CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Visualizzazione post con etichetta mitocondri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta mitocondri. Mostra tutti i post

Vivere senza mitocondri

Caratteristica condivisa tra tutti gli eucarioti la presenza dei mitocondri, conseguenza (ne ho scritto nell'articolo "Alla ricerca di LUCA" che vi consiglio di leggere prima di questo) di un processo endosimbiotico avvenuto eoni fa tra una cellula proto-eucariotica ed un batterio. 
Evento simile, ma presente solo nel regno vegetale, ha portato alla “unione” tra il proto-eucariote (probabilmente già in possesso dei mitocondri) con un cianobatterio (fotosintetico) ad originare i cloroplasti
Notizia sorprendente quindi la scoperta di eucarioti privi di mitocondri, la centralina energetica con la duplice funzione di utilizzo e neutralizzazione (essendo tossico) dell’ossigeno molecolare per ricavare energia chimica.
Monocercomonoides
(credit: Naoji Yubuki)
Il dato si riferisce ad un genere di protisti che vive nell’intestino di molti animali (dalle termiti ai ruminanti), in cui l'assenza dei mitocondri è quasi sicuramente un evento secondario (evolutivamente).
I protisti sono un (ex) raggruppamento/regno del vivente che comprende organismi molto diversi tra loro, oggi usato solo come termine ombrello per indicare quegli organismi (unicamente) unicellulari che non sono catalogabili come vegetali, animali o funghi (vedi concetto di parafilia).
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS Genetics, è stato condotto sui Monocercomonoides (protisti dell'ordine Ossimonade) che vivono nelle viscere di animali, organismi quindi evolutisi in un ambiente in cui l’ossigeno è praticamente assente. Vero che precedenti studi avevano mostrato che diversi gruppi di protisti possiedono mitocondri più semplici della versione classica ma si riteneva che fosse impossibile per una specie perderli completamente.
La scoperta che Monocercomonoides exilis (phylum: Preaxostyla - classe: Metamonada) erano privi di mitocondri ha spinto i ricercatori a fare una analisi comparativa del genoma di varie specie di ossimonade allo scopo di comprendere quali siano stati gli adattamenti biochimici che hanno permesso a queste cellule di compensare la perdita dei mitocondri.
L’analisi ha permesso di datare la perdita dei mitocondri ad antenati vissuti circa 100 milioni di anni fa (in piena era dei dinosauri), tempo che coincide con il processo di speciazione delle ossimonadi oggi diffuse.

La "scelta" di fare a meno dei mitocondri, in un organismo evolutosi insieme ad essi, è stata possibile grazie alla rimodulazione della biochimica cellulare con il trasferimento (ovviamente precedente la "perdita") di alcune funzionalità chiave dal mitocondrio al citosol. Lo studio ha dimostrato che questo evento ha coinvolto il trasferimento di reazioni come la sintesi del FeS cluster**, evidente in "cugini" ossimonadi originati da un antenato comune al clade, a dimostrare un preadattamento che ha reso possibile, in alcune specie, la perdita dei mitocondri (il che dimostra anche che tale "modifica" non è stata un adattamento alla perdita dei mitocondri ma la condizione che ha reso possibile tale perdita)

Lo studio di più specie di ossimonadi ha fornito la prova che la profonda riorganizzazione della sintesi del cluster FeS è stata avviata da un trasferimento genico orizzontale della via batterica SUF e da una perdita della via mitocondriale ISC già prima dell'ultimo antenato comune di questo clade (vedi Mitochondrial iron-sulfur clusters: Structure, function, and an emerging role in vascular biology).

Come molti protisti anaerobi, M. exilis non è in grado di sintetizzare ATP mediante fosforilazione ossidativa; l'ATP viene invece sintetizzato tramite glicolisi nel citosol (Karnkowska et al. 2016). Insieme alla perdita di fosforilazione ossidativa, M. exilis non codifica per nessuno degli enzimi del ciclo dell'acido tricarbossilico
M. exilis possiede una via completa dell'arginina deiminasi che gli consente di produrre ATP mediante conversione di arginina in ornitina, NH3 e CO2 (Novák et al. 2016). Dall'analisi del genoma si evince che il protista può generare ATP metabolizzando anche altri amminoacidi, tra cui triptofano, cisteina, serina, treonina e metionina

Fonte
Characterization of the SUF FeS cluster synthesis machinery in the amitochondriate eukaryote Monocercomonoides exilis
Priscila Peña-Diaz et al, (2024) Current Biology

The Oxymonad Genome Displays Canonical Eukaryotic Complexity in the Absence of a Mitochondrion
Anna Karnkowska et al, (2019) Mol Biol Evol.

- Genomics of Preaxostyla Flagellates Illuminates the Path Towards the Loss of Mitochondria
Lukáš V. F. Novák et al, (2023) PLOS Genetics


Note

** I cluster ferro-zolfo (Fe-S) sono cofattori il cui ruolo più noto è mediare il trasferimento di elettroni all'interno della catena respiratoria mitocondriale attraverso i complessi I, II e III al citocromo c, prima del successivo trasferimento all'ossigeno molecolare.. I percorsi dei cluster Fe-S che funzionano all'interno dei complessi respiratori sono altamente conservati tra batteri e mitocondri delle cellule eucariotiche. 
Nei batteri questi cluster sono localizzati in varie sedi cellulari e sono coinvolti in numerosi processi biologici essenziali, tra cui:
Citosol.
  • via metabolica degli amminoacidi e delle purine, e la replicazione e la riparazione del DNA. Sebbene prodotti direttamente nel citosol, non fluttuano “a caso” ma sono subito incorporati in proteine/enzimi specifici, liberi o associati alla membrana, dove partecipano alle reazioni redox. 
  • Nei casi in cui siano utilizzati come mediatori nel trasporto di elettroni (ad esempio nei batteri aerobi) , i cluster Fe-S sono componenti della catena respiratoria, in modo simile a quanto avviene nei mitocondri.
Membrana
  • Nei batteri fotosintetici, come i cianobatteri, i cluster Fe-S sono componenti integrali dei complessi proteici fotosintetici legati alla membrana e dei trasportatori di elettroni.
  • Sistemi di cluster ferro-zolfo (ISC) e fattore di utilizzazione dello zolfo (SUF): questi sistemi sono responsabili dell'assemblaggio e del mantenimento dei cluster Fe-S. Il sistema ISC funziona in condizioni normali, mentre il sistema SUF viene attivato in condizioni di stress come stress ossidativo e carenza di ferro.
  • Batteri fissatori di azoto: nei batteri fissatori di azoto, i cluster Fe-S fanno parte del complesso enzimatico nitrogenasi, che è essenziale per la fissazione dell'azoto.


***

L'angolo dei consigli per gli acquisti
Un modellino didattico del mitocondrio e un libro sull'elusivo mondo dei protisti (link ad Amazon)





Il processo endosimbiontico che ha originato mitocondri e cloroplasti è in atto ancora oggi

Il processo simbiontico che ha originato cloroplasti e mitocondri non è un unicum evolutivo che si perde nella notte dei tempi ma è in atto anche oggi. 
Dove? L'ameba Paulinella chromatophora (quindi un protista) ha un cianobatterio come simbionte obbligato, cioè una simbiosi talmente avanzata che il batterio non potrebbe più vivere al di fuori della cellula ameboide in quanto alcuni dei suoi geni sono già stati trasferiti nel genoma dell'eucariote. 
Paulinella chromatophora (credit: arcella.nl)

In altre parole il cianobatterio sta compiendo la stessa strada (ed è già a buon punto) che lo porterà a diventare un cloroplasto.
Nota. Un processo simile è avvenuto eoni fa al mitocondrio con il risultato di una simbiosi talmente perfetta da avere trasferito al nucleo (quindi al genoma cellulare) parte delle informazioni genetiche necessarie al proprio funzionamento. Ne abbiamo parlato negli articoli dedicati alla controparte reale dei midichlorians,  i depositari della "Forza" nel regno immaginifico creato da Star Wars.
Eventi di questo tipo sono catalogati simbiogenesi primaria. Si parla invece di simbiogenesi secondaria quando un eucariote eterotrofo "arruola" indirettamente un cloroplasto "schiavizzando" un Archeaplastidia cioè eucarioti autotrofi divenuti capaci di fotosintesi nel Cambriano dopo avere catturato (e conservato al suo interno senza digerirlo) un batterio autotrofo.
Gli Archeaplastidia comprendono alghe rosse, alghe verdi e glaucofite

***

La "top ten" degli imprevisti dell'evoluzione nel "progetto" Homo sapiens

L'evoluzione non è un percorso lineare ma è fatto di oscillazioni multidirezionali che non possono prescindere dal "materiale" di partenza. Il che implica che se l'organismo è troppo specializzato (o adattato) ad una particolare nicchia ecologica o se i cambiamenti ambientali sono troppo repentini e duraturi, allora è molto probabile che quella particolare specie scomparirà dando origine ad un"ramo a fondo cieco" nell'albero evolutivo.
Si tratta di un concetto molto importante in biologia, utile per capire che noi (intesi come specie vivente in un dato momento) siamo la summa degli aggiustamenti evolutivi avvenuti nel corso di centinaia di milioni di anni fa, da quando i vertebrati si affacciarono sulla terraferma, e perché sussistano in noi quelli che potrebbero essere definiti come errori progettuali, alla base sia di malattie che di funzionalità ridondanti o "non ottimali".
Se ci fosse stato un demiurgo capace di progettare un essere umano, di sicuro avrebbe apportato modifiche sostanziali al nostro prototipo. Dobbiamo invece convivere con un corpo che pur rimarchevole sotto molti di vista (la fisiologia di una singola cellula vale da sola anni di studio "stupefatto" - generalizzando una famosa frase di J.B.S. Haldane), presenta anomalie che, come detto, nascono dall'aver dovuto fare di necessità virtù nelle soluzioni evolutive. Il che non impedisce convergenze funzionali partendo da punti totalmente diversi come evidente nella capacità di volare di uccelli (alias i discendenti dei dinosauri e totalmente non correlati con gli estinti pterosauri), pipistrelli e gli insetti: stesso risultato ma diversa modalità di implementazione strutturale.
Nota. Evoluzione è in realtà un termine fuorviante nel suo senso letterale. Sebbene sia innegabile l'aumento di complessità tra un protozoo e un qualunque mammifero, la comparsa di una nuova specie non può essere semplificata immaginandola un gradino sopra a quella da cui è originata; meglio pensarla come meglio adatta ad una situazione contingente, scomparsa la quale potrebbe divenire svantaggiata rispetto alla "versione originale". Per ragioni simili è errato posizionare la specie umana in cima alla piramide evolutiva, se si ragiona in senso strettamente biologico. L'evento evolutivo è quello che assicura la maggiore fitness genetica, quindi la capacità di dare luogo a progenie più adatta in determinate condizioni. Se l'ambiente rimanesse identico nel tempo la comparsa di nuove specie si ridurrebbe drasticamente. Gli squali sono esseri perfetti e non a caso dominano i mari, pressoché immutati, da molte decine di milioni di anni, sopravvissuti perfino ad almeno due estinzioni di massa (l'ultima quella del Cretaceo). Questo non esclude però che essi potranno scomparire in poche decine di anni se i cambiamenti ambientali (di origine, ahime, umana) continueranno al ritmo attuale.
 Non si inventa nulla di nuovo dall'oggi al domani ma si opera su ciò che c'è. Le osservazioni di Darwin prima e l'analisi embriologica di Haeckel poi, portarono alla formulazione della «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale l’ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, alias lo sviluppo evolutivo della specie.  Secondo Haeckel, le fasi cruciali nello sviluppo di un embrione, che portano alla formazione delle varie strutture anatomiche, avverrebbero secondo una sequenza analoga a quella con la quale le stesse strutture sarebbero comparse nel corso dell’evoluzione. Ad esempio, nell’embrione umano vi è uno stadio in cui si forma una sorta di appendice caudale, lunga fino ad 1/6 dell'embrione, che in seguito si riassorbe, mentre gli abbozzi degli arti continuano a svilupparsi. Un rimodellamento regolato da processi come l'apoptosi (suicidio programmato delle cellule) che "scolpisce" gli abbozzi per riplasmarli in strutture diverse da quelle "iniziali" il tutto codificato da istruzioni genetiche accumulatesi con il passare delle generazioni.
Se si osserva lo sviluppo di una mano nell'embrione umano si osserverà che in una certa fase apparirà palmata, salvo poi venire scolpita in dita separate grazie al "suicidio e riassorbimento" delle cellule che formavano la membrana interdigitale. Non a caso con una certa frequenza (1 su 3000 nati vivi) si manifestano difetti dello sviluppo embrionale intorno alla 8a settimana, che causano la sindattilia in cui una o più dita sono solo parzialmente o per nulla separate. Un problema oggi risolvibile chirurgicamente senza lasciare tracce ma che appunto va cercato in una errata attuazione del programma di sviluppo implementato a partire dai lontani progenitori tra i vertebrati terrestri.
Tale legge è ancora oggi considerata uno dei principi biologici fondamentali, anche se alcuni aspetti delle idee di Haeckel, considerati alla luce delle successive ricerche embriologiche, si sono rivelati non corretti, o quanto meno non generalizzabili.

Esserci evoluti da uno stadio protocellulare a quello di vertebrati bipedi, senza peli e difese strutturali da predatori e intemperie ma in grado di progettare la disponibilità alimentare ha certamente molti vantaggi ma non è esente da qualche svantaggio perché il passato è dentro di noi. In un certo senso sarebbe come costruire un palazzo usando le fondamenta e i muri portanti di un edificio preesistente; si possono fare miglioramenti, rinforzare i punti critici e modernizzare la classe energetica ma saremo sempre dipendenti dai limiti della struttura iniziale.

Volendo elencare alcuni dei difetti evolutivi che ci portiamo dietro avremmo ampia possibilità di scelta; dal singhiozzo alla appendice fino ai denti del giudizio, il percorso evolutivo che ha portato al Homo sapiens si è caricato di alcune imperfezioni evidenti ma forse proprio per questo umane. Mi limiterò alle prime 10 che mi vengono in mente.

1. Siamo delle chimere
Comincio con il prenderla molto alla lontana (in senso letterale su scala temporale) ricordando che in un periodo imprecisato  intorno a 2 miliardi di anni fa, dalla unione (o forse sarebbe meglio dire, un pasto non riuscito) tra un proto-eucariote ed un batterio in grado di usare l'ossigeno nacque l'antenato delle odierne cellule eucariote con l'evoluzione di un rapporto simbiontico tra mitocondrio (l'ex batterio) e la cellula predatrice. Per altre informazioni vedi articolo precedente --> QUI.
Un evento simile ha portato alla comparsa di eucarioti fotosintetici (le cellule vegetali). Ma questa è un'altra storia.
La "digestione" non riuscita di un batterio aerobico e di un cianobatterio è l'origine più probabile degli attuali mitocondri e cloroplasti, rispettivamente (--> Il batterio ispiratore di Star Wars)

Questo rapporto, senza il quale non sarebbero mai potuti comparire gli organismi pluricellulari complessi in quanto energicamente dispendiosi, si è evoluto a tal punto che alcuni geni del mitocondrio (perché ovviamente il batterio aveva un suo genoma indipendente) si sono trasferiti nella cellula ospitante, in un luogo ben più protetto (e controllabile) come il nucleo. Tuttavia il trasferimento è stato parziale e infatti il mitocondrio ha ancora oggi un proprio genoma e propri apparati trascrizionali e traduzionali. Questo fa si che sia sensibile a mutazioni nel DNA, cosa non rara in un ambiente ricco di radicali liberi. L'impatto delle mutazioni mitocondriali è "frenato" sia dal fatto che in un genoma così compatto come quello mitocondriale, le mutazioni sono quasi sempre "distruttive" (quindi si auto-estinguono insieme al mitocondrio alterato) che dall'alto numero di mitocondri presenti in una cellula (variabile e regolabile a seconda delle necessità cellulari) che diluisce l'eventuale anomalia funzionale. Ciò nondimeno quando una mutazione diventa dominante la cellula prima e l'organismo pluricellulare poi subiranno le conseguenze come ben dimostrano alcune patologie umane quali le miopatie mitocondriali (a carico dei muscoli) e la sindrome di Leigh (che colpisce il sistema nervoso centrale). Un demiurgo previdente avrebbe caricato in toto le istruzioni per fare funzionare la nostra centralina energetica nel nucleo, sia perché un luogo più al riparo dallo stress ossidativo che per la presenza di un apparato di riparazione del DNA più efficiente.

2. Singhiozzo
Un "cortocircuito" presente anche in altri mammiferi oltre a noi. Anche qui bisogna risalire l'albero evolutivo fino ad arrivare ai primi pesci capaci di catturare l'ossigeno dall'aria (quando necessario) senza bisogno di filtrarlo dall'acqua incanalata attraverso le branchie. Utilizzavano a tale scopo dei polmoni primitivi in cui l'aria veniva convogliata e poi espulsa. Poiché si trattava di necessità temporanee il pesce doveva avere un mezzo per chiudere la glottide (ingresso ai polmoni) quando tornava sott'acqua; il movimento muscolare di chiusura si accoppiava a quello che spingeva l'acqua attraverso le branchie il che preveniva "dimenticanze". Noi che di questi animali proto-terrestri siamo i discendenti, ci portiamo dietro le vestigia di questo meccanismo che, persa oramai di ogni funzionalità, può ogni tanto corto-circuitare nella comparsa del singhiozzo. Il singhiozzo infatti altro non è che l'attivazione di questi muscoli "antichi" che fanno chiudere rapidamente la glottide mentre aspiriamo (non più l'acqua oramai ma solo aria).
I muscoli che usiamo per respirare sono quelli intercostali, situati tra le costole e il diaframma - un foglietto di muscolo sotto i polmoni. Il singhiozzo non a caso compare dopo avere mangiato o bevuto, troppo o troppo rapidamente, una attività che induce l'estensione delle pareti dello stomaco, situato proprio sotto il diaframma. L'espansione provoca una risposta nel diaframma che induce la contrazione della glottide. Uno dei motivi per cui è così difficile smettere di singhiozzare è che l'intero processo è controllato da una parte del nostro cervello evolutasi ben prima della "coscienza" - o meglio del controllo "voluto" dei movimenti.

Seppur fastidioso il singhiozzo è temporaneo; quando invece assume i caratteri di eccessiva ricorrenza o cronicità, il problema va cercato nella "cablatura nervosa" a livello spinale o cerebrale.

3. Mal di schiena
L'impalcatura ossea del tronco dei vertebrati si è evoluta lungo un asse portante (la colonna vertebrale entro cui sono poi stati raccolti "i cavi" nervosi) da cui si sono dipartite delle appendici (le costole) necessarie per contenere gli organi interni. Mentre la struttura nelle sue molteplici variazioni si è rivelata in grado di assolvere al movimento dei tanti tipi di vertebrati terrestri, la sfida funzionale si è complicata con l'acquisizione da parte degli ominidi dell'andatura eretta (bipede). Il cambiamento ha imposto un rimodellamento dell'asse scheletrico facilmente osservabile dall'analisi comparativa dei reperti ossei di Australopitechus e Homo.
Il cambiamento posturale non è stato un evento di poco conto in quanto si è avuto un ribaltamento della distribuzione del peso, culminato con la l'acquisizione di una forma ad S della colonna vertebrale. Il peso di testa e spalle e dell'azione muscolare per tenere la posizione eretta si scarica in noi sulle vertebre, soggette quindi ad stress e alla comparsa di dolori spesso cronici. Se questo non dovesse bastare, il rimodellamento del bacino aggiuntosi all'aumento della dimensione cranica ha reso il parto un evento nettamente più traumatico di quanto osservabile in qualunque altro mammifero. Per compensare in parte il problema il periodo gestazionale si è accorciato in modo da permettere la nascita di "immaturi" (se comparato all'aspetto e capacità della progenie di altri mammiferi non primati).

4. Intestino "cedente"
Una volta indirizzati verso la posizione eretta, anche l'intestino si è trovato in una situazione "precaria" non più sostenuto dai muscoli addominali e soprattutto dallo stomaco come nei quadrupedi (vedi ad esempio --> qui). Il risultato di questa distribuzione verticale del peso (sulle cavità interne e negli uomini sullo scroto) è la comparsa di ernie inguinali.


5. Mangiare e soffocare
Tutti conoscono la manovra di Heimich o hanno visto in qualche film persone a cui era andato per traverso del cibo, salvate da questa tecnica. Un problema sconosciuto ai nostri amici a quattro zampe proprio perché è un "effetto collaterale" della posizione eretta.
Nella maggior parte degli animali la trachea (dove avviene il passaggio dell'aria) e l'esofago (dove transita il cibo) sono disposte in modo che l'esofago sia posizionato sotto la trachea. Nella gola di un gatto, ad esempio, i due canali corrono approssimativamente orizzontali e paralleli tra loro prima di dirigersi ai polmoni e allo stomaco, rispettivamente. In questa configurazione, la gravità tende a spingere il cibo verso il basso quindi verso l'esofago e i rischi di un errato percorso coinvolgono al più la sola aria inspirata e non il cibo. Negli esseri umani non è così, con i due canali pressoché verticali e esofago e trachea alla stessa altezza. 
La combinazione di questi fattori fa si che la probabilità che il cibo "sbagli strada" è molto alta ma è fortunatamente prevenuta dalla chiusura della epiglottide. Se questa non si chiudesse in tempo il rischio di soffocare sarebbe molto alto. Le scimmie, dotate di posizione "quasi eretta" sono meno a rischio; ad attenuare il rischio la minore evoluzione dell'apparato vocale la cui funzionalità è strettamente correlata alla struttura della laringe, la sede delle corde vocali.

6. Sensibilità al freddo
La pelliccia è qualcosa di simile ad un caldo abbraccio in una fredda giornata d'inverno, una protezione quasi onnipresente tra i mammiferi. Gli umani insieme a poche altre specie (il ratto talpa ad esempio) l'anno persa durante l'evoluzione complice l'essersi evoluti in ambienti tropicali. Sulle cause che hanno portato alla sua perdita (esistono animali tropicali dotati di un rivestimento isolante - non traspirante) il consensus non è definitivo; una delle spiegazioni più plausibili è che con il crescere della dimensione del "branco"negli ominidi il rischio di trasmissione di malattie derivanti da zecche e pidocchi abbia facilitato la discendenza degli individui glabri (i capelli sono meno a rischio di veicolare parassiti pericolosi). Essere glabri in Africa non era di per sé svantaggioso ma lo divenne con la migrazione verso nord dei neandertal prima e dei sapiens poi.

In entrambi i casi la perdita di peli poté essere compensata solo con la parallela capacità di dotarsi di pellicce artificiali, un passaggio che ha permesso non solo di colonizzare i climi temperati ma anche quelli artici. Vero è tuttavia che da un punto di vista evolutivo la perdita dei peli sarebbe stato svantaggioso per la migrazione in climi più freddi, ostacolando di fatto il successo della specie. Questo ribadisce un concetto chiave, cioè che l'evoluzione NON è lungimirante ma è legata al momento in cui avviene, quindi non è di per sé un evento "di progresso".

7. La pelle d'oca
Rimaniamo sul tema "pelliccia" per ricordare che i nostri antenati pelosi erano dotati, come molte altre specie, di speciali muscoli nella pelle chiamati "erettori del pelo" che si contraevano sia per cause "emotive" (come lo stress) che per il freddo, utile in quest'ultimo caso per creare una "bolla d'aria" isolante trattenuta dall'aumentato spessore del rivestimento. Fenomeni simili si osservano nei cani e negli uccelli, ad indicare "l'atavicità" di questa scelta funzionale. Nel nostro caso la scomparsa di gran parte dei peli ha lasciato "solitarie" le fibre muscolari lisce che percorrono la nostra cute, la quale continua a contrarsi con il freddo dando così mostra del fenomeno della "pelle d'oca". Un fenomeno da non confondere con il classico raggrinzimento dei polpastrelli in acqua invece dovuta (con ogni probabilità) ad una "scelta evolutiva" facilitante la presa in acqua, grazie all'aumento della superficie di contatto. Anche qui ad essere coinvolte sono le fibre muscolari lisce ma non quelle associate ai peli.
Piloerezione (pelle d'oca) sul corpo di un essere umano
(Photo by Ildar Sagdejev)


8. Cervello e denti. Una coesistenza difficile
Come già scritto in un precedente articolo (--> Le dimensioni contano), l'equazione cervello grande-grande intelligenza non è corretto sebbene il quesito somigli molto al classico "se sia nato prima l'uovo o la gallina". 
Sta di fatto che un cervello sufficientemente esteso è condizione necessaria perché si possano evolvere aree specializzate e con esse quella che noi definiamo genericamente "intelligenza". Durante l'evoluzione degli ominidi si è assistito ad un progressivo aumento del volume cranico causato, ovviamente, da mutazioni genetiche (vedi ad esempio quella in LAMC3 descritta QUI). L'aumento del volume impone un aumento dimensionale del "contenitore", il che non è un processo senza conseguenze come ben sapeva il T. rex.
Il testone di questo dinosauro (dotato più che di grande cervello di mascelle possenti) ha imposto una redistribuzione del peso lungo tutto il corpo con la atrofizzazione delle braccia (che avrebbero spostato il baricentro troppo in avanti) e coda e gambe sufficientemente possenti da permettergli di "non cascare in avanti".
Nel caso degli ominidi l'aumento dello spazio cranico allocato al cervello ha sottratto materiale osseo alle mascelle rendendole meno possenti rispetto a quelle dei nostri cugini primati. La "perdita" ci avrebbe portato in un vicolo cieco evolutivo (incapaci di masticare carne e corteccia) se non fosse comparsa "l'inventiva" capace di farci scoprire gli utensili e l'uso del fuoco per la cottura del cibo (è noto che questo è il passaggio cruciale nella nostra evoluzione in quanto fornì un surplus calorico inusitato capace di sostenere la spesa energetica del cervello, che ricordo arriva fino al 20% del totale giornaliero).
Le mascelle ridimensionate non si sono accompagnate ad una parallela riduzione dei denti che quindi "non stanno più nella bocca". Questa è la ragione per cui ci troviamo con denti "fastidiosi / in eccesso" come i denti del giudizio che causano spesso problemi e devono essere rimossi.


9. Obesità
Uno degli aspetti a cui la nostra fisiologia non si è ancora adattata è "l'improvvisa" abbondanza di cibo. Se i nostri antenati arboricoli avevano tutto sommato un rapido accesso a frutta, vegetali e talvolta carne, nel momento stesso in cui i primi ominidi cominciarono la loro avventura in spazi aperti il problema costante divenne trovare il cibo. Un problema come sappiamo non limitato solo a noi ma a qualunque animale, specialmente i carnivori che il cibo devono cercarlo e che per tale motivo stanno spesso giorni senza mangiare.
Anche dopo il nostro "affrancamento" dalla mera ricerca di cibo (con l'invenzione di agricoltura e allevamento) la certezza di avere un importo calorico adeguato era tutto fuorché certo, legato a molteplici variabili ambientali e umane. Gli ultimi 30 mila anni hanno selezionato quindi individui in grado di sopportare una assunzione di cibo discontinua e soprattutto monotematica (a seconda del luogo in cui tali popolazioni si erano adattate). Nell'ultimo secolo la situazione si è rovesciata con una paradossale inversione di tendenza per cui il cibo ipercalorico ("cibo spazzatura") è diventato di più facile accesso agli individui più poveri. Risultato, una "epidemia" di obesità che è tracimata dai paesi più agiati (ma dove era più lecito attendersela) fino a popolazioni che fino a pochi anni fa (letteralmente) avevano una dieta di pura sussistenza. Esempi classici sono le percentuali di obesi in crescita esponenziale in Cina e perfino Africa; casi eclatanti sono quelli che riguardano i discendenti degli indios - la parola nativo americano è una idiozia semantica -del Sudamerica e negli abitanti della Polinesia (vi rimando all'articolo precedente --> Ingrassate d'inverno? Colpa della genetica) .
La ragione è semplice: non siamo programmati per una assunzione di cibo costante e tutta questa disponibilità, a qualunque ora, non può fare altro che mandare in corto circuito la nostra fisiologia.
La fame è uno stimolo fondamentale evolutasi come "coercizione" per andare alla ricerca del cibo. Le nostre papille gustative si sono evolute per spingerci a preferire gli alimenti più ricchi di molecole ipercaloriche (a bassa disponibilità in natura) come zuccheri, sali e grassi ed evitare invece quelli amari, generalmente associati a tossine. E' come se avessimo un GPS corporeo che ci spinge verso cibi che data l'attuale abbondanza si traducono in bombe ad orologeria metaboliche.


10 - .... l'elenco potrebbe continuare 
Potremmo andare avanti citando molti altri esempi di vestigia funzionali o di strutture "migliorabili, dai capezzoli maschili all'appendice, dai tumori della pelle nel fototipo chiaro a tutti gli inconvenienti dell'invecchiamento più evidenti negli umani che in altri animali (ma solo perché oggi viviamo più a lungo di quanto la selezione naturale ci abbia "plasmato" --> QUI o il tag "invecchiamento" ) oppure del punto cieco nei nostri occhi, dei muscoli vestigiali ancora presenti per muovere l'orecchio, del coccige da cui un tempo spuntava la coda, dei problemi per i maschietti del sedersi a lungo su sellini di biciclette, ... .
Come scritto sopra, il corpo è costruito su un vecchio modulo, costituito da parti aggiunte o migliorate di volta in volta quasi fossimo delle creature assemblate da un geniale dr. Frankestein in grado di usare i pezzi disponibili per fare l'upgrade al modello successivo.
Nondimeno si tratta di un mirabile esempio di come l'evoluzione sappia fare di necessità virtù e di come ciascuno di noi (ivi compresi gli altri animali, piante, protozoi, funghi e microbi) siamo il prodotto preziosissimo di 3,5 miliardi di anni di messa a punto.

(clicca per ingrandire)


Il batterio che deve il suo nome ai Midichlorian di Guerre Stellari

Il batterio ... ispirato a Star Wars
In contemporanea al successo mondiale che sta riscuotendo "Rogue One" come non citare quella che nella saga di "Star Wars" sono il fondamento stesso della "Forza", i midi-chlorians? Qualunque fan ricorderà che questo è il nome della forma di vita microscopica che vive all'interno delle cellule ed è alla base non solo della Forza ma della vita stessa. 
Questa la frase detta da Qui-Gon Jinn ad Anakin Skywalker (cit. "Star Wars - La minaccia fantasma") che descrive la loro funzione:
"Without the midi-chlorians, life could not exist, and we would have no knowledge of the Force. They continually speak to us, telling us the will of the Force. When you learn to quiet your mind, you'll hear them speaking to you."
Biologicamente parlando, un perfetto esempio di endosimbiosi.
Passando dalla finzione filmica alla realtà biologica, si è preso spunto da questi esseri fantasiosi per battezzare una particolare specie di batteri con il nome Midichloria mitochondrii. Il senso di questa scelta apparentemente bizzarra sta nell'importanza di questo organismo, imparentato con gli organismi procarioti che 1,5 miliardi di anni fa furono catturati dalla cellula proto-eucariote e dopo essere scampati alla "digestione" diedero origine ai mitocondri. Un passaggio cruciale per la "nascita" della cellula eucariote che si ripeterà successivamente con l'inglobazione di cianobatteri (batteri fotosintetici) che si trasformeranno nel tempo negli attuali cloroplasti, l'organello essenziale delle cellule vegetali.
(--> teoria endosimbiontica).
I principali eventi di endosimbiosi che hanno reso possibile la vita come la conosciamo sul nostro pianeta




Per ulteriori dettagli sul tema vi rimando all'articolo precedente su questo blog --> "Dalla "Forza" di "Star Wars" l'ispirazione per il nome del batterio Midichloria mitochondrii"


***
Articolo successivo sul tema --> "Loki, Asgard e prima ancora Midichlorian"


Tibetani e i geni denisoviani: il contributo di un popolo estinto all'adattamento

In un precedente articolo descrissi l'affascinante susseguirsi di eventi che portò alla scoperta del ramo "denisoviano" del genere Homo. Un "parente" fino ad allora sconosciuto, ed estinto, tra quelli più prossimi a noi, oltre agli arcinoti neanderthal (vedi QUI).
Due furono i "miracoli" che resero possibile questa scoperta:
  • il riconoscimento (come tale) di un mini reperto, trovato in un'area ricca di fossili neanderthaliani, riconducibile ad un piccolo ossicino delle falangi (vedi foto a lato);
  • l'eccezionale stato di conservazione che ha permesso non solo di estrarne il DNA ma di ottenere l'intera sequenza genomica. E furono proprio i dati genomici (grazie alla comparazione delle sequenze di riferimento) ad evidenziare che non si trattava di un fossile neandertaliano e tanto meno di un sapiens pur essendone chiaramente "parente". Il reperto doveva appartenere ad una altra specie di ominide, ribattezzato Homo denisova. Articolo successivo sul tema --> Ricostruito l'aspetto di un denisoviano grazie alla epigenetica.
l frammento osseo da cui si è risaliti al genoma denisovano
(credit: MPI for Evolutionary Anthropology, Germany)

Il termine "specie" in realtà non sarebbe corretto in quanto in biologia tale attributo identifica organismi strettamente imparentati ma non in grado di generare progenie fertile (esempio classico di specie diverse sebbene molto affini sono l'asino e il cavallo la cui progenie è sterile). Dato che tutte le popolazioni non-africane (e vedremo sotto perché) hanno conservano tracce genetiche di Neandertal (tutti) e di Denisova (principalmente melanesiani, tibetani e alcune popolazioni delle Filippine), gli incroci tra sapiens e denisoviani sono avvenuti e hanno, ovviamente, generato una prole fertile. Quindi sarebbe meglio catalogare questo ramo del nostro albero genealogico come sub-specie.

I dati genetici ci mostrano che i nostri antenati non avevano remore di fronte alla prospettiva di accoppiarsi con altri ominidi. Questo è da sempre noto per quanto riguarda le primissime fasi dell'evoluzione del genere Homo (quando ancora risiedeva in Africa) ma per quanto riguarda il sapiens è sempre stato fonte di dibattito. Prima di tutto perché non si era sicuri del fatto che sapiens e neandertal si fossero mai incontrati e poi perché era difficile fare previsioni sulla compatibilità genetica tra i due. Le conoscenze (oltre all'evoluzione della tecnologia) derivate dal completamento del Progetto Genoma hanno fugato i dubbi dimostrando la presenza di DNA neandertaliano in tutte (e solo) le popolazioni sapiens non africane. Una acquisizione fondamentale nel processo di adattamento alle zone climaticamente sfavorevoli che il sapiens (ultimo tra gli ominidi ad abbandonare l'Africa) si trovò ad affrontare nel suo percorso dal medio-oriente verso Europa e Asia. Una rotta che lo portò a transitare in aree abitate da cugini Neandertal già adattatisi (vivevano li da almeno 100 mila anni) ai climi più freddi e meno luminosi del nord. Questa la ragione che spiega perché le odierne popolazioni africane siano prive di ogni traccia di neandertal e perché etnie anche molto lontane tra loro (un calderone che va dal melanesiano al nativo americano all'europeo) ne siano invece dotate.
Nota. Il genoma della maggior parte degli europei e asiatici contiene il 2-4% di DNA neanderthaliano. Il DNA denisoviano oscilla tra tracce minime fino al 5% del genoma dei melanesiani.
Ora a distanza di qualche anno dalla scoperta dell'Homo denisova nuovi dati permettono di collocare i tibetani tra gli eredi dei denisoviani e di spiegarne così il loro "rapido" (geneticamente parlando) adattamento alle alte quote.
I tibetani e la loro "innata" capacità di vivere ad alta quota (Credit: Beijing Genomics Institute via domeonline.co.nz)
Andiamo con ordine.
Vivere ad alta quota non è semplice per il nostro organismo principalmente a causa della bassa pressione di ossigeno che da 159 mm Hg a livello del mare si abbassa a 110 mm Hg a 3000 metri. 
Gli alpinisti professionisti conoscono i rischi associati al mal di montagna (che può comportare un semplice mal di testa ma degenerare in edema polmonare e morte) e li minimizzano mediante un graduale processo di adattamento o limitando il tempo di permanenza ad alta quota.
La bassa percentuale di ossigeno attiva meccanismi regolatori distinti  a seconda del tempo di permanenza in tali condizioni. Nel breve termine (ore o giorni) l'aumento della frequenza respiratoria e del battito cardiaco faciliterà l'ossigenazione dei tessuti compensando così la minore efficienza di carico dell'ossigeno sull'emoglobina (costruita per essere "saturata" a pressioni parziali di ossigeno maggiori). A lungo andare tuttavia  questo sforzo circolatorio provocherebbe un eccessivo affaticamento al sistema respiratorio e vascolare, motivo per cui entrano in azione contro-misure più efficaci e durature come l'aumento degli eritrociti e del volume ematico che aumentano l'emoglobina circolante e la capacità di perfusione dei tessuti. In parallelo si ha un lieve aumento del numero di mitocondri e del livello di enzimi ossidativi così da massimizzare la capacità cellulare di utilizzare l'ossigeno. 
Lo svantaggio di questo adattamento è la maggiore viscosità del sangue dovuta ad una aumentata cellularità, da cui l'aumentato rischio di problemi cardiovascolari per chi vive ad alta quota. Altri problemi noti sono un alto tasso di mortalità infantile.

Nonostante queste premesse, i tibetani sono un mirabile esempio di popolo perfettamente adattato al proprio ambiente. I motivi, come ovvio, sono rintracciabili nella genetica e, cosa per me più interessante, nella antropologia evolutiva.
Uno studio pubblicato su Nature da un team della University of California a Berkeley, spiega che i tibetani devono questa resistenza ad un allele (variante genica) ereditata dai denisoviani almeno 40 mila anni fa (periodo in cui si ritiene si siano estinti).
Questa variante ha permesso loro di sopravvivere ai bassi livelli di ossigeno presenti a 4500 metri senza per questo soffrire delle problematiche cardiovascolari (tra cui il sangue denso) attese. Una conferma, secondo gli autori dell'articolo, "che il processo adattivo ha sfruttato i geni di un'altra specie".

Il gene chiave, chiamato EPAS1, si attiva quando il livello di ossigeno ematico scende, ed è l'interruttore che da il via alla catena di eventi che porta all'aumento dei livelli di emoglobina. Non a caso alcune varianti di questo gene sono state ribattezzate come il "gene del superatleta" in quanto a basse altitudini rende l'atleta capace di trasportare molto più ossigeno nel sangue, aumentando la resistenza alla fatica muscolare. Queste varianti "comuni" nella popolazione generale non sono però particolarmente utili ad alta quota se non nel breve periodo proprio perché aumentano il numero di globuli rossi e quindi la viscosità ematica.
La variante presente nei tibetani è diversa nel senso che è meno responsiva alla minore pressione di ossigeno; vale a dire che il livello di emoglobina aumenta si ma meno di quanto avviene con la forma classica del gene. L'incremento è sufficiente per ossigenare il sangue ma non tale da provocare gli effetti indesiderati sopra descritti.
L'adattamento genetico a vivere in alta quota presenta alcuni tratti comuni alle diverse popolazioni e altri specifici per ciascuna. Caratteristica comune è l'aumento del volume polmonare che si evidenzia dall'esterno con una più ampia gabbia toracica. Un incremento del volume polmonare si associa ad un aumento della superficie alveolare e quindi una più efficiente ossigenazione del sangue.
Riguardo ai tratti specifici questi variano a seconda della popolazione in esame. Le popolazioni andine hanno un maggior numero (per unità di volume) di globuli rossi e di emoglobina, grazie alle quali aumenta la capacità di trasporto di ossigeno. Si tratta di un adattamento reversibile perché in caso di permanenza a bassa quota per qualche settimana, i valori diventano simili a quelli degli abitanti di bassa quota. Se analizziamo invece i tibetani, oltre a quanto letto nei paragrafi precedenti, l'adattamento è di tipo respiratorio con respiri profondi e veloci a cui si aggiunge un maggior diametro dei vasi sanguigni. In questo caso si tratta di una modifica permanente che non varia anche in seguito al cambio di residenza. Gli etiopi degli altopiani non presentano invece alcuno dei precedenti adattamenti ma hanno una variante polimorfica del gene codificante per il recettore di tipo B della endotelina, che conferisce maggiore resistenza cardiaca alla carenza di ossigeno.
Ebbene, questa rarissima variante genetica (di fatto presente solo nei tibetani) è presente nel DNA denisoviano. Nemmeno gli Han, l'etnia cinese più comune che per ragioni geografiche dovrebbe essere più affine ai tibetani, ha questo allele. Il fatto che i tibetani abbiano pochissimo DNA denisoviano rispetto ai melanesiani (lo 0,1% contro il 5%) è un'altra indicazione del vantaggio selettivo centrato sull'allele EPAS1.

Lo scenario evolutivo-migratorio più probabile ad oggi vede i sapiens provenienti dall'Africa incrociarsi prima con i neanderthal (e da qui l'origine di tutte le popolazioni non africane) e poi, nella marcia verso oriente, l'incontro con i denisoviani. Ci sarebbe stata a questo punto una separazione tra coloro che colonizzarono il Tibet e tutti gli altri che invece avrebbe continuato a vivere a bassa quota. Nel primo caso la variante genica sarebbe stata conservata proprio per il vantaggio selettivo associato, mentre negli altri orientali questo allele si sarebbe "diluito" nel corso delle migliaia di generazioni successive in quanto né utile né dannosa (quindi non selezionata). 
Non è chiaro ad oggi se le popolazioni ad oggi più simili ai denisoviani (i negritos delle Filippine ad esempio) siano originate dallo stesso contatto che poi ha portato ai tibetani.
L'espansione umana e l'incontro con i "cugini" Homo ( credit: KR Veeramah & MF Hammer / Nature Reviews Genetics). Altra mappa utili alla comprensione QUI.

E' oggi evidente che il percorso evolutivo della specie sapiens si è avvalso del contributo di altre specie del genere Homo oramai estinte, di cui nulla sapremo in assenza di miracolosi ritrovamenti fossili, sufficientemente conservati da poterne analizzare il DNA. La speranza è quella di imbatterci  in reperti come quelli ritrovati in una grotta dell'Asia centrale (i reperti trovati in Sudafrica poche settimane fa sono molto interessanti ma anche ben anteriori alla comparsa dei sapiens --> Homo maledi).

Studi recenti (Current Biology e Science) ha permesso di aggiornare la mappa della frequenza degli alleli denisoviani. I dati hanno permesso anche di aggiornare il momento dell'incrocio tra sapiens e denisova (tra 44 e 54 mila anni fa) e del sapiens con neanderthal (50-60 mila anni fa)


*** aggiornamento maggio 2019 ***
Un reperto osseo (la porzione inferiore di una mandibola) rinvenuto all'inizio degli anni '80 da un monaco tibetano in una grotta in località Baishiya Karst è stato ora ufficialmente catalogato come reperto denisovano il che lo pone come primo reperto della specie mai rinvenuto oltre a quelle della grotta Denisova (--> Nature)
Credit: Dongju Zhang, Lanzhou University via Nature

Articolo successivo su denisovani e tibetani --> "DNA denisovano in una grotta tibetana"

Altri articoli correlati su questo blog
sul tema "evoluzione recente genere Homo --> QUI
 Sull'origine degli amerindi --> QUI

Sui temi di antropologia --> QUI

Fonte
- Altitude adaptation in Tibetans caused by introgression of Denisovan-like DNA 
Emilia Huerta-Sánchez et al, (2014) Nature 512, 194–197

- The Combined Landscape of Denisovan and Neanderthal Ancestry in Present-Day Humans 
S. Sankararaman et al, (2016)  Current Biology

Giovani ricercatori che ribaltano dogmi biomedici

Vimal Selvaraj, professore associato di scienze animali alla Cornell University, è diventato il protagonista di una mini rivoluzione scientifica dopo la pubblicazione di un suo articolo sul Journal of Biological Chemistry. Rivoluzione centrata sulla confutazione del coinvolgimento di una proteina nella via di sintesi degli steroidi.
Vimal Selvaraj e Lan Tu (Cornell University)
Un tema tutt'altro che secondario dato che endocrinologi e aziende farmaceutiche hanno investito tempo (decenni) e milioni di dollari in studi che prendevano di mira la proteina (de facto) sbagliata  per sviluppare terapie contro vari disturbi ormonali.
La proteina è la TSPO e il pathway coinvolto è quello che vede il colesterolo come uno degli attori principali. In estrema sintesi, il colesterolo, oltre ad essere un elemento essenziale della membrana cellulare animale, è il mattone di partenza per la sintesi degli ormoni steroidei (testosterone, estrogeni e cortisolo); tuttavia per essere trasformato deve prima attraversare due membrane mitocondriali, e per farlo ha bisogno dell'aiuto di un "trasportatore".
L'assunto finora incontrastato identificava nella TSPO il trasportatore, rendendolo quindi il bersaglio principale su cui disegnare farmaci specifici per ripristinare vie ormonali deficitarie in una delle vie biosintetiche sotto raffigurate.
Il colesterolo come punto di partenza per molte vie biosintetiche(©wikimedia)
Una teoria sostanziata da centinaia di articoli scientifici ottenuti principalmente dallo studio di linee cellulari. Quasi assenti invece gli esperimenti su animali in quanto dati precedenti avevano indicato che topi privi del gene TSPO non sopravvivevano oltre lo stadio embrionale, rendendo di fatto inutile ogni sperimentazione.
Ed è in quest'ultimo punto che lo studio di Selvaraj ha scoperto l'errore.
Avendo la necessità di validare alcuni dati in vivo si trovò di fronte al problema di come fare dato che l'animale "ideale" sarebbe stato quello knock-out (vale a dire privato delle due copie geniche) per la proteina TSPO. Ma se la mutazione è letale embrionale il test non è chiaramente fattibile. Per aggirare il problema pensò intelligentemente di fare un knock-out tessuto specifico, limitato alle sole cellule di Leydig, una modificazione che avrebbe dovuto generare topi privi di tale proteina solo nelle cellule testicolari. I topi sarebbero così sopravvissuti alla fase embrionale e gli adulti sarebbero sarebbero stati sani ma, ovviamente, sterili (le cellule di Leydig sono le principali produttrici di testosterone). Questo se la teoria standard sulla funzione del TSPO fosse stata corretta.
Ma i risultati furono negativi, nel senso che i topi erano si vitali ma erano anche fertili. Il dato fece sorgere qualche dubbio nei ricercatori che decisero di ritestare l'assunto generale, cioè il fatto che la mutazione knock-out (KO) fosse effettivamente letale embrionale .
Risultato, i topi TSPO KO (quindi mutati in tutte le cellule e non solo nelle cellule di Leydig) oltre a nascere vivi e a non presentare anomalie evidenti, erano in grado di generare prole; chiara indicazione che la sintesi degli ormoni steroidei non viene alterata dalla assenza di TSPO.
Diverse le possibili spiegazioni, tra cui la più semplice è che TSPO esplica una funzione ridondante (coperta da altre proteine) o che i precedenti studi sui topi fossero viziati da caratteristiche genetiche specifiche del ceppo murino usato. Nella peggiore delle ipotesi, la funzione di TSPO non ha nulla (o solo incidentalmente a che fare) con il trasporto del colesterolo e allora ci la domanda d'obbligo è quale sia la sua funzione soprattutto alla luce del fatto che si tratta di biomarcatore utile non solo in alcune patologie nervose ma anche in molti tipi di tumori.
Unica certezza è che tutti gli studi che in questi anni hanno usato il TSPO come target per sviluppare terapie contro l'infertilità e l'iperplasia congenita del surrene, non avevano grosse possibilità di successo dato che miravano al bersaglio sbagliato.
Nota. Non è superfluo sottolineare come questo caso sia paradigmatico dell'importanza della sperimentazione animale (fatta in maniera ripetuta e su più modelli) dato che i sistemi in vitro e le colture cellulari non sono in grado di catturare la complessità degli organismi. Ripeto. I dati ottenuti dalle colture cellulari hanno completamente mancato di identificare la complessità sottostante. Non si sarebbe mai potuto scoprire che la proteina TSPO era un target terapeutico errato se Selvaraj non avesse insistito nel voler usare un modello animale.
L'elemento positivo di questa storia è la capacità della scienza di autocorreggersi anche quando gli attori in gioco sono "asimmetrici": guru ed estabilishment da una parte e giovani ricercatori motivati dall'altra (sul tema "controlli interni nella scienza vedi anche questo articolo)

I risultati sono stati presentati nel 2014 al Congresso Internazionale di Endocrinologia dove gli autori sono stati premiati per il contributo eccezionale fornito alla conoscenza sull'argomento.

Fonti
- Peripheral Benzodiazepine Receptor/Translocator Protein Global Knockout Mice are Viable with no Effects on Steroid Hormone Biosynthesis 
Lan N. Tu et al, J. Biol. Chem. (2014)

Dal DNA di un bambino siberiano del paleolitico indizi sui primi coloni americani

Lo studio del DNA di un bambino siberiano di 24 mila anni fa è la chiave per identificare le popolazioni che colonizzarono le Americhe

Chi siano stati i primi umani a colonizzare le Americhe è ancora oggi oggetto di discussione. Non mi riferisco ovviamente all'annosa questione su chi tra Colombo, i vichinghi o ... i fenici abbia scoperto le americhe (stucchevole in quanto la scoperta implica la comunicazione ad altri della scoperta). Mi riferisco agli antenati dei cosiddetti nativi americani e in particolare a quale popolazione appartenessero oltre la generica definizione di "popolazioni asiatiche".
Schema riassuntivo degli eventi legati alla migrazione umana nelle americhe (credit: wikimedia/Lhoover724). Vedi anche

Il calo delle temperature culminato con le ere glaciali non è un fenomeno recente dato che è iniziato con la fine del periodo Cretaceo.


(wikimedia in Settlement of Americas)
Una domanda alla quale si può oggi cercare di dare una risposta più dettagliata grazie alle attuali conoscenze nel campo della genomica e nelle sue applicazioni in ambito di population genomics. Se fino a poco tempo erano le similitudini morfologiche e scheletriche a giocare un ruolo chiave nel definire i gradi di parentela tra nativi americani e popolazioni orientali, oggi è sempre più chiaro che questa associazione fornisce un quadro quantomeno riduttivo che non tiene conto né della molteplicità dei flussi umani attraverso l'allora percorribile (sia perché ghiacciato che per il fatto di essere allora parte della terraferma) stretto di Bering né degli incroci avvenuti mano a mano che i nuovi arrivati si spostavano verso sud incontrando coloro che erano arrivati prima. Flussi terminati al termine dell'era glaciale e al successivo innalzamento delle acque (pari a circa 120 metri) che impedì fino all'arrivo degli spagnoli ogni altra "contaminazione" genetica.
Se passare da un continente all'altro non fu particolarmente difficile nel periodo compreso tra 38 e 15 mila anni fa, uno degli ostacoli più significativi incontrati dagli inconsapevoli "neoamerindi" consisteva nello spostarsi verso sud: l'estesa area ghiacciata che ricopriva il Canada insieme agli imponenti massicci montuosi limitarono il transito solo in alcuni periodi e con poca scelta sui percorsi possibili. Due sono le rotte oggi considerate come le direttive di spostamento seguite, a seconda delle condizioni climatiche: il corridoio di Mackenzie (anche noto come corridoio interglaciale Yukon-Alberta) e la rotta costiera che dall'Alaska permette di arrivare a nord dell'attuale stato di Washington. Entrambe percorribili solo in alcune epoche e non "contemporaneamente".  Bisogna allora distinguere tra le prime tracce umane in Alaska (20-30 mila anni fa) e la definitiva chiusura del passaggio attraverso lo stretto con la fine dell'era glaciale (circa 13 mila anni fa).

Altro elemento chiave da tenere sempre presente è nella velleità nel parlare genericamente di similutidini tra amerindi e popolazione orientale, in un periodo in cui le popolazioni erano in piena fase espansiva dall'occidente e dal sud dell'Asia.
A tal proposito consiglio la lettura di un precedente articolo su Homo denisova e sugli incroci con i sapiens durante l'espansione verso oriente, evento avvenuto non tanti secoli prima (--> QUI).
Data la complessità del fenomeno sono chiaramente sempre benvenuti articoli su analisi genomiche condotte su reperti umani trovati "in aree spaziali e temporali" compatibili con popolazioni candidate ad avere generato le migrazioni verso le americhe. La analisi pubblicata sulla rivista Nature da un team del Natural History Museum danese rientra tra questi articoli; un lavoro centrato sulla sequenza completa del DNA ottenuto da resti ossei di un  bambino siberiano di quattro anni morto 24 mila anni fa.
Il reperto (MA-1) venne scoperto nel 1920 da archeologi russi vicino al villaggio di Mal'ta, lungo il fiume Belaya nella Siberia centro-meridionale. Oggi, grazie al progresso delle tecnologie della genomica è stato possibile ricavare da quel campione museale una quantità di DNA sufficiente per una analisi approfondita.
Si tratta, è bene ricordarlo, del più antico genoma di un essere umano moderno mai studiato.
Reperto importante in quanto sia da un punto di vista geografico che temporale è concorde con le popolazioni da cui si sono verosimilmente staccati  i gruppi che hanno attraverso lo stretto. Il confronto tra questo genoma e quello ricavato da analoghi reperti americani è fondamentale per illuminare un periodo lontano nel tempo.
Utilizzare il DNA delle popolazioni native, anche ammettendo di usare campioni da soggetti privi di ogni traccia genetica derivante da europei, è poco utile. Come accennato in apertura di articolo, non si è trattato di un singolo evento migratorio come invece avvenuto su molte isole del Pacifico, ma di una serie di passaggi e di successive migrazioni verso sud che hanno generato incroci che coprono tutto l'arco temporale precolombiano. Il confronto tra il reperto siberiano e reperti umani americani (preferibilmente trovati tra Canada e Alaska) è al contrario molto più utile in quanto non  "contaminato" da incroci.
La distribuzione degli aplogruppi nelle popolazioni umane (credit: wikimedia/Maulucioni)

Questi i punti chiave emersi dall'analisi:
  • Il genoma mitocondriale (trasmesso unicamente per via materna) appartiene all'aplogruppo U, presente con alta frequenza anche tra i cacciatori-raccoglitori che vivevano in Europa nel Paleolitico superiore e del Mesolitico.
  • Il cromosoma Y (trasmesso unicamente per via paterna tranne per la zona pseudoautosomica) ha diversi punti di contatto con le popolazioni eurasiatiche occidentali moderne e con quelli presenti in molte popolazioni dei nativi americani.
  • La componente autosomica del genoma mostra parimenti molte somiglianze con i moderni eurasiatici occidentali e con i nativi americani ma - molto importante - scarsa somiglianza con le popolazioni dell'estremo oriente. 
  • Il soggetto MA-1 presenta omologie con un reperto umano (Kostenki 14) trovato nella Russia europea e risalente a 37 mila anni fa (Paleolitico superiore). Come atteso in base a quanto noto (vedi articolo su Homo Denisova) le tracce di Neanderthal nel reperto russo sono evidenti, ad indicare l'appartenenza ad una popolazione diffusa tra Europa ed Asia centrale.
L'insieme di questi dati suggerisce che le popolazioni eurasiatiche si erano spinte già 24 mila anni fa più a nord-est di quanto finora previsto. Incrociando i dati attuali con quelli di reperti americani e con quelli ricavati da popolazioni "pure" di nativi, è possibile stimare che il 14-38% dei nativi americani discenda da questo antico popolo eurasiatico. E' altrettanto ovvio che nella migrazione (lunga molti secoli) verso nord-est del gruppo che avrebbe poi varcato lo stretto di Bering, si sono avuti molteplici incroci con gli antenati delle attuali popolazioni dell'estremo oriente, prima però che avvenisse la diversificazione nelle diverse popolazioni del Nuovo Mondo. Questo spiega la coesistenza di tratti somatici (e scheletrici) asiatici degli amerindi insieme a marcatori genetici che richiamano invece popolazioni eurasiatiche.

Nuovi dati emergono dall'analisi di un nuovo campione siberiano "più recente" (Afontova Gora-2) risalente a 17 mila anni fa. Sebbene troppo recente per essere di interesse per lo studio dei proto-amerindi, questo campione è interessante in quanto ha una "firma genetica" molto simile a quella di MA-1, ad indicare che la regione è stata abitata in modo continuativo (prima e dopo) dalle popolazioni da cui sono partite le migrazioni. Una popolazione poi diluita con il continuo contatto con le popolazioni meridionali "propriamente" asiatiche.

In conclusione possiamo dire che i dati ad oggi disponibili mettono una pietra tombale alla precedente ipotesi che spiegava la presenza negli amerindi di tracce genetiche assimilabili a quelle eurasiatiche come il risultato di una contaminazione post-colombiana

Come avrebbe potuto apparire l'Uomo di Kennewick
(Brittney Tatchell, Smithsonian Institution via abcnews.go)
La conclusione ad oggi più corretta è che i nativi americani sono il risultato della unione di due popolazioni - uno  dell'Asia orientale e l'altro da popolazioni eurasiatiche occidentali - anche se rimane da capire dove questa unione si sia verificata. Potrebbe essere accaduto da qualche parte in Siberia oppure nel Nuovo Mondo.

La risposta potrà venire solo dall'analisi di reperti umani nordamericani (come l'Uomo di Kennewick vecchio di 9 mila anni): se  i reperti mostrassero la presenza di marcatori orientali e eurasiatici allora l'incrocio sarebbe anteriore all'attraversamento dello stretto.



(Articoli precedenti sul tema "H. sapiens moderno e incroci" -->  neanderthal e denisova

Fonte
- Upper Palaeolithic Siberian genome reveals dual ancestry of Native Americans
  Maanasa Raghavan et al, (2014) Nature,  505, pp. 87–91
Powered By Blogger
"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper