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Tracce di Theia nel mantello terrestre?

https://www.nature.com/articles/d41586-023-03385-9
Image Credit: Hernán Cañellas (via Nature)
L'ipotesi più accreditata sull'origine della Luna è che sia il risultato di una collisione immane, circa 4,5 miliardi di anni fa, tra quella che potremmo chiamare proto-Terra e un pianeta delle dimensioni di Marte battezzato come Theia (vedi in proposito anche l'articolo del 2012 che ho messo in calce al presente).
Un evento postulato per spiegare le particolari caratteristiche geologiche della Luna (assenza di un nucleo metallico, composizione simile al mantello terrestre, assenza di parti volatili, etc) che la rendono una sorta di "estratto" del mantello terrestre volato in orbita 

Tra le più recenti simulazioni fatte con i supercomputer la seguente mostra come il tempo trascorso tra la collisione e la formazione della Luna sia stato di poche ore 

Nuovi dati a supporto dello scontro tra pianeti vengono ora dall'interno della Terra, nello specifico da alcune particolarità di alcune parti del mantello fino ad ora di difficile interpretazione.
Queste "macchie" (formazioni rocciose) rilevate grazie alla studio della propagazione delle onde sismiche (qui più lente), sono lunghe migliaia di chilometri e leggermente più dense dell’ambiente circostante, dato che suggerisce essere costituite da materiale diverso rispetto al resto del mantello.
L'analisi dei modelli al computer suggerisce che una certa quantità di materia proveniente da Theia sia rimasta incastrata nella metà inferiore del mantello terrestre,

L'idea di partenza è che un impatto di tale portata nell'infanzia de nostro pianeta avrebbe dovuto lasciare una qualche traccia e che la stranezza di alcune regioni del mantello potesse essere una vestigia. Ipotesi poi messa alla prova con simulazioni al computer.
La simulazione al computer del rimescolamento del mantello dopo l'impatto
(credit: Nature)

L’energia dello scontro planetario avrebbe parzialmente sciolto il mantello terrestre, formando due strati: una parte superiore fusa e una parte inferiore prevalentemente solida. Lo strato superiore fuso si sarebbe mischiato con quello "alieno" mentre altro materiale proveniente da Theia sarebbe affondato attraverso la parte fusa del mantello depositandosi nello strato inferiore. Nel frattempo parte del materiale sarebbe finito in orbita per originare la Luna.

Fonte
Moon-forming impactor as a source of Earth’s basal mantle anomalies
Qian Yuan et al, (2023) Nature

Se penso alla Luna non posso non associarla alla serie TV cult della mia infanzia "Spazio 1999"
xxx

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Articolo del 2012, parte della Lectio Magistralis di un noto astrofisico ospite alla Milanesiana.

(di ERIC M. GALIMOV)
L’origine e l’evoluzione della vita e l’origine del sistema Terra-Luna sono tra i più ardui problemi scientifici, poiché è difficile sottoporli a uno studio sperimentale, e la loro analisi teorica è ambigua: troppi i fattori coinvolti e alcuni di essi non sono noti (…). Il paradigma dell’origine del sistema formato dalla Terra e dalla Luna è la teoria del mega impatto. Essa ipotizza una catastrofica collisione di due vasti corpi planetari nella storia iniziale del sistema solare. Il risultato fu che la Terra e la Luna ne emersero come corpi magmatici completamente fusi (…).
 
L’ipotesi del mega impatto fu avanzata alla metà degli anni Settanta da due team di scienziati americani. Secondo la loro tesi, la Luna si formò con l’addensamento del materiale fuso espulso nell’orbita circumterrestre in seguito alla collisione della proto-Terra con un altro corpo planetario delle dimensioni di Marte.
Il problema cruciale che si trovano ad affrontare gli scienziati impegnati sull’origine della Luna consiste nella domanda: perché la massa lunare è carente di ferro rispetto alla massa terrestre? Il contenuto di ferro della Terra è del 33,5%, mentre quello della Luna è in una percentuale compresa tra il 10% e il 15%. L’ipotesi del mega impatto fornì una semplice risposta: la collisione da cui nacque la Luna si verificò nel momento in cui la Terra aveva già attraversato il processo di differenziazione e gran parte del ferro si era concentrato nel suo nucleo metallico, e la Luna si formò dal mantello terrestre, carente di ferro.
Un più dettagliato studio al computer della dinamica del mega impatto compiuto all’inizio del Duemila mostrò che il materiale fuso espulso in un’orbita circumterrestre proveniva non tanto dal mantello terrestre ma soprattutto, almeno per l’80%, dal corpo impattante. Poiché l’origine e la composizione chimica del corpo impattante sono sconosciute, ciò privava la teoria dell’impatto di argomenti geochimici. Inoltre, la derivazione della Luna dal corpo estraneo alla Terra rende le affinità tra la Terra e la Luna, come la somiglianza nel frazionamento isotopico, argomenti contrari all’ipotesi del mega impatto (…) 
Un modello alternativo (…) la Luna non si è formata in seguito a una collisione catastrofica, ma tramite la frammentazione di un immenso addensamento di particelle gassose (…). La contrazione di questo addensamento gravitazionale conduce all’aumento della temperatura al suo interno con una conseguente parziale evaporazione delle particelle e dei corpi solidi da cui è formata  (…) conduce alla formazione di due corpi condensati, embrioni della Terra e della Luna. Entrambi sono poveri di ferro ed elementi volatili e ricchi di elementi refrattari.
L’ipotesi proposta sembra quindi piuttosto convincente. Soddisfa i principali requisiti: povertà di ferro sulla Luna, identità isotopica tra Terra e Luna, ricchezza di elementi refrattari sulla Luna e scarsezza di elementi volatili. Supera le principali difficoltà della teoria del mega impatto. Nonostante ciò, la teoria del mega impatto continua a dominare la letteratura scientifica (…). La nuova concezione è incompatibile con la teoria oggi accettata sulla formazione dei pianeti del sistema solare. Il paradigma dice che i pianeti si formarono tramite collisione dei corpi solidi, i planetesimi. Si ritiene che i planetesimi siano cresciuti da qualche metro a centinaia di chilometri. La formazione della Luna dovuta a un mega impatto è coerente con la teoria standard della formazione dei pianeti. A differenza della teoria standard, la nuova concezione ipotizza che la formazione di corpi planetari possa verificarsi da uno stato disperso. Ma questa supposizione non dimostrata rende discutibile l’ipotesi. Dovremmo quindi riconoscere che la nuova concezione, nonostante i suoi vantaggi, non può essere accolta per via della sua parziale imperfezione.



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Tra i recenti contributi allo studio della nascita della Luna, l'articolo pubblicato sulla rivista Science a marzo 2015. L'approccio usato dagli astronomi della NASA è stato indiretto e basato sul fatto che dopo l'impatto della Terra con un pianeta delle dimensioni di Marte sarebbero stati scagliati nello spazio una miriade di frammenti di dimensione intorno al chilometro, parte dei quali sarebbero stati catturati dalla fascia di asteroidi sita tra Marte e Giove. Molti di questi frammenti, fusi con quelli preesistenti, sarebberon poi precipitati nel corso dei miliardi di anni successivi sulla Terra. Lo studio delle caratteristiche di queste rocce ha permesso di datare l'origine della Luna in 4,47 miliardi di anni fa. Un valore simile a quello ottenuto con altri metodi e che quindi ne è la conferma.  
Fonte
W. F. Bottke et al, Science 17 April 2015 

La vita sulla Terra potrebbe essersi formata su isole e non nei camini idrotermali oceanici

*** Aggiornamento Gennaio 2023***
Il biochimica Nick Lane e la teoria che si sia evoluto prima il metabolismo e POI siano comparse le cellule.
Per quanto strana questa teoria ha un senso e si sostanzia sulla esistenza in natura di luoghi in cui esistono gradienti elettrochimici (in grado di generare flusso di elettroni e quindi energia) proprio in corrispondenza dei camini termici (sia quelli sul fondo oceanico che nelle sorgenti termali ad acqua dolce). La presenza di rocce porose forma dei divisori temporanei che rende possibile un gradiente in grado di fornire l'energia a processi anche estremamente energivori come la sintesi peptidica. In questi ambienti avrebbe potuto evolversi per mera selezione di un processo chimico, una protocellula consistente solo in un divisore artificiale (membrana lipidica) in cui mantenere e sfruttare questo gradiente; un processo poi "fissato" con la comparsa della "memoria informativa" sotto forma di DNA o RNA.
Vi rimando in tal senso ad una intervista a Nick Lane pubblicata su Quanta Magazine e, per approfondimenti, al suo bel libro






*** Gennaio 2021***
La vita sulla Terra potrebbe essersi formata su isole e non nei camini idrotermali oceanici 
La vita sulla Terra potrebbe essersi evoluta in pozze d'acqua calda su isole che punteggiavano l'immenso oceano che allora ricopriva il pianeta.

Image credit:  Michael S. Helfenbein via news.yale.edu

Le tracce più antiche della presenza di vita sulla Terra sono datate 3,5 miliardi di anni (le stromatoliti in Australia), solo un miliardo di anni dopo la formazione del pianeta.
Vedi anche il precedente articolo "alle Ebridi il fossile più antico"
Ci sono invero altre tracce che potrebbero spostare le lancette a 3,7 miliardi o a 3,95 miliardi di anni ma si discute ancora se queste siano veramente di origine biologica.
Chiaramente non si parla di resti fossili macroscopici come li intendiamo comunemente ma del risultato dell'azione di organismi microscopici sull'ambiente circostante (per altri esempi vedi veri fossili o no?).

Una migliore datazione dei primi veri reperti di origine biologica è importante anche per meglio comprendere in quali condizioni si sia passati dalla fase prebiotica (reazioni di replicazione di acidi nucleici in micro nicchie) alla comparsa di cellule, che altro non sono che ambienti delimitanti la sede delle reazioni chimiche e del patrimonio genetico. 

Le teorie sull'origine della vita (scientifiche, quindi divinità e UFO esclusi) sono varie (qui un elenco) ma hanno tutte un punto centrale da risolvere. 
La vita - almeno per come noi la conosciamo, quindi quella terrestre - richiede la formazione e l'assemblaggio di molecole elementari di base (amminoacidi e nucleotidi) per formare molecole complesse come proteine, RNA e DNA. Questa transizione dagli elementi costitutivi alle lunghe catene molecolari è nota come polimerizzazione e richiede che si verifichino temperature e condizioni specifiche.
La teoria (finora) più accettata postula che le prime forme di vita microbiche siano comparse nei pressi dei camini idrotermali posti sulle dorsali oceaniche, dove le condizioni chimiche e di temperatura potrebbero fornire il giusto mix affinché avvengano le reazioni chimiche per una prima polimerizzazione (il tema è discusso in modo approfondito in una review del 2008 su Nature Reviews Microbiology).
Altri scienziati obiettano che questi "sfiatatoi" emettono troppo calore perché il processo di polimerizzazione sia efficace; inoltre l'ambiente oceanico non sarebbe ideale allo scopo. Come alternativa propongono aree ai bordi di stagni poco profondi, riscaldati dall'energia geotermica.
Il problema principale per quest'ultima teoria è che, affinché l'ipotesi di "una pozza d'acqua calda" sussista è necessaria la presenza di terre emerse. Un dettaglio non di poco conto visto il consensus di una Terra primordiale come un vero e proprio waterworld
Il primo continente, Kenorland, risale infatti a 2,4 miliardi di anni fa
Image credit: Ilya Bindeman via dailymail 
(per approfondimenti vi segnalo l'articolo Hadean Earth and primordial continents: The cradle of prebiotic life)


Una ipotesi rimasta nel limbo delle possibilità remote, almeno fino alla recente pubblicazione (4 gennaio 2020) sulla rivista Nature Geoscience di uno studio che giustifica la presenza di isole nell'era archeana, il periodo tra 2,5 e 4 miliardi di anni fa.


L'idea alla base dello studio nacque quando il chimico Jeffrey Bada, sostenitore dell'ipotesi dello stagno caldo, decise di contattare i geofisici Jun Korenaga e Juan Carlos Rosas per capire cosa si sapesse (o fosse ipotizzabile) della topografia della Terra nell'era archeana e in particolare quanto fosse verosimile l'esistenza di terre emerse.

A tale scopo decisero di sviluppare al computer un modello delle condizioni della Terra arcaica con cui fare simulazioni e calcolare le diverse possibilità.

Oggi noi tutti sappiamo che è sui fondali oceanici, in particolare dalle dorsali medio-oceaniche (in tutto uguali a catene montuose), che emerge il materiale originato dal mantello che darà luogo ai nuovi fondali spostando a lato i vecchi fino a farli collidere tra loro; da questo scontro emergeranno nuove terre emerse, montagne e, nei punti di subduzione, i vulcani  (vedi la cosiddetta cintura del fuoco che delimita l'oceano Pacifico). 
Man mano che questa nuova crosta terrestre cola ai lati delle fenditure e si allontana dalla dorsale, si raffredda e si contrae, diventando più densa e diminuendo in altezza. La Terra ha però una ulteriore fonte di calore interno, il riscaldamento radiogeno generato dal decadimento degli elementi radioattivi nel mantello profondo. Questo calore aggiuntivo genera una pressione verso l'esterno che, anche in assenza di fenomeni vulcanici, contribuisce alla comparsa e al mantenimento dei rilievi nella parte esterna della crosta.

Durante l'era archeana la Terra era notevolmente più giovane e di conseguenza il calore radiogeno era più forte. Ciò significa che anche quando la crosta oceanica si raffreddava e si contraeva, la spinta verso l'alto dal mantello sottostante era tale che avrebbe potuto portare all'emersione di montagne sottomarine. Queste ultime, a differenza della dorsale, tendono ad essere circolari perché la spinta dal basso tende a focalizzarsi in aree in cui la crosta terrestre è meno spessa: immaginiamo le "dita del mantello che riescono a spingere punti sulla superficie" così da formare isole quasi perfettamente circolari.
Risultato finale la comparsa di isole in un pianeta ancora privo di continenti.

Lo studio di per sé non fornisce risconti alla ipotesi "vita sulla Terra in pozze calde" ma è un importante tassello di fattibilità prima mancante.
Sarà interessante ora attendere lo sviluppo dello studio portato avanti dai geochimici per quantificare l'effetto che tali isole avrebbero avuto nella formazione di un "brodo primordiale" adatto alle reazioni chimiche di un mondo pre-cellula.



Una interessante panoramica della evoluzione della Terra è fornita nel seguente video
Se non vedi il video clicca -->youtube.




L'Ediacarano, il periodo che preparò il terreno alla Esplosione Cambriana

Il periodo Ediacarano è geologicamente (e temporalmente) collocabile all'interno del precambriano, in un intervallo di tempo tra 635 a 540 milioni di anni fa. Segna la fine dell'eone Proterozoico e l'inizio del Fanerozoico, a cui appartiene anche l'epoca in corso.
Il tempo geologico è diviso in quattro eoni che segnano i principali cambiamenti geologici nella storia della Terra dal momento della sua formazione 4,5 miliardi di anni fa. Questi sono ulteriormente divisi in ere, periodi, epoche, (...) in base ad intervalli temporali via via più piccoli. 
Image Credit: Ray Troll
Ciò che rende interessante l'Ediacarano è il suo coincidere con la comparsa di forme di vita complesse, e macroscopiche, un vero e proprio spartiacque evolutivo che, arrivati al Cambriano, sarebbe esploso con una diversificazione biologica senza precedenti (da cui il termine esplosione cambriana)
Gli organismi allora presenti, il "biota ediacarano", ci appaiono oggi veramente strani, ancora più di quelli osservati durante l'esplosione cambriana, tanto da rendere a volte difficile classificarne i fossili.
I fossili dell'epoca ci sono arrivati come "negativi", cioè come impronte sui sedimenti di arenaria, lasciati dai resti dilavati dal tempo.
La scoperta di resti fossili risalenti a quest'epoca fu per molti scienziati una sorpresa, dato che nessuno si aspettava di trovare reperti così antichi. Il motivo è che le rocce più antiche sono state sottoposte a profondi rimaneggiamenti (alte temperature, pressione, ...) causati dallo rimodernamento della crosta terrestre.
Un calcolo rende meglio l'idea di tante parole. Ipotizzando che si fossero "depositati" allora i resti dell'intera  popolazione USA (330M), sarebbero giunti fino a noi una cinquantina di ossa in totale.
Tuttavia il "miracolo" si è verificato, con il rinvenimento di fossili di animali, alghe e batteri in rocce risalenti all'Ediacarano distribuite in varie località del mondo, in particolare alcune colline australiane (da cui deriva il nome del periodo geologico), l'isola di Terranova in Canada, la Namibia e il Mar Bianco in Russia.

Dallo studio di queste rocce, i geologi sono riusciti a ricostruire gli eventi di questa particolare epoca  nella storia della Terra. Caratteristica principale dell'epoca è la "rapida" (su tempi geologici) ritirata dei ghiacciai e delle calotte glaciali che, dall'epoca della Snowball Earth (periodo criogeniano) avevano ricoperto quasi tutto il pianeta, portandolo la vita ad un concreto rischio di estinzione.
Le analisi sembrano anche indicare che in questo periodo si sia verificato un rapido incremento del livello di ossigeno atmosferico (evento da non confondere con "il grande evento ossidativo" o catastrofe dell'ossigeno, verificatasi all'inizio del Proterozoico, 2,45 miliardi di anni fa che portò alla decimazione degli organismi anaerobi).
Secondo alcuni studiosi questo incremento sarebbe osservabile dal calo degli isotopi di carbonio nei sedimenti marini dell'epoca a causa della maggiore ossidazione delle acque oceaniche.
L'Ediacarano è stato anche caratterizzato da una rilevante attività tettonica che portò alla formazione di un supercontinente, Pannotia, posizionato vicino al polo sud, che rimase tale fino a circa 550 milioni di anni fa, quando iniziò a frammentarsi. 

I fossili rinvenuti nelle rocce di questo periodo sono la testimonianza di forme di vita pluricellulare complessa, in cui si osserva specializzazione cellulare all'interno di un organismo.
I primi organismi pluricellulari furono verosimilmente le spugne il cui reperto più antico è datato intorno a 600 milioni di anni fa. 
credit: Johns Hopkins newsletter

Una varietà di forme che rivaleggia e forse supera per stranezza quella osservata nel Cambriano (il cui esempio classico è la Hallucigenia), di cui ho trattato in un precedente articolo
Articolo --> "L'esplosione cambriana..."

Ad indicare l'importanza della vita nell'Ediacarano basti dire che qui, in un mondo di "esseri gelatinosi", compaiono i precursori delle strutture scheletriche.


Di seguito alcuni degli organismi pluricellulari che popolavano le basse acque costiere dove gran parte della vita si concentrava (siamo ancora lontani dalla colonizzazione della terraferma i cui fossili più antichi, piante, risalgono a circa 420 milioni di anni fa, preceduti 100 milioni di anni prima da microbi, alghe e funghi).

Tra gli organismi più enigmatici del periodo spicca il "negativo" dell'impronta del suo corpo. Ricorda i moderni echinodermi che forse potrebbero essere lontani parenti. I dubbi classificatori vengono dall'ignorare come fosse la sua struttura interna.
Dimensioni reali tra 3 e 10 mm.
Image credit: Domenic Pennetta/Wikimedia Commons

È così strano che ad oggi i paleontologi non sanno come rapportarlo con i successivi organismi viventi. 
Per comodità è stato catalogato come membro di una categoria estinta, creata ad hoc, dal nome trilobozoa.
Credit: Aleksey Nagovitsyn/Wikimedia Commons
Credit: Apokryltaros/Wikimedia Commons
Dotato di una curiosa (e unica) simmetria tri-radiale (da cui il nome del gruppo), si ipotizza avessero forma emisferica.
La parte centrale del fossile ha tre creste, o braccia, agganciate e i suoi lobi sono attorcigliati.
La dimensione dei reperti varia tra 3 e 40 mm.


Enigmatico organismo fossile che richiama l'immagine di una piuma grande poco più di 3 cm.
Credit: Verisimilus/Wikimedia Commons
Credit: Matteo De Stefano/MUSEQ
Tra le caratteristiche più importanti, una simmetria bilaterale e quella che, sembra, una parte anteriore corazzata e una parte inferiore coperta da due serie di placche strettamente interconnesse. Per alcuni studiosi ha le caratteristiche di un predatore. La forma potrebbe richiamare alla lontana quella delle trilobiti ma è molto probabile che si tratti di un caso di evoluzione convergente. Altri lo ritengono un antenato degli anellidi.

Doveva essere molto abbondate visto che è stato trovato in tutte le formazioni rocciose risalenti all'Ediacarano. Anche in questo caso è un famiglia estinta di cui non è certa la parentela (sempre che esista) con gli organismi vissuti in seguito.
Credit: Verismilus/Wikimedia Commons
Image: Dotted Zebra via hakaimagazine
I fossili hanno tutti forme ovali bilateralmente simmetriche, a coste, ma oltre a questo è difficile desumere altre informazioni strutturali. Ad aggiungere complessità l'ampia banda di dimensioni dei fossili che vanno dal millimetro fino a 1,4 metri, e uno spessore nell'ordine dei millimetri.
La confusione in merito è tale che secondo alcuni era imparentato con i funghi mentre altri pensano ad un regno oggi non più esistente. La presenza di molecole di colesterolo nei fossili fa propendere però per il regno animale in una delle sue prime ramificazioni.

Altro esempio di organismi con simmetria bilaterale ma da molto estinti, inizialmente associato alle lumache marine. La presenza dei fossili in prossimità di rocce con graffi ha fatto pensare che siano il risultato della attività masticatoria della bocca che ne "puliva" la superficie rocciosa assorbendo i microorganismi.
Credit: Verismilus/Wikimedia Commons
Credit: Nobu Tamura/Wikimedia Commons
Si tratta di un organismo chiave (da cui l'importanza di riuscire a classificarlo) per meglio comprendere gli organismi comparsi durante l'esplosione cambriana. Qualora fosse stato un proto-mollusco (dotato quindi di un protosoma) questo sarebbe l'indicazione che le linee dei protostomi e dei deuterostomi si siano separate prima di 555 milioni di anni fa.
La distinzione tra questi due linee evolutive si basa su quale apertura dell'organismo dell'animale si forma prima durante lo sviluppo, la bocca (protostoma) o l'ano (deuterostoma).
Tra i primi organismi complessi del precambriano, è caratterizzato da esasimmetria radiale che richiama più una pianta come le felci che un animale (per alcune caratteristiche richiama la forma delle penne di mare, cioè al Phylum degli Cnidari).
Credit: Retallack/Wikimedia Commons
Credit: avancna

Vivevano in ambienti simili ai rangeiformi di cui sopra, e si pensa che trascorressero la vita stando  parzialmente sommersi nei fondali sabbiosi come gli attuali filtratori (sebbene non siano rimaste tracce di sue appendici filtranti)
Non si conoscono "parenti" tra gli organismi oggi viventi ma potrebbe essere lontanamente correlato ai coralli.
Ernietta plateauensis.
Credit: Wikimedia Commons

Francobollo della Namibia che celebra il suo reperto fossile e mostra come doveva apparire in vita.


***


Non per tutti i palati ma una "divertente" cavalcata nella notte dei tempi


Lo studio dei batteri nel Rio Tinto ci porta fino a Marte

Microbi terrestri estremofili utili (forse) per spiegare rocce marziane
Alla foce del Rio Tinto, nel sud-ovest della Spagna, l'acqua acida del fiume - tale sia per condizioni naturali che in quanto inquinata da residui di metalli pesanti derivanti dall'estrazione di minerali - si mescola con l'acqua salata dell'Oceano Atlantico.
Il Rio Tinto (image credit: mybestplace.com)
In queste condizioni uniche trovano casa e condizioni ideali dei microorganismi genericamente catalogati come estremofili: prosperano in condizioni di acidità pari a quelle dell’aceto, sono resistenti all'elevata salinità e alcuni di questi sfruttano anche gli alti livelli di metalli, tossici per ogni altro organismo. Questo mix biologico, noto come biocenosi è stato descritto in un recente articolo sulla rivista Applied and Environmental Microbiology, in cui i ricercatori hanno investigato la fonte di energia chimica usata da questi microrganismi, e il loro impatto sui metalli pesanti che arrivano all'estuario del Rio Tinto.

Il Rio Tinto deve il nome alla sua colorazione che in alcuni punti del breve (circa 100 km) percorso raggiunge tonalità da arancione a rosso sangue. 
L’inquinamento qui iniziò molto presto, circa 5.000 anni fa (periodo Calcolitico o età del rame), a causa dell’estrazione mineraria  in quella che oggi è nota come cintura di pirite iberica, un’area ricca di oro, argento, rame, stagno, piombo e ferro (sotto forma di solfuro di ferro). Durante l'estrazione del minerale, il solfuro di ferro entra in contatto l'ossigeno atmosferico e permette ad alcuni microrganismi di ricavare energia ossidando ferro e zolfo. Da qui la formazione di acqua con colore rosso sangue, la cui estrema acidità a cascata favorisce la solubilizzazione dalle rocce circostanti di metalli tossici come manganese, cobalto, nichel e cadmio, dilavandoli poi verso l’estuario.
Durante il processo di ossidazione del ferro, parte di questo si deposita, insieme ad altri minerali, sulla parete cellulare batterica. Quando questi aggregati bio-minerali (cellule e minerali) arrivano all’estuario, l'elevata concentrazione di cloruro dell’acqua marina uccide buona parte dei microbi responsabili di tale trasformazione, il cui posto è presto preso da altri batteri ferro-ossidanti la cui azione provoca la formazione dei minerali di ferro presenti nell’estuario favorendo la precipitazione dei metalli tossici come arsenico e cromo. Alcuni di questi minerali sono infine trasportati al mare vero e proprio.

I batteri che ossidano il ferro nel Rio Tinto sono i veri “produttori” di minerali colorati come goethite, ematite rossa, schwertmannite e jarosite, che abbondano nei sedimenti del fiume. 
Una nota curiosa (e di potenziale interesse in ambito esobiologia tanto da attrarre studiosi nella zona) è che questi stessi minerali sono stati scoperti su Marte dal rover Curiosity, in sedimenti presenti nel cratere Gale.
Il cratere Gale e il punto di atterraggio di Curiosity (credit: NASA)
L’ipotesi formulata è che tali minerali si siano formati in un periodo tra 4,1 e 3,7 miliardi di anni fa grazie a microrganismi simili a quelli presenti nel Rio Tinto, che vivevano in un sistema fluviale (allora molto abbondante).

Per ulteriori letture sul possibile sistema biologico esistito su Marte vi rimando all'articolo da cui è tratta la seguente figura.
Credit: Front. Microbiol.(2018) 



Fonte
- Biogeochemical Niches of Fe-Cycling Communities Influencing Heavy Metal Transport along the Rio Tinto, Spain
Sergey M. Abramov et al, (2022) Applied and Environmental Microbiology


Marte. Un destino senz'acqua scritto nel suo "DNA"

Aggiornato 19/2/2022

Fin dagli albori delle osservazioni "ravvicinate" di Marte con i primi telescopi, l'essere umano ha cominciato a fantasticare sulla presenza di acqua nel pianeta arrivando a "vedere" (con Schiapparelli) una vera e propria rete di canali che ne solcavano la superficie. Un errore "umano" dovuto alla scarsa risoluzione degli strumenti e al "volere vedere" i canali (vedi in tal senso l'articolo sulla pareidolia e la nota a fondo pagina).

Esemplare in tal senso il paragone tra le immagini prese dalla sonda Viking 1 che "mostrava" un monte con una faccia (zona di Cydonia Mense) e la stessa area vista infine dal Mars Global Surveyor's (per maggiori dettagli vedi il sito della NASA). 

Con il progresso tecnologico sono iniziate le vere e proprie missioni in loco, prima con lo sguardo dall'alto (le sonde Mariner degli anni '70) e infine con una pattuglia di rover che scandagliano la superficie marziana da una decina di anni (vedi l'articolo sul rover Opportunity). Nel frattempo si sono accumulate le conoscenze sulla geologia e la struttura interna di Marte, una massa di informazioni che ha permesso di teorizzare nel passato del pianeta la presenza di ampi oceani che ricoprivano in buona parte l'emisfero settentrionale; oggi l'acqua permane nelle calotte polari e si evince in altre aree dalla comparsa di canaloni stagionali.

I canali stagionali di Marte. L'immagine è una GIF per cui dovreste vederla "animata". In caso di problemi cliccate sul link originale --> qui (credit: NASA/JPL/Caltech)

Si è però anche avuta la conferma che il pianeta aveva perso il suo campo magnetico (troppo piccolo per mantenere un nucleo "attivo" come lo hanno Terra e Venere) e con esso lo schermo dai venti solari che, inesorabili, hanno spazzato con il tempo gran parte dell'atmosfera, favorendo così anche l'evaporazione dell'acqua. Sebbene pertinente questa considerazione ha un punto debole che viene da Venere; il pianeta pur non avendo un campo magnetico ed esposto ad un vento solare nettamente più forte di quello che colpisce Marte, è dotata di una atmosfera molto densa. Questo dato implica che la magnetosfera è solo uno degli elementi che determina il destino dell'atmosfera planetaria (gli studiosi quantificano l'effetto in un 30%). 

Uno studio pubblicato nel 2022 che descrivo alla fine dell'articolo fornisce una spiegazione sul perché il moto convettivo si sia spento e con esso il campo magnetico.

Vedi in merito l'articolo precedente sulla relazione massa planetaria e capacità di trattenere gas atmosferici e in rete la descrizione della Jeans escape e un bel sito con un poco di matematica facile attinente all'atmospheric leakage.

Il tassello (definitivo?) sulla ineluttabile aridità del pianeta (predestinato dalla nascita pur in presenza di una "infanzia" acquatica) viene da uno studio di qualche anno fa che indicava nella geologia del pianeta, nello specifico nei basalti, il vero vulnus causale della scomparsa degli oceani.

Affrontiamo il problema acqua in modo pragmatico, con una domanda semplice: dove è finita l'acqua?
La prima teoria formulata (vedi sopra) è che questa sia andata persa nello spazio quando i cambiamenti nelle profondità interne di Marte causarono il collasso del suo campo magnetico. Ciò permise alle particelle ad alta energia e ai campi magnetici del vento solare di colpire, spazzandola, l'alta atmosfera del pianeta; con il crollo della pressione atmosferica (oggi poco meno dell'1% di quella terrestre) anche il "pesante" vapore acqueo si sarebbe perso con il tempo. Questa teoria ha solide fondamenta teoriche ma anche un punto debole: nell'infanzia marziana, si stima fossero presenti tra 20 e 200 milioni di chilometri cubi di acqua, il 10% degli oceani terrestri attuali (1,3 miliardi di chilometri cubi) ma pur sempre un volume importante, soprattutto data la minore dimensione del pianeta.


Video della NASA in cui si ricostruiscono gli antichi oceani marziani (--> video nella forma estesa)

Cominciamo a semplificare il problema con un assunto semplice. L'acqua scomparsa può avere preso solo due direzioni: su (verso lo spazio) o giù (nel sottosuolo).

I dati ottenuti dal MAVEN - Mars Atmosphere and Volatile Evolution (missione di esplorazione spaziale della NASA, parte del Programma Mars Scout, con satellite in orbita dal 2014) indicano che la velocità di evaporazione verso lo spazio non si accorda alle tracce geologiche (ad esempio nell'erosione) che indicano una perdita molto più veloce. Deve quindi esserci stato un contributo complementare, decisivo per la scomparsa dell'acqua. 

Sebbene alcune teorie ipotizzino che gran parte dell'acqua mancante sia intrappolata nel permafrost del suolo marziano (secondo alcuni ci sarebbero laghi sotto le calotte polari), una teoria proposta nel 2017 in un articolo pubblicato sulla rivista Nature, prevede che gli oceani siano stati letteralmente "succhiati" verso l'interno dalla particolare chimica dei basalti posti sul fondale oceanico.

La chiave di volta per comprendere questa teoria è nella composizione del mantello del pianeta (da cui origina il magma), ricco di ferro. Quando Marte era ancora vulcanicamente attivo (si ipotizza che l'ultima eruzione sia avvenuta un centinaio di milioni di anni fa) l'incontro tra la lava ricca di ferro e l'acqua superficiale avrebbe favorito alcune reazioni chimiche di per sé non molto diverse da quelle  terrestri. Ma il basalto marziano (dati confermati dai rover che scandagliano la superficie di Marte) avrebbe il doppio del ferro rispetto a quello terrestre con il risultato della formazione di rocce idrate  ricche di ferro. Secondo i calcoli degli autori dello studio, supponendo una certa efficienza nella reazione acqua-rocce, diventa reale la possibilità che un oceano profondo 3 km ricoprente l'intera superficie marziana (ipotesi estrema visto che ricopriva solo una parte) possa essere  stato "catturato" dalle rocce basaltiche, nei tempi previsti.

Con il tempo le colate laviche avrebbero seppellito le precedenti, spostandole sempre più verso l'interno dove sarebbero state nuovamente fuse. Un processo simile a quello che avviene sulla Terra ma con una differenza. Mentre da noi questa nuova amalgama genera magma arricchito di acqua che dalla litosfera torna verso la superficie, la diversa chimica delle rocce marziane avrebbe favorito il processo inverso cioè un ulteriore perfusione dell'acqua verso il basso fino a raggiungere il mantello da cui non poteva più riemergere.
Di conseguenza Marte sarebbe stata condannata fin dalla sua "culla" ad un futuro privo di acqua.

Il risultato sottolinea come la chimica delle rocce abbia ancora più importanza del previsto. Sono sufficienti piccole variazioni (su scala planetaria), come la quantità di ferro, perché si abbia un effetto sproporzionato nel decidere il destino di un pianeta del tipo se la superficie del pianeta potrà trattenere l'acqua per un periodo di tempo sufficiente al "tiro di dadi" che prima attiva la scintilla biotica e poi consente lo sviluppo di organismi pluricellulari.

L'interno di Marte in un 1' (video credit: NASA/JPL)

La scoperta non ha solo valenza per la comprensione dell'evoluzione del nostro vicino planetario ma fornisce informazioni utili allo studio degli esopianeti, in particolare nella predizione di quali siano i candidati migliori per ospitare la vita. Non basta trovarne uno alla giusta distanza dalla giusta stella, delle giuste dimensioni e atmosfera, e con tettonica attiva. Deve avere una composizione particolare del mantello affinché sia capace di mantenere per un tempo "sufficiente alla vita" le risorse chimiche (acqua, etc) presenti sulla superficie.

Ultima in ordine di tempo la recentissima osservazione (articolo pubblicato su Science 2 settimane fa) in cui i ricercatori evidenziano come un ulteriore contributo alla perdita di acqua (tuttora in atto) viene dalle stagionali tempeste di sabbia, talmente estese ed impetuose che possono trasportare le polveri fino a 100 km di altezza e con essa il vapor acqueo, facilitando così la sua perdita nello spazio (vedi "Martian dust storms parch the planet by driving water into space"). 


Perché Marte perse il suo campo magnetico
Un recente studio pubblicato su Nature Communications ("Stratification in planetary cores by liquid immiscibility in Fe-S-H") cerca di rispondere a questa domanda.
Partiamo dalla Terra dove il campo magnetico è dovuto alle correnti convettive dovuto ad un nucleo interno  composto da una zona "solida" e da una parte più esterna liquida a cui la trasmissione del calore innesca i movimenti convettivi secondo schemi generati dalla somma di rotazione del pianeta ed effetto Coriolis.
Nota. La magnetosfera terrestre non è in realtà sferica in quanto il vento solare la "modella" dandogli una forma asimmetrica. 
 Image Credit: NASA
Si suppone che sugli altri pianeti la magnetosfera (quando presente) debba avere una origine simile. Nel caso di Marte la comprensione è limitata dall'avere poche informazioni sulla sua composizione interna; i dati ottenuti dall'analisi dei meteoriti suggeriscono che il suo nucleo sia ferro fuso arricchito di zolfo. Dati più recenti ottenuti grazie all'analisi delle onde sismiche marziane rilevate dalla sonda InSIGHT, ci dicono che il nucleo marziano è in realtà più grande e meno denso di quanto finora ipotizzato. Un dato che implica la presenza nel nucleo di elementi leggeri come l'idrogeno.
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 Image Credit: By Andrew Z. Colvin via universetoday.com

Una tale correzione nella composizione ha permesso di rifare esperimenti di simulazione sulla Terra con i quali cercare di capire perché il campo magnetico del pianeta si è spento. Esperimenti necessari perché i precedenti mancavano proprio della presenza dell'idrogeno.
Le teorie sulla genesi planetaria ipotizzano che l'acqua sia stata inglobata in modo analogo sulla Terra e su Marte durante la fase di accrescimento, per cui anche l'idrogeno dovrebbe farne parte. Nonostante la sua importanza teorica, finora il sistema Fe-S-H è stato meno studiato rispetto al sistema Fe-S alle alte pressioni.
I ricercatori hanno preparato un campione di materiale che riproducesse quello che compone il nucleo di Marte (ferro, zolfo e idrogeno) posizionandolo all'interno di un dispositivo noto come Diamond Anvil Cell (DAC). In poche parole il campione in studio viene compresso tra due piccole piastre diamantate (il motivo è che i diamanti resistono a pressioni estreme, simili a quelle che li hanno generati all'interno della Terra.
Il DAC può sottoporre campioni microscopici a pressioni di centinaia di gigapascal, con in più il riscaldamento effettuato da un laser in modo da similare le condizioni del nucleo marziano. In queste condizioni, il campione è stato analizzato ai raggi X e con elettroni per monitorare cosa succedeva al materiale in queste condizioni. Hanno così osservato che il campione Fe-S-H non solo si scioglieva ma cambiava di composizione che determinava la sua immiscibilità. 
Da qui l'idea che l'immiscibilità di Fe-S-H ad alte temperature e pressioni ha svolto un ruolo significativo nella storia planetaria marziana.
Vediamo un poco più in dettaglio che cosa significa. Il Fe-S-H, inizialmente omogeneo, una volta sottoposto alle precedenti condizioni si separa in due liquidi distinti. Uno dei liquidi era ferro arricchito di zolfo mentre l'altro era arricchito di idrogeno. In queste condizioni, nel nucleo marziano il liquido più denso sarebbe rimasto confinato nella parte più profonda, mentre quello leggero verso l'esterno. Questo in condizioni normali avrebbe generato le correnti convettive, ma in questo caso si è dedotto che nel punto di separazione tra i due si è avuta una stratificazione stabile che ha "spento" ogni possibilità di corrente convettiva. Senza convezione anche la magnetosfera viene meno e cascata inizia il fenomeno di perdita atmosferica di cui si è detto in presenza.
 Image Credit: Yokoo et al. 202 via universetoday.com

Si sapeva già che la convezione su Marte era cessata circa 4 miliardi di anni fa; oggi si capisce anche perché e ancora di più che il destino di pianeta "morte" fosse scritto nel suo "DNA" cioè nella sua composizione.


Fonti
- Dust storms on Mars propel water's escape to space
Science (nov. 2020)
- The divergent fates of primitive hydrospheric water on Earth and Mars
Jon Wade et al, Nature volume 552, pages391–394(2017)
- Is Mars still volcanically active? New study says maybe
earthsky.org
- The mystery of Mars’ interior
seis-insight.eu 
- Stratification in planetary cores by liquid immiscibility in Fe-S-H
S. Yokoo et al, Nature Communications 13: 644 (2022)


***

Nota. I canali marziani descritti da Schiapparelli (per come vennero percepiti dal grande pubblico) furono il frutto di un doppia coincidenza. In primis la risoluzione dei telescopi permetteva di avere una vaga idea della superficie del pianeta e questo portò ad errori interpretativi di cui quello mostrato ad inizio pagina è solo un esempio recente. Il cervello riempie le informazioni mancanti in modo che per lui abbia senso (oltre all'articolo sopra citato - C'è chi vede la faccia di Elvis in un toast - ne ho scritto anche in "... chi vede gli occhi su un pallone").

Il secondo errore è da attribuire ad un astronomo americano Percival Lowell, estimatore di Schiapparelli, che tradusse erroneamente la parola "canali" in "channels" (canali artificiali) invece che con "canals" (canali naturali). Basta leggere il commento dell'italiano alle proprie osservazioni per vedere che lui non si riferiva a canali creati dai marziani:
«Piuttosto che veri canali della forma a noi più familiare, dobbiamo immaginarci depressioni del suolo non molto profonde, estese in direzione rettilinea per migliaia di chilometri, sopra larghezza di 100, 200 chilometri od anche più. Io ho già fatto notare altra volta, che, mancando sopra Marte le piogge, questi canali probabilmente costituiscono il meccanismo principale, con cui l'acqua (e con essa la vita organica) può diffondersi sulla superficie asciutta del pianeta»
(Giovanni Schiaparelli, La vita sul pianeta Marte, dal fascicolo n°11 - Anno IV della rivista Natura ed Arte, maggio 1895, cap.I)
La mappa pubblicata da Schiapparelli nel suo articolo del 1888

Vero anche che Schiapparelli non fece molto per smontare le idee di Lowell, tanto che nel 1895 pubblicò l'articolo "la vita su Marte" in cui in modo molto divertente (e sicuramente divertito) racconta di come la struttura deputata all'organizzazione dei canali fa capo al Gran Prefetto dell'Agricoltura che nella stagione dello scioglimento dei ghiacci da l'ordine di aprire le chiuse dei canali. Insomma i marziani come un popolo di idraulici.
Non è un caso se nella sua copia del libro conservata presso l'osservatorio di Brera lui abbia scritto una nota illuminante "semel in anno licet insanire" (una volta all'anno è lecito fare pazzie).




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Eppur si muove. Terremoti, lunamoti e martemoti

Affermare "meno male che ci sono i terremoti" non è una provocazione (né vuole esserlo) e tanto meno una mancanza di rispetto per chi ha vissuto tali esperienze e ne ha subito le conseguenze, economiche e umane.
Il senso intrinseco della frase è nella correlazione indissolubile tra i terremoti (maremoti, eruzioni, ...) e l'essere la Terra un pianeta attivo, condizione quest'ultima necessaria (ma non sufficiente) perché sorgano le condizioni minime per ospitare la vita. L'attività sismica non deve essere intesa come una anomalia, una malattia in un organismo sano, ma è una componente intrinseca di un pianeta "maturo", diverso sia dall'ammasso di roccia fusa dei primordi che da una fredda roccia che vaga nello spazio. 

La crosta terrestre e la parte più esterna del mantello costituiscono la litosfera ed è qui che nascono i terremoti. Le rocce che formano la crosta e il mantello superiore sono sottoposti ad enormi forze, risultato del movimento delle grandi placche in cui è suddiviso lo strato più superficiale della Terra (vedi "tettonica a placche"). Tali movimenti sono il risultato dei moti convettivi del mantello che spingono e trascinano le placche come (perdonatemi il paragone semplicistico) tante zattere su un oceano incandescente in continua frizione tra loro (per approfondimenti --> INGV). 
Le rocce fuse nel mantello terrestre (descrivibile come qualcosa di semi-solido, a viscosità molto elevata) sono rimescolate continuamente grazie ai moti convettivi, con il materiale più caldo che nel risalire verso la superficie cede calore (dissipato poi nello spazio), si raffredda, diviene più denso e ridiscende negli strati più caldi del pianeta dove ricomincerà il ciclo.
Come è fatta la Terra al suo interno: litosfera, mantello, nucleo.
(credit: Surachit  via wikipedia). Vedi anche l'articolo "Why Earth core is so hot?"
Sotto il mantello abbiamo il nucleo, diviso in una parte più esterna liquida ed una interna solida (la pressione qui è tale da superare l'effetto "liquefacente" della temperatura). E' nella composizione ferrosa del nucleo, specificamente nel nucleo esterno a causa delle correnti convettive, che trae origine il campo magnetico terrestre ed è nel gradiente di temperatura interno-esterno e nell'esistenza di un mantello "viscoso" che originano due aspetti essenziali che hanno reso il pianeta compatibile con la mera ed effimera possibilità della vita.
Il campo magnetico è all'origine dello scudo (magnetico) che protegge la Terra dal vento solare (risparmiando al pianeta sia la componente radiante che la perdita dell'atmosfera spazzata via dal vento) e dalle radiazioni cosmiche: senza questa protezione nulla potrebbe sopravvivere sulla superficie.
Lo scudo magnetico che protegge la Terra è percepibile vicino ai poli come Aurora Boreale
 Credits: NASA / SOHO
I moti convettivi del mantello, e a cascata la frizione sulla crosta terrestre e con essa terremoti ed eruzioni vulcaniche, sono alla base del continuo riciclo geologico e della presenza di una atmosfera. Pianeti in cui tali processi sono terminati eoni fa (Marte) o non sono mai realmente iniziati (Luna) mostrano le conseguenze: la scomparsa dell'atmosfera e degli oceani di acqua (e forse della vita) marziani; la sterilità intrinseca della Luna dove l'assenza di atmosfera porta a variazioni di temperatura tra i 127 °C delle zone esposte al Sole ai -170 °C delle notti lunari.

Tale premessa spiega l'interesse degli astronomi che si occupano dello studio dei pianeti per la "eso-sismologia", utile sia per comprendere l'evoluzione planetaria che per studiarne la composizione interna.

I media generalisti hanno titolato a caratteri cubitali "terremoti lunari perché la Luna rimpicciolisce". Un tipico esempio di come vendere una notizia in sé corretta facendo pensare a chissà quali sconvolgimenti volumetrici. Facciamo un poco di chiarezza.
La Luna si sta restringendo perché il suo nucleo si raffredda opponendo così un minore contrasto alla pressione della massa soprastante.
La Luna in pillole.
Il nucleo lunare è piccolo rispetto a quello di altri pianeti ed è composto da ferro con tracce di solfo e nichel. Circa il 20% del volume complessivo, mentre ad esempio il nucleo terrestre ha un raggio circa la metà del totale. La temperatura nel nucleo si ritiene essere intorno ai 1600 °C (inferiore a quello della Terra). Il calore di un pianeta viene in genere da tre processi: "originario" (legato al processo di formazione); frizionale (il movimento delle parti più dense verso l'interno); decadimento radioattivo. La diffusione del calore può avvenire per convezione o per conduzione (lenta). Minore la dimensione di un pianeta, maggiore la velocità con cui si raffredda. Se troppo veloce, non ci sarà il tempo per il ferro di "precipitare" (data la sua densità) verso il nucleo e questo spiega per quale motivo il calore interno lunare sia solo frutto del decadimento radioattivo e perché Marte abbia una una superficie molto più ricca in ferro (colore rosso) della Terra. La somiglianza tra la composizione chimica delle rocce lunari e quella del mantello terrestre è una delle migliori prove dell'origine della coppia Terra-Luna attuale, come conseguenza della collisione tra la proto-Terra e Theia, un pianeta di dimensioni marziane, con parte del proto-mantello terrestre scagliato nello spazio e riaggregatosi insieme ad altri detriti a formare la Luna (una variante a questa ipotesi implica un fase detta di sinestesia). Si ritiene che le eruzioni lunari consistenti (indicazione di attività magmatica interna) risalgano ad almeno 3 miliardi di anni fa e che siano scomparse totalmente da almeno 1 miliardo di anni. La testimonianza di questi eventi è nelle zone chiamate mari lunari. La maggior velocità di raffreddamento spiega anche la presenza di una crosta più spessa, che a sua volta diminuisce la probabilità di una attività tettonica. La crosta lunare è il 4% del volume contro l'1% su Marte e lo 0,5% sulla Terra e Venere. La luna gioviana Io, sembrerebbe contraddire quanto ora detto visto che pur essendo un poco più piccola della Luna ha una evidente attività vulcanica: la spiegazione è che il calore interno è da attribuire alla distorsione della luna (quasi ovalizzata durante l'orbita, quindi sottoposta a potenti forze frizionali) causate dalla somma delle forze mareali provocate da Giove e dalla risonanza con Europa, un'altra luna.
Per farla semplice di che rimpicciolimento si parla nel caso della Luna? Circa 50 metri nel corso di centinaia di milioni di anni. Tradotto, 50 metri su un diametro di 3470 km corrisponde allo 0.0014 % di differenza. 
Possiamo immaginare quanto avviene sulla Luna pensando ad un acino d'uva. Così come la superficie dell'acino che si asciuga passa da tesa a raggrinzita, la riduzione, seppur minima del volume lunare porta a tensioni sulla crosta superficiale che deve riposizionarsi su un volume minore. 
Nuovi dati hanno dimostrato che queste forze di riposizionamento sono ancora oggi in atto e sono la causa dei terremoti lunari la cui intensità può essere notevole (5 sulla scala Richter sebbene a questa magnitudo attribuite a frane delle pareti dei crateri). Quindi un terremoto lunare ed uno terrestre hanno cause totalmente diverse.
L'effetto di tali forze è visibile sulla superficie per la presenza di "cicatrici", faglie che si presentano come rilievi "a gradini" alti qualche decina di metri che si estendono per diversi km. Una particolarità ben nota agli astronauti della Apollo 17 (Eugene Cernan e Harrison Schmitt) quando guidarono il rover lunare lungo la parete rocciosa che costeggia la scarpata della faglia Lee-Lincoln.

Eugene Cernan sul rover lunare (credit: NASA)

Una faglia da "raggrinzimento" e crateri (frecce) da impatto meteoritico (credit: NASA)

Video credit: NASA Goddard

Nonostante siano trascorsi 50 anni dall'ultima missione umana sulla Luna, sono stati da poco presentati nuovi dati, frutto della sinergia tra innovativi metodi di analisi al computer, immagini satellitari in HD e i sismografi lasciati sulla superficie lunare dagli astronauti durante le missioni Apollo 11, 12, 14, 15 e 16 (la missione Apollo 13 è andata come sappiamo).
Tralasciando il sismometro dell'Apollo 11 (ha funzionato per sole tre settimane), i quattro rimanenti hanno rilevato, nel periodo compreso tra il 1969 al 1977, circa 10 mila terremoti di cui 28 terremoti poco profondi - il tipo associabile alle faglie di "raggrinzimento".
In totale sono 12500 i lunamoti rilevati. Di questi 3 mila di tipo profondo (700-1000 km sotto la superficie, verosimilmente di origine mareale), 1700 attribuiti ad impatto meteoritico e 28 superficiali (20-30 km sotto la superficie). Il resto troppo debole o non facilmente catalogabile. Si stima che ogni giorno precipiti sulla superficie lunare una tonnellata di materiale meteoritico. 
Lo studio ora pubblicato sulla rivista Nature Geoscience ha ricostruito la mappa sismica del nostro satellite sfruttando capacità di calcolo prima impossibili. 8 dei 28 terremoti superficiali sono stati mappati entro 30 chilometri dalle faglie superficiali, abbastanza vicino da correlare i terremoti all'esistenza dei rilievi. Inoltre 6 degli 8 terremoti sono avvenuti quando la Luna si trovava all'apogeo, il punto orbitale più lontano dalla Terra e quello in cui l'effetto mareale terrestre ha maggior effetto, rendendo più probabili gli eventi di slittamento della crosta lunare.
Attraverso più di 10 mila simulazioni al computer, i ricercatori hanno calcolato la probabilità che la colocalizzazione (fisica e temporale) dei terremoti con le faglie superficiali e con l'orbita lunare all'apogeo, fosse una coincidenza. Il risultato è del 4% il che indica, con ragionevole certezza, che non è una coincidenza.
Non  soddisfatti sono andati a verificare se le onde sismiche rilevate potessero avere una causa diversa dal previsto, ad esempio uno dei tanti impatti meteoritici a cui la Luna priva di atmosfera è esposta. Ipotesi esclusa perché "l'impronta sismica" prodotta da un meteorite è diversa da quella di faglia
Ultima prova presentata nello studio viene dalle immagini (migliaia e ad alta risoluzione) ottenute dalla navicella spaziale Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA. Le radiazioni solari e spaziali provocano l'oscuramento del materiale sulla superficie, quindi quando si osservano aree più chiare è una indicazione che si tratta di regioni apparse sulla superficie solo di recente. Queste aree si trovano, non a caso, in prossimità dei rilievi, ad indicare che si tratta di zone "movimentate". La pioggia di micro-meteoriti cancella in tempi relativamente brevi queste tracce, il che rafforza l'origine (geologicamente) recente.
Lo studio permetterà di indirizzare i futuri siti di atterraggio lunare in aree chiave per il mappaggio sismico. Non è superfluo ricordare che mappare sismicamente la Luna è il modo più semplice per analizzarne l'interno, ricostruendo la propagazione delle onde sismiche, e in ultima analisi per comprenderne l'evoluzione (vedi l'articolo precedente "L'origine della Luna").
Prendiamo Mercurio come esempio di un pianeta "ristrettosi" con l'età e sottoposto a forze mareali importanti come quelle causate da un vicino "scomodo" come il Sole. Le faglie di superficie su Mercurio sono molto più estese (oltre 3 km in altezza e un migliaio di lunghezza) di quelle lunari, ad indicare che il suo restringimento è stato maggiore. Poiché i mondi rocciosi si espandono quando si scaldano e si contraggono quando si raffreddano, le grandi faglie di Mercurio rivelano che poco dopo la sua formazione era abbastanza caldo da essere completamente fuso. La Luna primordiale era completamente o solo parzialmente fusa? La dimensione relativamente piccola delle faglie sembra favorire lo scenario parzialmente fuso.
La NASA invierà i prossimi astronauti entro il 2024 e prevede di creare sedi stabili entro il 2028.



MARTEMOTI
Ad accorgersi delle "scosse" sul pianeta rosso è stato il lander InSight della NASA a solo pochi mesi dall'inizio della sua fase operativa (articolo precedente --> "InSight ci manda un selfie").
Due sono gli strumenti principali montati su InSight: sismografo e la sonda termica, detta anche "la talpa". Il sismografo è entrato in azione poco dopo l'atterraggio.
Il selfie di InSight (credit:NASA)
Il 6 aprile, 128 giorni marziani (131 terrestri) dopo l'atterraggio sul pianeta lo scorso novembre, i sensori della navicella hanno percepito un lieve tremito della superficie marziana. Una scossa relativamente debole, simile a quella rilevate dai sismometri sulla Luna.
InSight appoggia il sismometro. Il primo su un altro pianeta.
(credit: NASA/JPL-Caltech via NewScientist)


Fino a quel momento l'opinione comune tra i ricercatori era che l'attività sismica marziana fosse collocabile in un punto imprecisato tra quella terrestre e quella lunare, ma più prossima alla prima. I dati ottenuti sembrano invece indicare che sia più simile a quella lunare, il che rafforzerebbe l'ipotesi di un pianeta "morto", cioè privo di quelle caratteristiche planetarie nel nucleo e nel mantello che dotano la Terra di uno scudo magnetico e di un continuo rimescolamento delle rocce (quindi degli elementi chimici presenti).

Ma per ora si tratta ancora di ipotesi. I dati sono ancora troppo scarsi per poter elaborare chiavi di lettura affidabili. A differenza di quanto fatto sulla Luna (mi riferisco allo spettro sismico) non è ancora chiaro se la scossa  abbia avuto origine all'interno di Marte o se sia attribuibile all'impatto di un meteorite da qualche parte sulla superficie marziana, la cui "eco" ondulatoria si sia poi propagata attraverso l'interno del pianeta.
InSight (operante nella zona equatoriale di Elysium Planitia) è dotato di un sismometro basato su tre sensori estremamente sensibili la cui parte esterna è protetta da una cupola che serve per proteggerli dai venti marziani. Già prima di aprile il centro di controllo della NASA aveva rilevato delle vibrazioni ma queste erano state attribuite ai potenti venti, e relative tempeste di sabbia, che di tanto in tanto solcano la superficie (il problema della polvere sui pannelli solari di InSight è discusso sul sito spaceref).
L'evento del 6 aprile aveva però qualcosa di diverso: il segnale proveniva dall'interno del pianeta. Da dove non è ancora possibile dirlo. Comprenderne l'origine ha una valenza ben superiore alla rilevazione di un martemoto; tracciare come l'energia sismica si irradia attraverso il pianeta è il punto di partenza per comprendere come è fatto Marte, che poi è l'obiettivo principale di InSight.
Altri tre eventi si sono verificati il 14 marzo, il 10 aprile e l'11 aprile, ma erano più deboli rispetto all'evento del 6 aprile.
C'è ancora tempo. Il lander è progettato per funzionare per circa due anni terrestri; se si è fortunati (vedi l'esempio del rover Opportunity) la missione potrebbe continuare ben oltre questa data. Un primo problema che dovrà affrontare è però molto pratico: i controllori della missione devono capire come disincagliare la sonda termica che si incastrata sotto un sasso durante le fasi di penetrazione nel terreno per fare le misure.
Dettaglio tecnico del lander InSight (credit: NASA)

Schema comparativo in scala della struttura interna dei 4 pianeti rocciosi del sistema solare. Il vero pianeta gemello della Terra è Venere, che però "è morto nella culla" asfissiato e abbrustolito" da una micidiale combinazione di gas serra.
aggiornamento giugno 2020
Mentre il sismografo ha iniziato da subito a fare il proprio dovere, la sonda termica ("la talpa") ha dato parecchi grattacapi al centro di controllo sulla Terra.
Nelle previsioni la talpa avrebbe dovuto scavare il suolo marziano fino a circa 5 metri di profondità per ottenere informazioni sulle caratteristiche geologiche del pianeta rosso.  Nella realtà i primi tentativi sono andati a vuoto, anzi la sonda sembrava quasi espulsa dal terreno. Al netto di ipotizzare marziani adirati che rispedivano al mittente la sonda quando cercava di penetrare nel terreno, le cause dei problemi non sono mai state del tutto comprese. Probabile un terreno troppo duro o il rover che non riusciva a rimanere fermo mentre posizionava la sonda. Comunque sia, prova e riprova si è riusciti almeno ad iniziare la perforazione usando come perno il braccio robotico pensato in origine per fare tutt'altro.
Una impresa (minima) che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai tecnici come si vede dal tweet con il video dell'operazione

Seguite gli aggiornamenti della "talpa" sul sito ufficiale --> The InSight mission logbook



Fonti
- Shallow seismic activity and young thrust faults on the Moon
Nature Geoscience (2019)
- Shrinking Moon May Be Generating Moonquakes
NASA
- NASA's LRO Reveals 'Incredible Shrinking Moon'
NASA
- The moon is a lot more seismically active than we thought
MIT Technological Review
- The moon is quaking as it shrinks
Phys.org

- NASA's InSight Detects First Likely 'Quake' on Mars
mars.nasa.gov
- First ‘marsquake’ detected on red planet
Nature
- Marsquake! NASA's InSight Lander Feels Its 1st Red Planet Tremor
space.com
- Mars Winds Clean InSight's Solar Planels
spaceref.com
- marsquakes


   
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