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Approvata dalla FDA la prima pillola digitale

L'agenzia per il farmaco americana FDA, ha approvato il primo prodotto che coniuga la presenza di un principio attivo con un dispositivo miniaturizzato per monitorare l'avvenuta ingestione del farmaco.
Ho già scritto di questo prodotto sul blog tempo fa, quando si era ancora nelle fasi iniziali del percorso, per sottolinearne l'utilità potenziale. Per approfondimenti --> "La pastiglia digitale" (2012) e --> "Pillole e chip" (2016).
Il prodotto nasce per cercare di risolvere uno dei problemi più importanti nella terapia cioè la valutazione dell'efficacia terapeutica di un farmaco al netto della sua corretta assunzione; in altre parole l'aderenza del paziente alla posologia prescritta. Un problema grave e molto frequente quello della compliance (aderenza al protocollo terapeutico) sotto gli occhi di tutti; quante volte abbiamo sentito dire "massì smetto gli antibiotici prima del tempo", "mi sento bene, perché dovrei continuare ad assumere le pastiglie sera e mattina?", "cosa vuoi che cambi se salto una dose, domani ne prendo due", etc etc . Un atteggiamento il cui impatto nei soli USA è stato stimato pari a circa 300 miliardi di dollari di costi aggiuntivi,  calcolato come conseguenza di prodotto male utilizzato e da qui l'ulteriore spesa per trattamenti prolungati (o inutili se non fatti correttamente) e del costo economico legato a diminuita produttività di chi rimane malato in quanto affetto da "patologia curabile non curata"
Pastiglia e chip
Photo: Proteus Digital Health via theverge.com
Il prodotto ora approvato si chiama Abilify MyCite e unisce l'antipsicotico aripiprazolo della Otsuka Pharmaceutical (approvato già nel 2002) con il chip  della Proteus Digital Health (approvato di suo nel 2012). Il chip delle dimensioni di 1 mm si attiva una volta che la pillola inizia a dissolversi al contatto con l'ambiente acido dello stomaco; il chip liberato invia un segnale che viene prima catturato da un cerotto sulla pelle con funzioni di trasmettitore, il quale "gira il messaggio" wireless ad uno smartphone. Scopo ultimo è quello di accertarsi che la persona in terapia stia seguendo il trattamento. Non è un caso se il prodotto è stato pensato come adiuvante terapeutico per i soggetti affetti da psicosi e/o con problemi cognitivo/mnemonici per i quali non è raro dimenticarsi in toto di dovere prendere il farmaco o, cosa ancora più comune, decidere in autonomia di non averne più bisogno con ovvia riacutizzazione della malattia anche in presenza di un trattamento di per sé efficace.
La FDA ha infatti approvato il prodotto combinato come compendio nel trattamento della schizofrenia, del disturbo bipolare di tipo I e della depressione.
Nota. Nonostante i due prodotti costituenti fossero già stati approvati, è stato necessario richiedere una nuova autorizzazione per l'utilizzo combinato. La ragione è semplice e si basa sulla necessità di provare sia che l'uso combinato non incide negativamente sulla funzionalità dei singoli costituenti ma anche che abbia una utilità che giustifichi la copertura finanziaria, assicurativa o del SSN che sia. Una prima richiesta di approvazione presentata nel 2015 era stata rifiutata dalla FDA in quanto non convinta della effettiva utilità terapeutica. La nuova domanda, presentata invece nel 2017 è stata accettata sotto la voce di "compendio" (e non terapia) utile sia per i familiari che per il medico curante al fine di monitorare a distanza l'effettiva aderenza terapeutica del paziente. I dati presentati non hanno infatti dimostrato che la pillola aumenta l'aderenza ma sono utili per il terapeuta per cercare soluzioni condivise con il paziente e per capire se il problema della non assunzione sia di natura "volontaria" o per dimenticanza.
 Tra le potenzialità offerte dal prodotto quelle in ambito di sperimentazione clinica durante la quale si arriva facilmente alle migliaia di persone in esame e di cui a volte (nei trattamenti semplici come l'assunzione di una pastiglia) ci si deve fidare; le conseguenze di omesso utilizzo non dichiarato hanno infatti importanti conseguenze in fase di analisi dei dati che mischiano dosaggi reali e ipotetici inficiando così anni di sperimentazione; il che a cascata obbliga spesso all'assunzione del farmaco sotto supervisione del medico con conseguente spreco di tempo sia per il paziente che per il medico.

Fonti
- FDA approves pill with sensor that digitally tracks if patients have ingested their medication



Piante "bioniche" come sensori ambientali

I biosensori sono il punto di incontro tra biologia e applicazioni in campo ecologico e industriale.
(credit: Christine Daniloff/MIT)
Il concetto alla base di questi sensori è quello di sfruttare la naturale capacità degli organismi di "capire" l'ambiente circostante (fondamentale per la loro esistenza) unendole alla nostra inventiva in modo da creare strumenti di rilevazione utilizzabili per tenere sotto controllo parametri tra i più diversi che vanno dalla comparsa di focolai di incendi alla presenza/carenza di determinate molecole nel terreno.

Un esempio recente delle potenzialità di queste tecniche di bio-hacking viene da uno studio del gruppo di Michael Strano del MIT pubblicato sulla rivista Nature Materials in cui si descrive l'incorporazione di nanotubi fluorescenti basati sul carbonio nelle piante di spinaci.
Nello specifico i ricercatori hanno rivestito i nanotubi di carbonio con peptidi capaci di legare i composti nitroaromatici, e infine hanno incorporato le nanoparticelle sulle foglie delle piante di spinaci.

Se nel terreno in cui si trova la pianta sono presenti molecole nitroaromatiche, queste verranno assorbite dalle radici e una volta raggiunte le foglie ne indurranno la fluorescenza, rilevata da sensori presenti nel campo. Il segnale verrà quindi trasmesso wireless allo smartphone permettendo così una rapida identificazione (e mappatura) delle aree inquinate, siano esse industriali o prossime a incidenti o a sversamenti non autorizzati).
Gli esperimenti in laboratorio hanno dimostrato che sono sufficienti anche solo 10 minuti tra il posizionamento nel terreno inquinato e la comparsa di fluorescenza sulle foglie.
L'idea di una pianta "sentinella" per la presenza di inquinanti
(image credit:ucresearch.tumblr.com)

La tecnologia potrebbe essere utilizzata anche per identificare altri tipi di molecole siano esse correlabili ad esplosivi o armi non autorizzate (il gas sarin ad esempio) che ad inquinanti industriali.

Il problema principale su cui i ricercatori devono lavorare è ampliare l'area "coperta" da ogni singola pianta in modo da favorire un monitoraggio estensivo.

Video riassuntivo della notizia
 Se non vedi il video -->yotube

Articoli precedenti su temi correlati
--> Batteri biosensori
--> Bruchi che digeriscono plastica
--> Un gadget per sterilizzare l'acqua
oppure il tag --> "ambiente"

Fonte
- Nitroaromatic detection and infrared communication from wild-type plants using plant nanobionics
Min Hao Wong et al,  (2017) Nature Materials 16, pp264–272

- Using Spinach to Detect Explosives
engineering.com


- Spinach really IS a super food! Modified leaves are transformed into sensors that can detect landmines
dailymail.co.uk


Per chi volesse approfondire il tema segnalo i libri di due ricercatori di fama internazionale come Daniel Chamovitz della università di Tel Aviv e Stefano Mancuso della università di Firenze.



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Usare la fluorescenza per seguire la divisione cellulare

La mitosi, la serie di eventi che porta una cellula a scindersi in due cellule figlie dotate dello stesso patrimonio genetico, è un punto chiave per qualunque cellula eucariotica ed è alla base dell'esistenza stessa di un organismo pluricellulare.

Ovviamente anche la proliferazione di batteri e funghi si basa su eventi di duplicazione e ripartizione del DNA nelle cellule figlie, ma presentano alcune particolarità distintive (dovute all'assenza di un nucleo e/o a fenomeni come la divisione cellulare asimmetrica) che non verrano qui trattate.
Va da sé che la mitosi è un processo altamente regolato dalla cellula e qualunque anomalia in questa fase avrà conseguenze negative anche a livello "superiore" che vanno dal tumore (proliferazione incontrollata) a deficit funzionali causati da penuria di cellule di un certo tipo (causata da riduzione nel processo proliferativo e/o differenziativo delle cellule pluripotenti a monte).

Lo studio del ciclo cellulare rappresenta quindi un'area chiave nella sperimentazione di nuovi farmaci. Le tecniche di indagine sono molteplici e vanno dalla "semplice" microscopia a luce visibile a quella a fluorescenza, fino all'indagine delle modificazioni molecolari che caratterizzano e definiscono ciascuna fase del ciclo.
Volendo schematizzare le fasi del ciclo cellulare possiamo scegliere due strade, una morfologica ed una funzionale. Nella prima modalità distingueremo le cellule in base alla integrità del nucleo e allo stato di condensazione dei cromosomi unito alla loro "posizione" cellulare. Distingueremo così una fase intermitotica (nota come interfase) e le fasi della mitosi vera propria in cui il DNA già replicato comincia a compattarsi originando le forme cromosomali classiche (profase) per poi migrare al centro della cellula guidato dai "fili" del fuso mitotico (metafase). Alla fine le copie duplicate si separeranno andando a localizzarsi alle due estremità della cellula (anafase) che poi si dividerà (telofase).
Possiamo osservare lo stesso processo "più da lontano" distinguendo le diverse fasi come quella tra una divisione e la successiva (fase G1 o G0 se tale fase è di lunga durata o permanente), duplicazione DNA (fase S), controllo cellulare e DNA (fase G2) e mitosi propriamente detta (fase M).

Le diverse fasi del ciclo cellulare viste al microscopio ottico 

Al microscopio ottico è possibile identificare e seguire il progredire delle diverse fasi.
Un grosso aiuto alla visualizzazione viene dall'uso di marcatori fluorescenti capaci di interagire con il DNA e/o con le proteine strutturali (ad esempio la tubulina) che fungono da "impalcature e funi di traino" per il movimento dei cromosomi. Un procedimento oramai classico è la tecnica nota come Fucci (Fluorescence Ubiquitination Cell Cycle Indicator) basata su una serie di sonde fluorescenti che colorano in rosso le cellule in G1 e in verde quelle in S/G2/M.

(credit: MBL life science)
Se non vedi il video clicca --> QUI
(All credit to Sakaue-Sawano of RIKEN, Japan)

La tecnica Fucci sfrutta due proteine fluorescenti, una rossa per rilevare la proteina CDT1, presente solo nella fase G1, e  una verde per vedere la geminin, presente invece nelle fasi S, G2 e M.
Il limite intrinseco al metodo è che non informa su quale sia esattamente la fase in cui si trova la cellula ma solo se è già avvenuta la divisione cellulare. 
Nota. Ci sono altri modi per identificare in che fase del ciclo si trova una cellula (morfologico e/o mediante citofluorimetria a flusso). 
Grazie al lavoro di ricercatori della università di Stanford i limiti di Fucci sono stati superati. La nuova tecnica, Fucci4, permette di identificare ciascuna delle fasi del ciclo cellulare grazie all'utilizzo di nuovi marcatori.
Nello specifico, i ricercatori hanno prodotto una serie di 26 mutazioni sulla proteina fluorescente rossa con il fine di generare un nuovo colore facilmente distinguibile nelle diverse fasi del ciclo. La procedura mutagenica è stata ripetuta su altri 3 marcatori fluorescenti e questo spiega il nome Fucci4 legato al numero di marcatori fluorescenti in uso)

Le differenze tra Fucci e Fucci4 (credit: extremetech.com) 

In estrema sintesi il marcatore blu "illumina" le cellule in fase G1 o S, quello giallo si accende solo in fase G1 (che quindi nella fase G1 si somma al blu), il marcatore classico verde copre le fasi S-M e infine la versione modificata del rosso (mMaroon1) si palesa solo durante la fase S.



Fucci4 promette di essere un valido strumento capace di monitorare più facilmente l'effetto sulla mitosi dei vari farmaci sperimentali disegnati per bloccare in modo specifico una o più di queste fasi.


Il genoma della tigre della Tasmania offre indizi sulla sua estinzione

La diffusione dell'Homo sapiens ha causato, direttamente o indirettamente, la scomparsa di un numero difficilmente quantificabile di specie animali e vegetali. I motivi sono vari e in molti casi "ineluttabili" in quanto conseguenza della conquista di spazi ecologici via via più ampi, l'entrata in competizione con i predatori preesistenti e la riduzione delle "prede", modificando così gli equilibri naturali. A volte la pressione selettiva sulle specie preesistenti (animali e vegetali) è venuta dalla nostra azione di selezione e "domesticazione" che ha portato alla scomparsa dell'originale in favore di quella "più utile" ai bisogni dell'uomo.
Alcuni la definiscono la sesta estinzione di massa
La modifica dell'ambiente circostante non è però un fenomeno nuovo univocamente attribuibile all'essere umano in quanto ogni essere vivente modifica l'ambiente circostante. Gli ecosistemi non sono entità statiche ma vivono in un equilibrio dinamico in cui ad ogni "variazione" (ad esempio l'ingresso di una nuova specie o il suo improvviso aumento di numero) induce modificazioni anche violente negli equilibri che possono portare alla scomparsa di intere nicchie ecologiche. L'essere umano ha avuto un impatto maggiore per una serie di ragioni tra cui l'essere all'apice della catena alimentare, la sua capacità tecnologica e il suo essersi "emancipato" dalla selezione naturale con conseguente aumento della popolazione. Il risultato è stato una continua e pervasiva antropizzazione dell'ambiente.

Nonostante la forza dell'impatto alcune specie si sono adattate molto bene al nuovo ambiente che anzi viene preferito a quello originario (ad esempio i gabbiani a Milano o le volpi in molte cittadine inglesi per non parlare dei dei roditori); altre specie si sono invece arrese e sono scomparse (o sono destinate a farlo nell'immediato futuro) sia perché attivamente cacciate o perché erano talmente adattate al loro ambiente da non reggere al suo ridimensionamento (vedi il caso del panda legato a doppio filo alla presenza delle piante di bambù che si somma al suo essere un erbivoro strutturalmente poco funzionale).

Se all'azione umana aggiungiamo i cambiamenti climatici naturali (tipo quelli avvenuti dopo l'ultima glaciazione) e i "problemi genetici" (una popolazione troppo piccola, o troppo specializzata, per adattarsi ai cambiamenti rapidi) allora si capisce perché specie prima endemiche in Europa come il mammut e il leone siano scomparse e perché il diavolo della Tasmania sia diventato a rischio di estinzione a causa di un tumore contagioso. Se ci allontaniamo da un'area "pesantemente" antropizzata  da millenni come l'Europa, troviamo casi più recenti di estinzioni come il dodo, il ratto canguro, le tigri di Giava e del Caspio, l'uro, il rinoceronte lanoso, il piccione migratore e il Quagga, solo per limitarci ai casi più noti.
Il quagga, una zebra "a metà" data la presenza delle strisce solo nella parte anteriore, mi fornisce l'aggancio "visivo" per parlare di un altro animale "a strisce" scomparso solo da pochi decenni, cioè la tigre della Tasmania (nome legato solo alle striature, qui posteriori, visto che non solo somigliava più ad un canide che a un felino, ma non era nemmeno un mammifero).
Il tilacino (Thylacinus cynocephalus), questo il nome corretto della tigre della Tasmania, era un marsupiale il cui ultimo esemplare è morto il 7 settembre 1936 in uno zoo in Australia. 

Video di uno degli ultimi esemplari di tilacina 
(se non vedi il video -->youtube)

L'inizio del suo declino coincise con l'arrivo delle prima popolazioni umane qualche decina di migliaia di anni fa e l'inevitabile contatto/scontro tra due predatori apicali. Un equilibrio precario messo poi a dura prova con l'arrivo sul continente del cane australiano, il dingo (Canis lupus dingo), e infine un centinaio di anni fa dai coloni europei dediti alla pastorizia che videro nel tilacino una minaccia (reale) per le loro greggi. Il risultato fu l'istituzione di una taglia di 1 £ per carcassa che portò la specie sul loro dell'estinzione tanto che la taglia venne proibita nel 1909 e i pochi esemplari scampati vennero pagati profumatamente dagli zoo per metterli al riparo. Il loro numero troppo esiguo (e l'inadeguatezza delle tecniche di ripopolamento dell'epoca) resero senza speranza il tentativo di salvarli e infatti meno di tre decenni dopo l'ultimo individuo rimasto si spense.

credit: Baker / Keller / Smithsonian
Negli ultimi anni i genetisti hanno cominciato a studiare il tilacino per ottenere informazioni sia sulla loro parentela con altri marsupiali che per cercare di capire se la popolazione residua era "geneticamente idonea" (cioè ricca) per poter esser salvata. 
Un primo studio pubblicato qualche anno fa sulla rivista Genome Research si basò sull'analisi del DNA mitocondriale (la centralina energetica delle nostre cellule che come ho spiegato in un precedente articolo deriva dalla simbiosi di un batterio con una proto-cellula eucariotica). Il DNA, estratto da alcuni peli di 4 esemplari non imparentati conservati allo Smithsonian Institution di Washington, evidenziò un elevato grado di somiglianza genetica tra i diversi animali, ad indicare una povertà genetica nella popolazione anni prima dell'effettiva estinzione. In altre parole la costante riduzione della popolazione iniziata migliaia di anni fa aveva reso gli animali a rischio estinzione (in quanto geneticamente troppo "poveri") prima del colpo finale, e decisivo, inferto dagli allevatori. Il punto debole dell'analisi era l'essere basata sul DNA mitocondriale le cui dimensioni ridotte al minimo comportano una bassa capacità di "sopportazione" delle mutazioni (e a cascata una minore variabilità genetica che si ripercuote in una minore quantità di informazioni ricavabili dagli studiosi).
A colmare la lacuna arriva ora uno studio dell'università di Melbourne, pubblicato su Nature Ecology and Evolution, che riporta la sequenza completa del genoma del tilacino, partendo dal DNA estratto da un cucciolo di 1 mese trovato nel marsupio della madre conservata in alcol dal 1909 (più che un cucciolo si tratta di un feto visto che il parto nei marsupiali avviene in una fase molto precoce dello sviluppo che verrà poi completato nella "tasca" ventrale della madre).
Le informazioni ricavabili dallo studio del DNA anche di un singolo individuo sono molte e hanno permesso di tracciare l'inizio del declino della specie in un periodo compreso tra 70 e 120 mila anni fa, molto prima che gli umani raggiungessero l'Australia. Un fenomeno osservato anche nel diavolo della Tasmania che tuttavia ha avuto maggior fortuna sia per il suo abitare luoghi "remoti" che per non essere entrato in conflitto con la specie umana.
Tra i dati ricercati quelli sulla curiosa convergenza evolutiva nella forma del cranio e del corpo tra i tilacini e i canidi, alla base della somiglianza esterna che fece pensare ai primi europei che fossero cani selvatici con un mantello tigrato. Sebbene tilacini e canidi non appartengano a famiglie evolutivamente vicine (l'antenato comune risale a 160 milioni di anni fa), hanno vissuto nello stesso ambiente per migliaia di anni il che ha favorito un adattamento parallelo visti i simili bisogni per la loro vita da predatori.
L'innegabile somiglianza tra una tilacina (sopra) e un dingo
(credit: CY. Feigin et al / Nature)
Entrando un poco nel tecnico i ricercatori non hanno trovato omologie particolari nei circa 80 geni noti per determinare la forma del cranio e di altre caratteristiche esterne; l'ipotesi formulata e che dovrà ora essere confermata è che la convergenza evolutiva nell'aspetto sia avvenuta a livello delle sequenze regolatrici presenti nel DNA non codificante.


Per altri articoli su argomenti correlati, clicca il tag --> Scienze Naturali 

Fonte
- Genome of the Tasmanian tiger provides insights into the evolution and demography of an extinct marsupial carnivore
Charles Y. Feigin et al, Nature Ecology & Evolution volume 2, pages182–192 (2018)

- The mitochondrial genome sequence of the Tasmanian tiger (Thylacinus cynocephalus)
Webb Miller et al, Genome Res. (2009)19: 213-220




Voyager 2 si appresta ad abbandonare il sistema solare

*** aggiornamento dicembre 2018***
 Voyager 2 è entrato nello spazio interstellare (--> astronautinews.it)

 ***

A distanza di quasi 6 anni da quando la sonda Voyager 1 ha abbandonato il sistema solare, anche Voyager 2 si appresta a seguirne le orme varcandone i confini invisibili nel suo viaggio senza fine verso lo spazio profondo.
Clicca QUI per la visualizzazione in modalità
interattiva del modello (credit: JPL/NASA)
Di questo viaggio e delle caratteristiche che giustificano la definizione apparentemente insensata di "confine del sistema solare" in quello che apparirebbe come "vuoto spaziale" ne ho parlato in un precedente articolo citando caratteristiche come la eliopausa ed eliosfera (--> Il lungo viaggio di Voyager)

Curiosamente l'intervallo che separa l'uscita di Voyager 1 da quella, prossimo ventura, di Voyager 2 non sono l'ovvia conseguenza di lanci avvenuti in tempi distanti tra loro, anzi tutto il contrario. Le due sonde non solo sono state lanciate nello spazio quasi nello stesso momento (per essere precisi nell'estate del 1977 ad una settimana di distanza) ma per di più Voyager 2 è quella partita per prima. 
Come facile immaginare la ragione di tale differenza temporale è la somma di diversa velocità di crociera e soprattutto di traiettorie seguite.

Per tale ragione Voyager 2 ha guadagnato sul campo i galloni di missione aerospaziale operativa più lunga.

Nessuna delle due  sonde fu pensata (solo) come un messaggero "del genere umano" verso lo spazio profondo ma in primis come strumenti per lo studio di pianeti e lune del nostro sistema in un epoca (fine anni '70) in cui si stavano muovendo i primi passi verso lo spazio vicino e le informazioni su qualunque oggetto oltre Marte e Venere era più frutto di speculazioni teoriche basate sui dati, scarsi, rilevati da Terra (il telescopio Hubble era ben lontano dal venire) che di informazioni validate.
Entrambe le sonde portano a bordo i cosiddetti "Golden Record", dischi di rame placcati in oro su cui sono registrate immagini della nostra specie, suoni naturali e saluti pronunciati in 55 lingue, oltre alle istruzioni su come usarli.
In questa loro missione esplorativa e senza ritorno, le due sonde hanno esplorato tutti i pianeti esterni del nostro Sistema Solare oltre alle loro 49 lune, ai sistemi di anelli (non è solo Saturno ad averli) e ai campi magnetici planetari. Nello specifico Voyager 1 ha sorvolato Giove e Saturno mentre Voyager 2 ha aggiunto una "visita" a Urano e Nettuno. Plutone (che pianeta non è più considerato da anni, giustamente) ha dovuto attendere la missione New Horizon per essere indagato essendo fuori dalla traiettoria delle due Voyager.
Di seguito il video del N.Geographic in cui è riassunta la traiettoria delle due sonde
Se non vedi il video --> youtube

I dati inviati a Terra sono stati fondamentali per la progettazione di missioni indirizzate ai punti di interesse individuati dalle Voyager. Tra i tanti dati ottenuti cito quelli sull'atmosfera gioviana con i suoi incredibili uragani (studiati in seguito dalla sonda Juno), la scoperta di vulcani attivi sulla luna Io e di un oceano sotto la superficie ghiacciata della luna Europa (studiato poi dalle sonda Galileo e New Horizon), lo studio degli anelli di Saturno e della presenza di atmosfera sulla sua luna Titano (poi studiata dalla sonda Huygens) e infine le enormi tempeste su Nettuno e i geyser sulla sua luna Tritone.

La cosa affascinante è che a distanza di anni le sonde sono ancora operative come ha dimostrato di recente Voyager 1 che ha risposto al segnale inviato dalla Terra di accensione dei razzi spenti da 37 anni. Il segnale ci ha messo 19 ore per arrivare a destinazione ma è stato eseguito senza problemi (vedi video successivo)
Se non vedi il video -->youtube 

Ad oggi Voyager 1 e 2 si trovano rispettivamente a 141 e 117 unità astronomiche (1 UA corrisponde alla distanza Sole-Terra), ossia circa 21,2 e 17,5 miliardi di chilometri, dalla Terra.

La posizione delle sonde in tempo reale. Per gli aggiornamenti vai su --> Voyager - Mission Status
(all credit to NASA/JPL)
Da quando Voyager 1 ha superato il confine del sistema i suoi sensori si sono focalizzati sull'analisi dell'intensità della radiazione cosmica e delle interazioni tra le particelle cariche di origine solare con quelle provenienti da altre stelle.
Per gli aggiornamenti vai su --> Voyager - Mission Status 
(all credit to NASA/JPL)

Salvo imprevisti, tipo scontri con mini-asteroidi, le sonde rimarranno in grado di veicolare il messaggio umano nello spazio ben oltre il 2025, data entro cui si esaurirà l'energia ottenuta dal decadimento del polonio. Secondo i calcoli attuali ci vorranno circa 40 mila anni prima che Voyager 1 si avvicini alla stella Gliese 445 e Voyager 2 a  Ross 248. Serviranno (o probabilmente servirebbero) altri 296 mila anni per arrivare a Sirio, la stella più luminosa visibile ad occhio nudo dalla Terra.

Di seguito un video in cui sono raccolte alcune delle immagini inviate nel corso degli anni dalle due Voyager.
Se non vedi il video -->Youtube


Scarica qui (direttamente dal sito NASA) il poster preparato in occasione del 40.mo anniversario della missione --> https://voyager.jpl.nasa.gov/downloads/


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