tipica del diabete di tipo II.

    Fonti
    Study suggests effect of fructose on brain may promote overeating
      Yale University, news

    Effects of Fructose vs Glucose on Regional Cerebral Blood Flow in Brain Regions Involved With   Appetite and Reward Pathways
     K.A. Page et al, JAMA. 2013;309(1):63-70


    ***aggiornamento gennaio 2016***

    Uno studio condotto su ratti pubblicato da un team della UCLA evidenzia che una dieta ricca di fruttosio rende problematico il recupero cognitivo successivo a traumi cranici. 

    Fonte
    Dietary fructose aggravates the pathobiology of traumatic brain injury by influencing energy homeostasis and plasticity
    R. Agrawal et al, J Cereb Blood Flow Metab, (2015) 



    ***


     Troppo fruttosio e poco omega 3 fanno male alla memoria
    (Dicembre 2012)
    Un articolo pubblicato su Journal of Physiology da Fernando Gomez-Pinilla (David Geffen School of Medicine presso la UCLA) fornisce nuove prove sugli effetti non salutari del fruttosio.

    Il fruttosio uno degli zuccheri più presenti nella frutta e nel miele rappresenta il lato oscuro di una alimentazione apparentemente salutista quale quella di chi mangia molta frutta.
    Non solo. Oramai il fruttosio viene usato abbondantemente in molte preparazione alimentari e bibite grazie al suo alto potere dolcificante. Inoltre mentre l'azione negativa del fruttosio nella frutta viene, in parte, bilanciata dagli antiossidanti presenti in alcuni tipi di frutta, tale bilanciamento manca quando si parla del fruttosio usato come additivo alimentare. 
    Il suo uso tuttavia passa in secondo piano visto che la moda alimentare insegna a distinguere fra eccipienti naturali ed artificiali. Quante volte infatti troviamo al bar le bustine di fruttosio ("totalmente naturale") da accompagnare al caffè?
    Il fruttosio è certamente naturale ma ha anche una azione chiaramente più dannosa di altri edulcoranti artificiali viste le quantità relative associate.

    Perchè il fruttosio fa male?  
    Fino ad ora la spiegazione era che lo zucchero della frutta fosse la causa di diabete, obesità e del fegato grasso (steatosi epatica). Sebbene il fruttosio abbia un indice glicemico inferiore rispetto al saccarosio, viene facilmente convertito in glucosio, nel fegato e nell'intestino, e inoltre induce un innalzamento dei trigliceridi. Questo e altri meccanismi fanno si che l'assunzione protratta di fruttosio sia causa di ipertrigliceridemia e iperuricemia, obesità, stress ossidativo, danni microvascolari e ipertensione.
    Questi i danni acclarati. Finora. Ma, come dicevo, c'è dell'altro.
    Lo studio di Gomez-Pinilla mostra che una dieta costantemente ricca di fruttosio "rallenta" il funzionamento del cervello agendo sulla memoria e sull'apprendimento. Un danno che tuttavia può essere evitato grazie ad un "grasso": l'omega-3.
    Una sorta di ribaltamento: un grasso che protegge dagli effetti dannosi di un eccesso di frutta e di zuccheri derivati!!

    Riassumiamo dunque i risultati sperimentali. 
    A due gruppi di ratti viene data per 6 settimane acqua zuccherata con fruttosio. Ad un gruppo viene aggiunto alla soluzione anche omega-3, sotto forma di acido docosaesanoico (DHA) e olio di lino, che ha una rinomata azione neuroprotettiva.
    Alla fine del periodo i ratti sono stati analizzati in quanto a capacità mnemoniche attraverso il test del labirinto (T-Maze test). E' ben noto che i ratti messi in un ambiente nuovo inizieranno ad esplorarlo e ne memorizzeranno i punti chiave; una capacità che permette loro di imparare, attraverso un processo di errore e apprendimento, a trovare la strada per uscire da un labirinto semplificato. Il labirinto è contrassegnato di segnali visivi in modo da facilitare il roditore nel ricordare i punti già visitati.
    Bene. Si è scoperto che i ratti appartenenti al secondo gruppo erano in grado di attraversa il labirinto più velocemente dei roditori del primo gruppo.
    Analisi successive hanno evidenziato che i ratti che non avevano ricevuto il DHA erano più lenti ed il loro cervello mostrava una ridotta funzionalità sinaptica. Per essere più precisi le cellule cerebrali erano meno in grado di comunicare fra loro e questo si traduceva in una minore "lucidità" nella elaborazione dei dati visivi necessaria per ricordare la strada fatta precedentemente.
    Come se non bastasse i ratti del primo gruppo (che non avevano ricevuto DHA) mostravano sintomi di resistenza alla insulina, un ormone che oltre a favorire l'assorbimento di glucosio ematico da parte delle cellule regola anche la funzionalità sinaptica nel cervello.  
    Riassumendo, una dieta ricca di fruttosio può bloccare la capacità dell'insulina di regolare l'utilizzo corretto (immagazzinamento e produzione di energia) del glucosio ematico, e questo si ripercuote sui meccanismi cerebrali superiori (memoria e apprendimento).  

    Gomez-Pinilla, da bravo scienziato ha messo subito in pratica gli insegnamenti derivanti  dalle sue scoperte e suggerisce di fare come lui :
    • limitare al massimo il consumo di fruttosio (soprattutto nei suoi usi più nascosti come ecciente) 
    • sostituire gli spuntini classici con bacche e yogurt greco (di cui ha una scorta anche sul lavoro). 
    • Nel caso sia disponibile non disdegna una bella barretta di cioccolato fondente (dall'80% in su meglio se amaro).
    • Se poi proprio appartenete al gruppo di persone che non trattenersi da limitare l'uso sacrosanto di frutta (e via anche di un po di dolciumi) allora complementate la vostra dieta con alimenti ricchi di omega-3 come salmone, noci, alcuni oli vegetali (esempio di lino) oppure una pastiglia di DHA (1 grammo al giorno). 

    Fonti
    Does too much sugar make for lost memories? 
    (A. Stefanidis, M. J. Watt, Journal of Physiology, qui)
    Metabolic syndrome' in the brain: deficiency in omega-3 fatty acid exacerbates dysfunctions in insulin receptor signalling and cognition
    (Rahul Agrawal e Fernando Gomez-Pinilla, Journal of Physiology, qui)


    ***

    Il fruttosio è sotto inchiesta
    (Febbraio 2012)

    Il fruttosio, lo zucchero della frutta, potrebbe essere coinvolto nello sviluppo di patologie metaboliche quali l'obesità ed il diabete. Questo almeno è quanto emerge dal lavoro del gruppo di Kyriazis pubblicato sull'ultimo numero di PNAS.  
    Fino ad ora i dati indicavano il glucosio, uno dei due monosaccaridi derivati dalla scissione del saccarosio, come il principale attivatore delle cellule beta nel pancreas. Queste cellule stimolate rilasciano insulina, una proteina che ha come effetto principale quello di favorire l'assorbimento del glucosio da parte delle cellule. Quando il meccanismo di rilevazione e di segnalazione della presenza di glucosio ematico funziona male compare il diabete: di tipo I se il difetto è nella produzione dell'insulina; di tipo II se sono le cellule bersaglio a divenire insensibili all'insulina. 
    Bene.
    Consideriamo ora l'altro prodotto della scissione del saccarosio: il fruttosio. Fino ad oggi la vulgata comune lo considerava come "genuino e sano in quanto lo zucchero della frutta". 
    Vero. 
    Ma oggi dobbiamo aggiungere un tassello. Anche il fruttosio è in grado di attivare le cellule beta attraverso il recettore eterodimerico TIR2-TIR3, sinergizzando l'effetto del glucosio nello stimolare le cellule a rilasciare l'insulina.
    Tralasciando il meccanismo molecolare alla base di questo effetto rinforzante, il dato importante di questo studio è che una dieta ricca di frutta potrebbe favorire l'insorgernza di alcune malattie metaboliche.
    Quando si dice "il troppo fa male"

    Articolo di riferimento
    Sweet taste receptor signaling in beta cells mediates fructose-induced potentiation of glucose-stimulated insulin secretion
    GA Kyriazis et al.  Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 109, 10.1073 (2012)


    Una linea diretta tra cervello e stato microbiota intestinale

    I neuroni ipotalamici rilevano direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino e adattano di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. I risultati dimostrano l'esistenza di una comunicazione diretta tra cervello e microbiota intestinale.

    L'intestino è considerato un secondo cervello non tanto per l'immagine comune di "reazioni viscerali" a particolari situazioni ma per l'elevata innervazione ad opera del sistema nervoso enterico e per il ruolo chiave giocato dal microbiota intestinale nella produzione di serotonina e a cascata il suo impatto sul  nostro stato mentale.
    Il sistema nervoso enterico si basa sullo stesso tipo di neuroni e neurotrasmettitori che si trova nel sistema nervoso centrale
    L'intestino ospita una vasta comunità microbica (nella quasi totalità batteri) con numeri intorno ai 1000 miliardi di batteri suddivisi in 300-1000 specie diverse. Dalla loro composizione dipende anche la nostra silhouette; molti sono oramai gli studi che dimostrano come la flora negli obesi, nei diabetici e nei malati del morbo di Crohn sia diversa da quella presente nei normopeso e come il trapianto del microbiota possa eliminare molti problemi.
    Sul tema vedi i precedenti articoli (tag "microbioma"), ad esempio "microbioma: un ecosistema"
    A completare il quadro arriva ora uno studio pubblicato sulla rivista Science in cui ricercatori francesi hanno scoperto che i neuroni ipotalamici sono in grado di rilevare direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino adattando di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. Un risultato che dimostra il dialogo diretto tra il microbiota intestinale e il cervello, e che potrebbe aprire la via per nuovi approcci terapeutici a malattie metaboliche come il diabete e l'obesità.
    Nello studio condotto su un modello animale, i ricercatori si sono concentrati sul recettore intracellulare NOD2, importante per il riconoscimento di particolari molecole batteriche, i peptidoglicani; come tale non sorprende che sia espresso principalmente dalle cellule immunitarie 
    Nello specifico NOD2 riconosce un tipo particolare di peptidoglicani noti come muropeptidi il cui nome indica i peptidoglicani associati alla parete cellulare batterica.
    Varianti del gene NOD2 sono state associate ad un aumento (40x) del rischio di sviluppare il morbo di Crohn, nonché a malattie neurologiche e disturbi dell'umore.

    I dati finora disponibili erano però insufficienti per dimostrare una relazione diretta tra l'attività neuronale nel cervello e l'attività batterica nell'intestino.
    Grazie a tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori hanno osservato che NOD2 nei topi era espresso anche da neuroni in varie aree del cervello, in particolare, nell'ipotalamo. Passo successivo è stato rilevare la scomparsa dell'attività elettrica di questi neuroni quando entrano in contatto con i muropeptidi batterici dall'intestino.
    A riprova della correttezza dell'osservazione, se si eliminava NOD2 da questi neuroni, anche l'attività neuronale non era più soppressa in presenza dei muropeptidi. 
    La presenza di muropeptidi nell'intestino, sangue e cervello è un biomarcatore dello stato di proliferazione batterica, più elevata e maggiore la crescita. Da qui il senso del sistema di feedback negativo per cui quando le cellule dell'ipotalamo rilevano una aumentata proliferazione, viene diminuita la voglia di assumere altro cibo e minore regolazione della temperatura. I topi femmina sono anche meno propensi a costruire un nido, indice che le condizioni non sono ideali. 
    I topi mutati sono meno capaci di regolare l'assunzione di cibo e la temperatura corporea e in conseguenza sono sovrappeso e più suscettibili (specialmente le femmine mature) allo sviluppo del diabete di tipo 2.
     Credit: Institut Pasteur / Pascal Marseaud via neurosciencenews.com


    In sintesi con questo studio si è dimostrato che i neuroni di un'area chiave del cervello (ipotalamo) sono in grado di rilevare direttamente la presenza (e la "conta") dello stato della flora intestinale e come tale operare le contromisure. Finora si riteneva che questa rilevazione fosse mediata dalle cellule immunitarie.
    L'impatto dei muropeptidi sui neuroni ipotalamici e sul metabolismo solleva interrogativi sul loro potenziale ruolo in altre funzioni cerebrali e potrebbe aiutarci a capire il legame tra alcune malattie cerebrali e varianti genetiche di NOD2.

    Fonte
    - Bacterial sensing via neuronal Nod2 regulates appetite and body temperature
     Ilana Gabanyi et al, Science, 2022 Apr 15;376(6590)







    Astemi e chi abusa di alcol a maggior rischio di demenza? Troppe variabili

    Il lavoro che cito oggi non è in verità  recente essendo rimasto in "naftalina" dal 2018 in attesa di conferme o smentite da terze parti.
    Image credit: ucl.ac.uk.

    
La ragione prima è che questo genere di studi sono esposti a molteplici varianti la cui non corretta valutazione può portare a conclusioni totalmente fuorvianti e dannose da un punto di vista comunicativo. Dire infatti che l'astemia porta con sé un aumento del rischio demenza simile a quello associato all'abuso di alcool è un concetto comprensibile e razionalizzatile da chi fa ricerca clinica ma fraintendibile per la persona comune.
 
    La successiva pubblicazione di un largo studio epidemiologico cinese e quest'anno di altri due lavori chiude di fatto il cerchio arrivando a conclusioni anche opposte, quindi è giunto il tempo di mettere fianco a fianco i vari studi per sottolineare i rischi di conclusioni affrettate, specie nell'indagine epidemiologica.
     
    Cominciamo con lo studio britannico del 2018 condotto da un gruppo della UCL e pubblicato sul British Medical Journal.
    Condensando il tutto in due righe, lo studio osservazionale condotto su individui di mezza età con "abitudini etiliche" diverse, indicava che sia gli astemi che chi consumava più di 14 unità di bevande alcoliche (la soglia di "consumo normale" in UK) era a maggior rischio di ricevere una diagnosi di demenza negli anni successivi rispetto ai consumatori di alcool nelle categorie intermedie.
    Lo studio è importante in un mondo che invecchia, in cui i disturbi neurologici diventeranno parte preponderante della pratica clinica.
    Il campione analizzato era costituito da poco più di 9 mila cittadini britannici di età compresa tra 35 e 55 anni, già arruolati all'interno di un maxi studio osservazionale (Whitehall II) finalizzato a misurare l'impatto di fattori sociali, comportamentali e biologici sullo stato di salute a lungo termine.
    Nel periodo compreso tra il 1985 e il 1993 i partecipanti furono visitati ad intervalli regolari registrando nel contempo anche il loro consumo dichiarato di alcool.
 A partire dal 1991 si cominciarono a registrare eventuali degenze legate a patologie da alcool, cardiovascolari o diagnosi di demenza.
    Tra tutti i partecipanti, i casi di demenza registrati durante il follow-up durato circa 23 anni, sono stati 397 (età media alla diagnosi, 76 anni)
    Dopo avere normalizzato per fattori di rischio familiare, sociodemografici, stile di vita e correlati alla salute (ad esempio conseguenti ad altre patologie) il dato che emergeva era che sia astemia che  consumo eccessivo erano di loro un fattore di rischio.
    Un dato curioso ma non cosi sorprendente se contestualizzato a studi oramai storici come il classico studio di Tromsø. Verosimile che i fattori di rischio aumentato sottostanti a consumo nullo o eccessivo siano tra loro diversi, ma sul legame causa-effetto ben poco potevano dire i ricercatori (un limite intrinseco agli studi osservazionali); non si poteva nemmeno escludere che gran parte del rischio aggiuntivo fosse legato a fattori confondenti non debitamente pesati.
    Lo studio di Tromsø (sia nella versione del 1986 che in una variante successiva del 2011 riferita alla relazione tra alcool e tromboembolismo, TVE) aveva mostrato un certo effetto protettivo contro eventi cardiovascolari associato al consumo basso-moderato di alcool rispetto al non consumo o al consumo eccessivo. Nel dettaglio si osservava una protezione del 22% di eventi TVE nel solo caso di assunzione di vino in dosi  >= 3 unità/settimana (1U= 14 grammi di alcool). Una correlazione, è bene ricordarlo, NON associata al solo alcool ma al "veicolo", vale a dire vino contrapposto a superalcolici o birra.

    Nel 2019 un imponente studio cinese pubblicato su Lancet basato su mezzo milione di persone non confermava il nesso causale tra il consumo (minimo) di alcool e l'effetto protettivo. Lo studio in sé era interessante perché sfruttava controlli interni basati su varianti genetiche, comuni in Cina, associate a non tolleranza per l'alcool (quindi un ottimo controllo dei "veri" astemi). Importante sottolineare che il consumo di alcool qui monitorato è riferito a prodotti diversi dal vino, elemento invece centrale per paesi come Francia e Italia.

    Arriviamo nel 2021 ed ecco arrivare un nuovo studio in cui si scopre che l'alcool anche a dosi moderate (il classico "un bicchiere al giorno") porta con sé un aumento del rischio di fibrillazione atriale. Anche qui il problema è che si prende in esame la quantità di alcool contenuta in un bicchiere di vino, birra, etc ma non la bevanda in sé (e il vino è qualcosa di molto più complesso dell'alcool etilico in esso contenuto, vedi resveratrolo a antiossidanti vari).

    Sempre nel 2021 un altro studio cinese indica che un consumo inferiore a 25 grammi a settimana abbassa il rischio di eventi cardiovascolari, cancro e mortalita generale.

    Chiudo con una metanalisi del 2018 su Lancet, che conclude: "la quota di alcool che minimizza il rischio di eventi terzi è pari a ZERO".

    Come direbbero in USA, the jury is still out per valutare appieno il rischio legato all'assunzione anche minima di alcool e soprattutto nel caso del vino.


    Fonti
    Ciascun riferimento bibliografico è in hyperlink all'articolo citato.

    Integratori a base di riso rosso. Usarli con intelligenza non è un optional

    Aggiornamento. La monacolina K in dosi superiori a 3mg è stata ritirata dal mercato per ragioni di sicurezza (Ritiro degli integratori a base di Monacolina K)

    ***

    Integratori a base di riso rosso fermentato ed effetti collaterali o per porre la domanda più in generale, può un integratore alimentare causare danni all'organismo? 

    La risposta viene dalla statistica ed è sempre SI, qualunque prodotto venga preso in considerazione (anche il più innocuo).
    La differenza tra eventi aneddotici e conclamati allarmi viene non solo dal numero assoluto di segnalazioni ma dalla rilevazione anche di piccole nicchie di rischio causate da un utilizzo erroneo o dall'utilizzo da parte di persone a rischio per sottostanti problemi.

    Il potenziale flag sul "riso rosso" nasce da un articolo pubblicato tempo fa sul British Medical Journal.

    Nel case report si descrive il caso di una reazione avversa, i dettagli in seguito, attribuibile ad un componente specifico presente nell’integratore noto come riso rosso fermentato (da lievito)
    Come noto a molti, il riso rosso fermentato (da non confondere con il riso rosso in vendita nei supermercati, semplice variante del riso) è tra i pochi prodotti non categorizzati come medicinali capaci di abbassare il livello del colesterolo e data la sua azione i medici avvisano che non deve essere assunto da chi è sotto terapia con le statine.
    L’integratore è preparato partendo da riso bianco su cui viene fatto crescere il fungo Monascus purpureus, quindi bollito per eliminare fungo e processo fermentativo. E’ il fungo a conferire il colore rosso e questo spiega la confusione potenziale tra questo prodotto e il vero riso rosso (variante naturale dal colore rossastro, non indotta dalla fermentazione). Il riso rosso fermentato è presente sia nella cucina asiatica che nella medicina tradizionale cinese.
    Il principio attivo responsabile della azione ipocolesterolemizzante è la monacolina K, presente sia nei farmaci anti-colesterolo propriamente detti (vedi lovastatin) che negli integratori in vendita nei supermercati. In quanto prodotto naturale non è catalogato come farmaco, quindi non è soggetto alle restrizioni alla vendita dei farmaci propriamente detti, il che spiega il rischio di assunzioni errate sia nel metodo che nello scopo.
    Monacolina K

    Il rischio intrinseco con questa categoria di prodotti (integratori e simili) è di usarli al posto di terapie farmacologiche appropriate. L'unica indicazione in cui tali integratori potrebbe avere un senso è la colesterolemia lieve, dove questo trattamento INSIEME ad una migliore dieta e all'attività fisica quotidiana, può aiutare a riportare i valori nella norma.
    I farmaci a base di statine (sotto il cui nome ricade un'ampia classe di molecole) sono ben più efficaci (2-3 volte) nella capacità di ridurre il colesterolo rispetto al "riso rosso" ma sono anche associati al rischio di effetti collaterali per cui il medico stesso tende a limitarne la prescrizione (che di fatto ha carattere continuativo) solo al permanere dei valori di colesterolo al di sopra di certi valori e, colesterolemia famigliare esclusa, non prima dei 50 anni.

    Ma anche il “riso rosso” (inteso come summa di monacolina K e, forse, altro) non è esente da problemi potenziali sia in caso di dosaggi eccessivi che, in alcuni soggetti, a dosaggi standard.
    Ribadiamo un concetto: se un prodotto genera un effetto allora sta modificando la fisiologia (a livello sistemico, tessutale o cellulare) di chi la assume; se viene indicato come privo di qualunque effetto indesiderato anche remoto allora è una indicazione che quello che assumete è “acqua fresca” o peggio fuffa spacciata per altro. Riprendendo un vecchio detto in economia “non esistono pasti gratis”. Questo ci ricorda anche che i trattamenti fai da te non sono mai da seguire senza previo consulto di personale qualificato, fosse anche il classico farmaco da banco o un integratore.
    Torniamo al caso descritto nell’articolo.
    Una donna di 64 anni, titubante all’idea di iniziare un trattamento con le statine, aveva scelto la strada degli integratori a base di monacolina K. Ad un certo punto cominciò a presentare sintomi caratteristici di un danno epatico acuto, risoltisi solo dopo ospedalizzazione.
    Entrando un poco più nel dettaglio si scopre che la donna aveva optato (errore o consapevolmente?) per un dosaggio inverosimile per 6 settimane.
    La paziente assumeva 1200 mg/giorno di monacolina K quando l’assunzione giornaliera indicata su qualunque confezione (1 o 2 pastiglie a seconda dei casi) è di 10 mg (equivalente a 350 mg di riso fermentato). In questi casi il vecchio modo di dire “dose da cavallo” è addirittura riduttivo.
    Tra i sintomi riportati (apparsi nelle 2 settimane prima del ricovero) stanchezza, gonfiore e ittero, quest’ultimo il segnale che aveva spinto la donna a recarsi in ospedale. Qui, oltre alle analisi del sangue che avevano indicato il danno epatico, una biopsia (fatta per escludere altre e nefaste cause) confermò il danno come caratteristico da assunzione di farmaci. La terapia che ne è seguita, a parte l'ovvia interruzione dell'assunzione di integratori, un trattamento con steroidi per ridurre il processo infiammatorio, continuato fino al ritorno dei parametri ematici entro l'intervallo di normalità.
    La monacolina (che fa parte delle statine) agisce inibendo la sintesi endogena del colesterolo, cosa ben diversa dall'azione degli steroli vegetali che invece inibiscono l’assorbimento intestinale del colesterolo (ulteriori informazioni a fondo pagina su Danacol e simili). 
    Schema semplificato della via di biosintesi del colesterolo. Le statine (e la monacolina K) agiscono inibendo la HMG-CoA reduttasi. Poiché tale azione ha anche l'effetto di diminuire il coenzima Q10, gran parte di integratori (e statine) contengono nella formulazione anche tale coenzima
    (image credit: Int. J. Mol. Sci. 2019, 20, 3531 )
    Oltre al coenzima Q10 viene spesso aggiunta la vitamina B12 di cui è nota la sua azione nel ridurre il colesterolo totale (A. Antonysunil et al (2015)
    Tra i rischi legati all'assunzione eccessiva di monacolina, alterazioni strutturali e funzionali dei muscoli e, nei casi più gravi, a reni e al fegato. Un avviso da non trascurare se si pensa che il 30% delle malattie epatiche in USA è legata al consumo di integratori.

    Questa la ragione per cui gli addetti ai lavori raccomandano in primis uno stile alimentare corretto e una regolare attività fisica, elementi essenziali per ridurre i grassi nel sangue e aumentare i livelli di HDL, e SOLO dopo queste correzioni, e per i casi più lievi, l’utilizzo di integratori. 
    Gli integratori, infatti, generalmente riescono ad abbassare il colesterolo del 5-7%, mentre le statine anche del 20%. Quindi le statine (e in conseguenza la prescrizione medica) sono l'unica terapia possibile quando si parla di vera ipercolesterolemia.


    Fonte
    - Acute liver injury induced by red yeast rice supplement


    *** Nota sui fitosteroli *** 
    L'effetto di riduzione del colesterolo da parte degli steroli vegetali è stato in effetti confermato da un trial clinico nel 2008 e a seguire affrontato a livello europeo da parte della EFSA (European Food Safety Authority). Riguardo al "claim" di efficacia di prodotti come Danacol vale sempre la regola del buonsenso di cui sopra dato che l'effetto è inferiore al 10%.
    Altro elemento da considerare è che ancora oggi si discute se la sola riduzione dei livelli di LDL si correli ad una significativa riduzione delle patologie cardiovascolari.
    - Danacol® and blood cholesterol (The EFSA Journal (2009) 1177, 1-12)
    - Plant sterol-enriched fermented milk enhances the attainment of LDL-cholesterol goal in hypercholesterolemic subjects.  N. Plana et al, (2008) Eur. J. Nutr. 47(1):32-9. 
    - Danacol® Monograph (SISA (Società Italiana per lo Studio dell'Aterosclerosi - (.pdf)
    Riguardo al meccanismo con cui i fitosteroli agiscono, l'ipotesi più probabile è una competizione con il colesterolo a livello dei recettori dell'epitelio intestinale


    1.  Nguyen, Tu T. (1999). "The Cholesterol-Lowering Action of Plant Stanol Esters"The Journal of Nutrition129 (12): 2109–2112. doi:10.1093/jn/129.12.2109
    2. ^ Trautwein, Elke A.; Duchateau, Guus S. M. J. E.; Lin, Yuguang; Mel'nikov, Sergey M.; Molhuizen, Henry O.F.; Ntanios, Fady Y. (2003). "Proposed mechanisms of cholesterol-lowering action of plant sterols". European Journal of Lipid Science and Technology105 (3–4): 171–185. doi:10.1002/ejlt.200390033.
    3. ^ De Smet, E; Mensink, RP; Plat, J (2012). "Effects of plant sterols and stanols on intestinal cholesterol metabolism: suggested mechanisms from past to presentMolecular Nutrition & Food Research56 (7): 1058–72. doi:10.1002/mnfr.201100722



    Articoli precedenti su tematiche correlate





    E in genere gli articoli pubblicati sotto il tag "vitamine" e "alimentazione"
    Powered By Blogger
    "Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
    Clive S. Lewis

    "Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
    Bertrand Russel

    "La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
    Karl Popper