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Influenza 2018. L'alto numero di casi non stupisce

Nelle ultime settimane si è registrato un picco inusitato (per le medie di periodo) di malati di influenza.
I numeri dell'Istituto Superiore di Sanità parlano di superamento dei casi registrati durante la pandemia del 2009-10, con numeri simili a quelli registrati nel 2004, sebbene con un numero inferiore di decessi (ad oggi 30 in Italia).
I più colpiti sono i bambini sotto i 5 anni (circa 3%), seguiti dal gruppo fino a 14 anni (1,6 %) e dai giovani adulti. I casi più gravi sono in gran parte a carico degli over-60.
Non tutte le influenze sono uguali e questo riflette la genetica del virus responsabile che ogni anno muta di quel tanto da riuscire a superare le barriere immunitarie sviluppate dall'ospite durante l'infezione dell'anno prima. Le pandemie (picchi di casi su scala globale) sono la conseguenza della comparsa di un ceppo "più diverso del solito", tale da rendere inefficaci i sistemi di difesa immunitaria sviluppati nel corso delle passate infezioni, e adeguatamente virulento da infettare un buon numero di persone.

L'influenza umana è causata da tre tipi di virus a RNA (noti come virus influenza A, B e C) di cui il tipo B è presente solo nell'uomo e il tipo C ha effetti molto blandi se non asintomatici. Il principale accusato delle epidemie è il virus di tipo A data la sua capacità di infettare sia esseri umani che alcuni mammiferi e uccelli; da questa promiscuità la maggiore facilità a mutare in modo consistente con conseguente pandemia. Una delle caratteristiche del virus dell'influenza è l'avere un genoma suddiviso in 8 segmenti che potremmo alla lontana paragonare a mini cromosomi virali ("mini" in quanto contengono un solo gene per segmento). Ciascun virus "funzionante" dovrà essere dotato sia del pacchetto completo di informazioni genetiche (necessarie per tutte le loro funzioni, dalla modalità di infezione a come "ricondizionare" l'apparato cellulare alle proprie esigenze) che di un involucro su cui sono posizione proteine chiave per l'entrata nella cellula bersaglio. I geni chiave per capire il perché delle pandemie sono quelli che codificano per la neuraminidasi e la emoagglutinina, due proteine esposte all'esterno del capside virale.
La capacità di questi virus di eludere di anno in anno le difese immunitarie ha una doppia spiegazione. La classica variabilità annuale è legata al cosiddetto antigenic drift  (deriva antigenica) che porta all'emersione di mutanti in grado di sfuggire agli anticorpi generati durante l'influenza (anche se asintomatica) degli anni passati. Si tratta di mutazioni "di facciata", quel tanto che basta per non essere identificati nel momento in cui entrano nell'organismo. Prima che il sistema immunitario "aggiorni" le difese, il virus avrà tempo di fare più cicli di replicazione e di trasmettere all'esterno la progenie infettiva. In genere i malanni influenzali dovuti a questi ceppi sono più blandi rispetto a quelli dell'anno precedente, proprio perché il sistema immunitario ha "una idea di chi cercare" anche se si è "fatto un lifting" per sfuggire ai controlli. Nel caso delle pandemie il meccanismo "mutagenico" è diverso e si parla di antigenic shift (spostamento antigenico); qui la situazione si complica perché è come se il virus si fosse mischiato ad un consimile e avesse dato luogo ad un "individuo con carta d'identità e aspetto alterati". Il fenomeno origina in genere in un animale infettato contemporaneamente da due tipi di virus influenzali. Durante l'assemblaggio del virione può capitare che i segmenti di RNA originati dai due ceppi di virus si rimescolino generando così un virus che è ha alcune caratteristiche di ciascun ceppo parentale. La composizione in segmenti finale sarà ovviamente quella classica (8 segmenti ciascuno in singola copia) ma la diversità maggiore.
Influenza virus A
Esempio classico di quello che può avvenire è l'infezione contemporanea negli uccelli (molto spesso i polli) di un virus dell'influenza umana A e un virus dell'influenza aviaria A; tra la progenie virale "classica" è probabile che siano particelle virali, ascrivibili sempre al virus dell'influenza A, dotate di emoagglutinina "umana" e neuroaminidasi "aviaria".
Esistono 18 sottotipi di emoagglutinina (HI-H18) e 11 di neuraminidasi (N1-N11). Teoricamente potrebbe avvenire una qualsiasi combinazione delle 18 emoagglutinine e delle 11 proteine neuraminidasi, in realtà il collo di bottiglia è nella capacità di ciascuna di queste varianti di essere funzionali (pena l'immediata estinzione). Non a caso solo alcune di queste varianti sono state trovate negli animali infettati e ancora di meno sono quelle risultate capaci di infettare prima l'animale e poi l'essere umano. I soggetti più a rischio sono tra coloro che lavorano negli allevamenti; nel momento in cui emerge un virus capace non solo di infettare ma anche di replicarsi efficientemente in un essere umano, la strada alla pandemia è spianata. Per semplificare ancora il quadro, mentre il virus emerso dall'antigenic drift ha una fisiognomia (perdonatemi il paragone umano) che richiama quella originale salvo alcuni camuffamenti che rallenteranno il processo di scrutinio delle guardie immunitarie (che ci metteranno un po' di tempo a ridisegnare gli identikit da distribuire alle volanti che pattugliano il corpo) nel secondo caso si tratta di una "soggetto mai visto prima" e come tale ci vorrà del tempo prima che le difese acquisiscano le informazioni su chi devono cercare. Se il soggetto ha malattie pregresse o se a questa infezione si sommano quelle di altri microbi opportunisti, l'organismo non avrà il tempo o la capacità di reagire e finirà per soccombere (questa la ragione dei casi letali di influenza il cui numero percentuale aumenta nelle pandemie). In sintesi mentre i "bersagli" privilegiati delle influenze annuali sono i bambini (privi di "ricordi" antigenici registrati sugli anticorpi) e le persone anziane o malate, quando emerge un nuovo ceppo il bacino degli infettabili si amplia a dismisura.
Il virus di quest'anno è
H3N2, una combinazione allelica nota per essere particolarmente aggressiva e foriera di complicazioni.

Tale  variabilità annuale spiega per quale motivo i vaccini anti-influenzali abbiano "validità" annuale; non nel senso dell'efficacia della azione protettiva ma perché il ceppo dell'anno successivo cambierà. Ciascun vaccino viene creato qualche mese prima dell'arrivo nelle nostre regioni basandosi sulle caratteristiche del ceppo virale nei luoghi in cui è emerso, dato che si rispecchia nel nome del ceppo (influenza asiatica, Michigan, ...). Come tutti i vaccini, il trattamento è efficace solo se preso settimane prima del probabile contatto con il virus e avrà copertura limitata per quel particolare ceppo virale (o altri strettamente imparentati). Nonostante queste limitazioni la vaccinazione influenzale può fornire un aiuto decisivo per alcune categorie di persone a rischio.
Vaccinare i bambini è inoltre importante anche per limitare la diffusione del virus: i bambini, per una serie di ragioni biologiche e comportamentali sono il principale incubatore dei virus e fungono (come ben sanno i genitori) da centri di diffusione dei malanni stagionali.
Nota. Non tutti i virus causa di malattie "classiche" sono così variabili e questo si ripercuote nell'efficacia dei vaccini che in molti casi danno una copertura "a vita". L'esempio classico è il virus del morbillo talmente restio a mutare che una sola vaccinazione sarà sufficiente ad evitare per decenni ogni rischio di malattia (e di epidemie). Da qui emerge con forza la stupidità del rifiuto di questi vaccini che ha causato una serie di epidemie di morbillo (malattia ad alto rischio di complicazioni gravi) come non se ne vedevano dagli anni '50 (articolo precedente --> QUI)
Le ragioni del picco influenzale del 2018 sono quindi molteplici, riassumibili nella sua biologia (la particolare combinazione H e N di cui sopra) e nella limitata copertura del vaccino.
Riguardo quest'ultimo punto le cause sono duplici e vanno dalla limitata efficacia di quello disponibile quest'anno alla crescita del numero di persone non vaccinate. Se da un punto di vista tecnico il problema della scarsa efficacia del vaccino 2017-18 è conseguenza del fatto che il virus "dominante" è mutato proprio durante la produzione su larga scala dei vaccini (procedura fatta in uova di gallina) ad aggravare il problema vi è il fatto che i vaccini autorizzati sono due, il trivalente e il tetravalente. Il primo capace di coprire tre ceppi di influenza (due di tipo A e uno di tipo B), il secondo che aggiunge a questi un quarto ceppo (di tipo B).
Quale prescrivere è una scelta in genere legata al budget sanitario disponibile (in Italia tale attività sanitaria è delegata alle regioni) e questo ha fatto si che più del 60 per cento dei vaccini utilizzati fossero del tipo meno costoso (trivalente) con il risultato di una minore copertura, tanto più che nell'epidemia 2018 sta avendo un ruolo importante un virus di tipo B.
Se a questi problemi aggiungiamo che negli ultimi è sceso sensibilmente il numero di individui a rischio (bambini, anziani, malati e personale sanitario) che hanno usufruito della vaccinazione stagionale, si ottiene il risultato netto di una minore copertura globale a livello della popolazione e quindi la perdita della cosiddetta immunità collettiva (per dettagli su parametri come R0 vi rimando al precedente articolo --> "La nuova epidemia di morbillo: la stupidità si paga").



Fonti
Per semplicità sono state direttamente associate alle parole chiave in questo articolo a cui potete accedere tramite il semplice "clic" sulla parola.
Le fonti sono il Center for Disease Control americano (CDC), l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) e ViralZone (il principale database virale).
Sarà una coincidenza ma l'unico sito che ancora non si è adattato ai requisiti di sicurezza del https è l'ISS italico che ancora "impone" un traffico attraverso l'obsoleto http. Quindi se quando cliccate sul link il browser vi fa comparire un avviso è solo causa del non essere una comunicazione cifrata.

La molecola che spegne i pensieri non voluti

Mantenere il controllo del proprio pensiero è fondamentale per il benessere mentale.
Quando questa capacità viene meno ecco comparire problemi come ricordi intrusivi, allucinazioni, elucubrazioni e preoccupazioni persistenti. 
Episodi apparentemente insignificanti agiscono come una miccia facendo emergere ricordi spiacevoli che non si riesce a mettere da parte; come dei tarli invisibili continueranno a scavarsi una nicchia sempre più preminente fino a condizionare il nostro quotidiano. Le cause possono essere molte e vanno dalle allucinazioni sensoriali (di natura neuropatologica) capaci di innescare falsi ricordi, ai traumi esperienziali che pur in assenza di anomalie neurologiche pregresse modificano i circuiti neuronali predisponendo il soggetto a episodi di panico e/o aggressività anche in assenza di inneschi ovvi.

Non sempre si tratta di eventi spiacevoli come ben insegna la fase dell'innamoramento dove l'azione combinata di ossitocina e vasopressina gioca un ruolo  chiave nel pensiero chiaramente ossessivo che caratterizza le prime fasi di una relazione. Se avete figlie/i adolescenti capirete bene quanto pervasivo sia questo pensiero anche se scevro di tratti manifestamente patologici. Il precedente esempio ha solo valenza generale; i circuiti coinvolti nella fase "ossessiva" dell'innamoramento e quelli esperienziali traumatici, sono infatti diversi. I primi sono "naturali" in quanto siamo programmati per focalizzarci sul potenziale partner riproduttivo; non a caso si tratta di circuiti molto "antichi", siti nelle parti più profonde del cervello. I disturbi comportamentali da stress sono invece qualcosa di più recente e molte delle anomalie che li riguardano si trovano nelle aree "moderne" del cervello come quelle corticali. Per questa ragione non troverete alcun coccodrillo (o rettile in generale) traumatizzato da esperienze spiacevoli; l'assenza della regione corticale rende impossibile ogni capacità di pensiero se non quello dettato dall'istinto (codificato in quella parte antica del cervello che non a caso è detta "cervello rettiliano").
Il ripresentarsi di un pensiero "non voluto", caratterizzato  da un cronico "ruminare" su episodi del passato, è spesso sintomatico di patologie come la sindrome da stress post-traumatico (PTSD), schizofrenia, depressione o ansia.

Il costo sociale e umano è alto come ben insegnano i comportamenti violenti e imprevedibili dei soldati reduci da teatri di guerra o delle vittime di abusi. Ad oggi non esiste un metodo di trattamento univocamente efficace (sia esso chimico o basato su terapie comportamentali) per minimizzare le recidive. 

Non saremmo in grado di sopravvivere senza la capacità di controllare le nostre azioni. Siamo dotati di riflessi veloci, spesso fondamentali, ma che dobbiamo filtrare per evitare reazioni inconsulte. Gli eventi negativi fanno parte della vita di ognuno di noi ma siamo dotati di "anticorpi comportamentali" che ci proteggono dal pensiero ossessivo. Ci deve essere quindi un meccanismo simile che blocchi l'insorgere di pensieri indesiderati. L'evento o ricordo spiacevole viene accantonato (in modo conscio o inconscio) pensando ad altro.
Eppure questa capacità di salvaguardia non sempre funziona. Limitandoci ai casi di esperienze più gravi solo un certo numero delle persone che le hanno vissute sviluppano i sintomi tipici della PTSD. Capire perché e cosa non abbia funzionato nella capacità compensativa innata del cervello è un argomento che travalica il puro interesse neurologico, dato il costo sociale e umano che tali problemi innestano.

Da questa premessa l'importanza della notizia riguardo l'identificazione della molecola che è alla base della soppressione dei  pensieri indesiderati. Lo studio è contenuto in un articolo pubblicato su Nature Communications da ricercatori di Cambridge.
Corteccia prefrontale
 (credit: DBCLS)
Punto di partenza è che per capire dove sia la differenza tra un circuito neuronale capace di gestire il ricordo e quello "cortocircuitato" è necessario capire la chimica del cervello.
Una delle regioni distintive del nostro cervello "evoluto" è la corteccia prefrontale in cui risiedono i centri di controllo delle azioni, implicati anche nel "filtraggio" dei pensieri. La corteccia prefrontale agisce come una sorta di regolatore di alto livello in grado di controllare l'attività di altre aree come la corteccia motoria (le azioni) e l'ippocampo (i ricordi).

L'analisi è stata condotta su volontari esaminati con il classico test "associa/non associare" usato per misurare la reattività del pensiero associativo; nel nostro caso i ricercatori se ne sono serviti come "faro" per mappare nel cervello la capacità di inibire un dato pensiero. In breve, i partecipanti al test imparano per prima cosa ad associare tra loro parole di senso compiuto ma prive di nesso logico come ad esempio "disavventura" e "scarafaggio" ("ordeal" e "roach" nel test originale). Verificata l'avvenuta memorizzazione si passa alla seconda fase in cui viene mostrata la parola innesco (ad esempio "disavventura") in due colori diversi; se la parola è in verde il volontario dovrà richiamare la parola associata ("scarafaggio") mentre se in rosso dovrà cercare di sopprimere il ricordo dell'associazione (vale a dire pensare ad altro). In due parole, la parola l'innesco in verde richiama il ricordo, quella in rosso lo inibisce.
Durante l'esecuzione del test, il cervello dei volontari viene scansionato mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) e spettroscopia a risonanza magnetica. Si tratta di tecniche molto informative, ancorché non invasive e innocue, con il quale i ricercatori possono osservare in tempo reale cosa accade nel cervello quando uno stimolo richiama in automatico un ricordo e cosa avviene quando tale ricordo viene forzatamente accantonato.

A fare la differenza rispetto a studi simili condotti in passato è l'utilizzo della spettroscopia grazie alla quale è stato possibile, in aggiunta alla "semplice" mappa dell'attività cerebrale fornita dalla fMRI, indagarne la chimica.
Riassumendo i risultati in una frase, lo studio ha permesso di identificare nel neurotrasmettitore GABA la molecola chiave della inibizione dei pensieri indesiderati e in aree come corteccia frontale e l'ippocampo le regioni chiave.
L'acido γ-amminobutirrico (GABA) è il principale neurotrasmettitore inibitorio in noi mammiferi e come tale ha un ruolo centrale nella regolazione delle reti neuronali. Si stima che quasi il 40% delle sinapsi nel cervello umano abbiano recettori per il GABA, sebbene appartenenti a diverse famiglie. La sua azione inibitoria si attua favorendo l'ingresso di ioni cloruro nel neurone bersaglio, evento che inibisce la comparsa di un potenziale d'azione; in altre parole tiene il neurone spento. Questo è il motivo per cui molti ansiolitici (ad esempio le benzodiazepine) sono progettati per rinforzare il segnale GABA riducendo così l'attività dei circuiti "ansiogeni".
Non deve trarre in inganno la apparente ovvietà tra la nota azione inibitoria del GABA (e all'opposto quella del glutammato come principale neurotrasmettitore eccitatorio) e il suo coinvolgimento nell'inibizione dei pensieri assillanti. I circuiti neuronali sono infatti complessi; ad esempio un segnale inibitorio che agisce su un neurone inibitorio avrebbe di fatto un effetto disinibente.
Lo studio ora pubblicato dimostra un nesso tra i circuiti candidati al "controllo" del pensiero e la presenza di GABA. Tra i dati emersi vi è che la concentrazione di GABA nell'ippocampo - un'area chiave del cervello "profondo" coinvolta nella memoria e "cablata" con la corteccia e l'amigdala- è predittiva della capacità della persona testata di bloccare "a comando" il processo di recupero della parola associata e quindi della sua capacità di prevenire il ritorno di pensieri e ricordi non voluti. Un dato confermato nei pazienti affetti da PTSD che presentano livelli di GABA locali inversamente correlati alla gravità della patologia (pur avendo subito traumi paragonabili).

Da sottolineare che lo studio ha permesso di ampliare il focus delle precedenti ricerche, prima centrato sulla corteccia prefrontale (il centro di comando), includendo l'ippocampo, ampliando così la finestra interventista nella progettazione dei trattamenti farmacologici e nel monitoraggio del loro effetto.

Le ricadute terapeutiche potrebbero espandersi oltre la PTSD toccando la schizofrenia. E' infatti emerso che i soggetti schizofrenici hanno ippocampi iperattivi, il che si correla con la frequenza di sintomi intrusivi come quelli allucinatori. Una ipotesi di lavoro confermata da studi autoptici che hanno rivelato la compromissione dei circuiti neuronali inibitori (basati sul GABA) nell'ippocampo dei pazienti. Una anomalia che "cortocircuita" ogni tentativo della corteccia prefrontale di regolarne l'attività. L'ippocampo, sede della memoria, diviene quindi incapace di bloccare l'emersione di ricordi dal suo "database" che possono, comparendo in modo inopportuno, dare luogo ad allucinazioni percepite come totalmente reali dal soggetto.

Sebbene lo studio non si sbilanci nella formulazione di un nuovo approccio terapeutico, è chiaro che questa nuova finestra conoscitiva espande le potenzialità di intervento in molti disturbi caratterizzati da pensieri ricorrenti non controllabili.

Fonte
Hippocampal GABA enables inhibitory control over unwanted thoughts.
Schmitz, TW et al. - Nature Communications; 3 Nov 2017



Il governo USA arruola i maschi della zanzara nella lotta alle malattie endemiche

Il governo USA arruola le zanzare maschio per neutralizzare le zanzare femmina (veicolo di malattia).
Dove non sono riusciti i trattamenti chimici potrebbe arrivare la cara e vecchia strategia dell'arruolare un nemico e usarlo come arma contro i suoi consimili.

Zanzara tigre
(credit: D.
Kunkel Microscopy/SPL)
Le zanzare sono forse gli animali meno amati specialmente da chi è costretto a vivere le sere d'estate in una bolla di zampironi e la notte si trova a smanacciare invano contro il ronzio invisibile che sembra prediligere le vicinanze del padiglione auricolare. Certo forse ci saranno anime buone tra i panteisti nostrani che ritengono ogni creatura un dono, ma credo siano molti di più quelli che prima o poi hanno domandato al biologo di turno "ma in natura a che servono le zanzare?"
Senza addentrarci nei meandri delle preferenze alimentari di alcuni uccelli e di topi volanti (pipistrelli), che ne sono ghiotti ma non disdegnano altri insetti, il dato inoppugnabile è che le zanzare sono un veicolo di malattie anche molto gravi diffuse in un'ampia area che va dall'equatore alle nostre latitudini. Tra le malattie veicolate dalle zanzare (in particolare alcune specie del genere AnophelesAedes) cito a memoria malaria, febbre gialla, infezione da virus Zika, febbre da West Nile Virus,  etc.
Nonostante i tentativi di bonifica su ampia scala resi possibili dalla invenzione del DDT nei primi anni '50, l'iniziale e straordinario successo fu solo temporaneo sia a causa della tossicità aspecifica dell'insetticida che dalla comparsa di ceppi resistenti della zanzara. Non è un caso che i successi più duraturi nella lotta millenaria contro la malaria siano stati ottenuti grazie a massicce opere di bonifica ambientale, intesa qui non come problema legato all'inquinamento ma alla rimozione di ambienti permissivi (e totalmente naturali) per la proliferazione della zanzara come le aree paludose.
Rimanendo nell'ambito del nostro paese non possiamo la bonifica delle paludi pontine e del ferrarese come i passaggi chiave per l'eradicazione della malaria.
Precisiamo subito un dettaglio importante. La "malattia da zanzara" non è dovuta alla zanzara per sé ma al fatto che possono fungere da trasportatore di virus (es. Zika) o di altri microbi (es. il plasmodio della malaria) che vengono trasmessi durante il pasto ematico della zanzara (femmina). Se nel caso dei virus la zanzara funge da "semplice" trasportatore passivo e potrebbe quindi essere veicolato da altri insetti ematofagi, la situazione è ben più complessa nel caso delle patologie da protozoi; limitandoci alla malaria, il plasmodio necessita del passaggio attraverso la zanzara per completare una fase ben definita ed essenziale del suo ciclo vitale di cui la fase nell'essere umano (o altri mammiferi con specie diverse di plasmodio) è solo una parte. Giusto per capirci, per essere in grado di infettare un altro essere umano il plasmodio "succhiato" dalla zanzara deve prima completare una fase dello sviluppo dentro la zanzara e solo allora sarà "abilitato" a colonizzare un altro essere umano.  Da qui la nozione che per alcune malattie veicolate dalle zanzare (la malaria appunto), eliminare il veicolo ha effetti risolutivi sulla diffusione della malattia.
Colpire il bacino di incubazione del microbo patogeno è quindi un obbiettivo con prospettive di efficacia superiori a quelle potenzialmente offerte da un vaccino antimalarico, che (per una serie di ragioni legate alla biologia del patogeno) è finora sfuggito ai pur decennali tentativi di sviluppo.
La bonifica delle paludi non è un percorso fattibile ovunque. Pensiamo ad esempio agli acquitrini d Florida e Louisiana piuttosto che alle foreste tropicali serbatoio del virus Zika et similia. Un modo indiretto e a minor costo, oltre che ecologico, è quello di colpire la popolazione vettore facendo calare la progenie. Due sono gli approcci classici, a mia conoscenza. Si potrebbe utilizzare un numero molto elevato di individui (maschi) sterili così da metterli in competizione con quelli in natura, con l'effetto di ridurre il numero di accoppiamenti "utili". Altra strada è quella di usare individui infettati con un qualche microbo specifico per la zanzara (e solo per lei) che una volta liberati fungerebbero da veicolo di diffusione della malattia con riduzione del numero di zanzare.
Quest'ultimo approccio ha vantaggi e svantaggi. Se tra i "pro" vi è la possibilità di diffondere la malattia senza grossi interventi manuali sul campo, è necessario prima identificare un microbo "specifico" per la zanzara che non sia dotato di tossicità acuta (se la zanzara infetta muore dopo un giorno la disseminazione viene bloccata sul nascere).
La strada scelta dai ricercatori della azienda MosquitoMate si è focalizzata su questo limite, identificando un batterio capace di causare sterilità "a posteriori" nei maschi di zanzara prevenendo lo sviluppo completo delle uova fecondate. Il batterio "sterilizzatore" è la Wolbachia pipientis e la zanzara bersaglio la Aedes albopictus. La procedura usata è semplice anche se quantitativamente limitata. In sintesi i ricercatori allevano le zanzare in presenza del batterio, separando poi maschi dalle femmine mediante analisi morfologica. Una volta raccolto un numero sufficiente di maschi infetti (denominati ZAP) questi vengono rilasciati nelle aree test dove si accoppieranno con le femmine locali. Il vantaggio è che non serve produrre un numero troppo elevato di maschi per metterli in competizione riproduttiva con i maschi locali; durante l'accoppiamento il batterio verrà trasmesso e questo impedirà il corretto sviluppo dell'embrione. Le uova rilasciate non si dischiuderanno neutralizzando così il ciclo riproduttivo della zanzara che si era accoppiata anche con maschi non infetti.

Alcune precisazioni sono importanti.
Il batterio usato non è frutto di una modifica di laboratorio. Il genere Wolbachia è molto diffuso nella popolazione di zanzare (almeno il 10% in natura è infetto) ed  è noto per causare problemi riproduttivi. Solitamente i maschi vengono uccisi durante la fase larvale o acquisiscono tratti femminili dopo la schiusa il che non ha un grosso impatto sui numeri della popolazione (bastano pochi maschi per ricostituire la popolazione). Il punto chiave sfruttato dai ricercatori è la cosiddetta incompatibilità citoplasmatica, cioè l'incapacità dei maschi infettati da Wolbachia di riprodursi con successo con femmine non infette o infette con una specie diversa di Wolbachia. Al contrario se il maschio infetto si accoppia con femmine portatrici della stessa specie di batterio, queste rimarrebbero fertili.
Quello che hanno fatto è stato quindi selezionare un tipo di batterio incapace di infettare alcun altro insetto e che appartenesse ad un ceppo diverso da quello presente nella popolazione naturale che si voleva colpire. La selezione dei maschi allevati in laboratorio ha permesso di eliminare il collo di bottiglia di una loro minor frequenza e/o longevità.

Negli scorsi anni sono stati effettuati diversi test sul campo in alcune aree ristrette degli USA per verificare la capacità di diffusione, sicurezza ed efficacia. I risultati sono stati positivi tanto che la EPA (Ente di Protezione Ambientale americano) ha autorizzato il passaggio alla fase operativa basata sul rilascio dei maschi in 20 stati USA, ivi compresa Washington DC. La scelta "limitata" viene dalla selezione di aree con caratteristiche climatiche (temperatura e precipitazioni) simili a quelle delle aree test (Kentucky, New York, California). Sono rimasti esclusi finora gli stati sudorientali (in pratica quelli sotto la Cotton Belt) che ospitano le aree a densa popolazione di zanzare e con lunghe stagioni riproduttive; lo sforzo logistico e produttivo sarebbe stato troppo alto per sperare di vedere risultati.
La vasta diffusione di due tra le specie di zanzare potenziale veicolo di malattie
(credit: Boston University)
La Aedes albopictus è diffusa anche dalle nostre parti (credit: ECDC and EFSA)

Uno dei problemi che si dovrà infatti affrontare è proprio nella capacità produttiva. Ad oggi la separazione dei maschi dalle femmine avviene manualmente e solo di recente sono state sperimentate procedure meccaniche. Per colpire la popolazione di zanzare di un'intera città servirebbe una produzione settimanale di milioni di ZAP, ad indicare la necessità di metodi produttivi più efficaci. Ad oggi ci si avvale dell'irradiazione con raggi X delle zanzare selezionate a dosi innocue sui maschi ma capaci di sterilizzare le femmine; si evita così il rischio di rilasciare nell'ambiente femmine capaci di riprodursi che essendo infettate con lo stesso ceppo di batterio sopprimerebbero la capacità sterilizzatrice del batterio.

Test simili sono stati condotti anche in Cina dove le autorità locali in sinergia con le biotech hanno liberato in alcune aree della regione del  Guangzhou, 5 milioni di zanzare infette ogni settimana. Il Brasile è un'altra area in cui si sta pensando di usare questa strategia per contrastare il diffondersi dell'epidemia da virus Zika, veicolato dall'Aedes aegypti) che come sappiamo (vedi --> "I casi di microcefalia in Brasile") è responsabile di gravi difetti nello sviluppo fetale umano aumentati a dismisura negli ultimi anni. In questo caso l'approccio proposto dalla azienda inglese Oxitec sfrutta  zanzare modificate geneticamente in cui i maschi sono portatori di gene letale per tutta la loro progenie.

Aggiornamento maggio 2021. E' iniziata la fase di rilascio in Florida di maschi di zanzara portatori di due geni, uno per una proteina fluorescente che li rende visibili alla luce rossa (per tracciamento) e l'altro che impedisce alle femmine generate dall'accoppiamento con le zanzare naturali di raggiungere la maturità (--> Nature, The Guardian). Se funziona l'altro problema urgente da risolvere nell'area è quello dei pitoni che stanno distruggendo l'intero ecosistema delle swamp.

Fonte
- EPA Registers the Wolbachia ZAP Strain in Live Male Asian Tiger Mosquitoes 


La mela che non scurisce

Sbucciare la mela, tagliarla a fette e riporla in un recipiente fintanto che avremo preparato gli altri ingredienti per una torta o una macedonia, porta con sé il fastidioso effetto dell'imbrunimento. Non che tale fenomeno comporti pericoli o un calo delle proprietà organolettiche, ma di sicuro crea su chi sta preparando il dolce una pressione a fare in fretta. Semmai è bene scegliere in anticipo il grado di maturazione del frutto a seconda dell'utilizzo che se ne vuole fare. Un frutto troppo maturo non è adatto ad esempio a fare la marmellata in quanto gli enzimi liberati nel processo degradano la pectina (uno zucchero complesso) e rendono il processo di gelificazione meno efficace. Una marmellata liquida non è certo il massimo da presentare. 

L'imbrunimento è un fenomeno del tutto naturale presente anche in altri frutti e in alcune verdure, dovuto all'ossidazione della polpa a contatto con l'aria (nello specifico l'ossigeno), un evento facilitato da alcuni enzimi del frutto.

Non a caso tra i metodi preventivi classici (i "rimedi della nonna") possiamo citare il succo di limone (o l'anidride solforosa in ambito industriale) che crea un ambiente acido denaturando, quindi inattivando, gli enzimi catalizzanti l'ossidazione. L'enzima chiave del processo è la tirosinasi (e in genere le polifenolossidasi) il cui ruolo, sia in piante che animali, è la produzione di pigmenti (tra cui la melanina) attraverso l'ossidazione della tirosina.
Per quale motivo la mela dovrebbe attivare un processo ossidativo? Un punto che si tende a trascurare è che a differenza di una bistecca, il frutto che mangiamo è ancora vivo (già immagino la reazione inorridita di un vegano ...) . Il che è naturale in quanto il frutto è il mezzo che la pianta usa per disseminare i suoi semi. Una volta raccolto o caduto dall'albero manterrà la sua capacità di generare energia per un certo periodo di tempo, almeno fino a che non sarà mangiato da un animale (e i semi espulsi) o avrà trovato "terreno" fertile. Per mantenere le funzioni vitali una volta recisi i vegetali solitamente combinano l’ossigeno dell’aria con una molecola organica immagazzinata nei tessuti, solitamente uno zucchero, per produrre energia e sintetizzare altri composti, con la produzione finale di acqua e anidride carbonica. In altre parole il processo noto come respirazione. In generale la “sopravvivenza” di un vegetale dopo il raccolto è inversamente proporzionale alla sua velocità di respirazione. La vita di broccoli e lattuga, ad esempio, è molto più breve di quella di patate, cipolle e limoni, perché hanno delle velocità di respirazione molto più elevate. Nota finale: il motivo per cui una mela troppo matura "rovina" un cesto di mele è legato alla produzione dell'etilene, un ormone vegetale volatile che ha, tra le altre, la funzione di sincronizzare la maturazione contemporanea dei frutti "climaterici" (quelli che maturano dopo la separazione dalla pianta). 
Quindi quando tagliamo a fette una mela oppure questa si ammacca per una caduta, l'ossigeno atmosferico entrerà in contatto con gli enzimi liberati dalla lesione cellulare e si avvierà il processo ossidativo con lo scurimento della mela. 
credit: Okanagan Specialty Fruits, Inc

In una società come la nostra dove si tende a aborrire le imperfezioni estetiche del cibo (solo in parte organolettiche) e si deve tenere conto di tutte le problematiche legate al trasporto di frutta che "deve" essere disponibile ogni giorno dell'anno, è ovvio che si cerchi di prevenire il fenomeno. Fino a pochi anni fa la via per migliorare le caratteristiche di una pianta si basava su incroci ed innesti; oggi si opta per una via più veloce e controllata cioè la modifica genetica (o funzionale) della pianta.
Per chi leggendo queste righe ricavasse la conferma della sua "obiezione di principio" a tutto ciò che ha a che fare con gli OGM, temo rimarrà deluso nello scoprire che niente di diverso si è fatto nell'ultimo millennio (e con impatto ben maggiore) mediante tecniche che ben potremmo catalogare come "ingegneria genetica manuale". Alcuni esempi? La selezione delle mele dalla variante naturale del Caucaso a quelle moderne (--> Le mele antiche del Caucaso), la selezione delle carote fatte diventare arancioni mentre in natura erano viola oppure il pomodoro le cui varianti "domestiche" ben poco hanno a che fare con le poco attraenti piante selvatiche (--> Smithsonian). Se invece vogliamo parlare di piante assemblate cito il classico esempio del mandarancio.
La mela che non scurisce una volta tagliata è oggi realtà, avendo varcato la soglia dei supermercati americani. In realtà la notizia non è recentissima nel senso che già nel 2012 se ne era parlato (con titoli "fuorvianti" come quello del Corriere "La mela che inquieta l'America") sebbene come possibilità. Oggi a distanza di 5 anni è arrivato il nulla osta da parte degli enti di controllo che non hanno ravvisato alcun indizio di pericolo nel prodotto. Nessuna lamentela è inoltre sorta da parte di gruppi di consumatori nelle aree testate prima del lancio.
Questa non è una novità. E' fondamentale ricordare che ad oggi nessuno studio e nessun ente di controllo ha ravvisato il minimo indizio di pericolosità negli OGM. Oltre che per i primi cauti approcci sulla nostra tavola, gli OGM sono usati da anni nei mangimi e anche lì (numeri alla mano) non sono state riscontrate controindicazioni. Il che stride profondamente con le notizie allarmiste usate dagli attivisti anti-OGM rivelatesi basate sul nulla; gli studi scientifici che hanno spesso addotto come prova si sono rivelati non solo errati (il che è accettabile in ambito scientifico) ma manipolati, quindi falsi, come ben esemplifica il caso dello studio condotto alla università Federico II. Vedi sul tema --> "Manipolazione dati studio anti-OGM",
Si è passati quindi dalla presenza di "ingredienti" OGM a prodotti integralmente OGM.
Un dato curioso è a differenza delle piante modificate per diventare resistenti ai parassiti (utili per i coltivatori), le Arctic Apples® (questo il brand delle mele che non scuriscono) sono state create per venire incontro alla domanda dei consumatori. Sarà forse anche per questo motivo che al momento l'accoglienza dei consumatori è stata positiva.
La procedura usata per eliminare il rischio "imbrunimento" è abbastanza semplice da un punto di vista concettuale ed è fondata sui principi della RNAi (RNA interference). In estrema sintesi si fa produrre alle cellule del frutto un RNA antisenso (vale a dire complementare all'RNA "senso") contro il mRNA codificante la polifenolo ossidasi; ne risulta che la quantità di enzima prodotto è ridotta del 90%, sufficiente ad evitare le reazioni di ossidazione all'aria della polpa.
Questa mela è verosimilmente l'apripista di una serie di prodotti simili oggi in lista d'attesa del semaforo verde da parte dei regolatori. Se infatti ci sono voluti 5 anni per il via libera della mela, ne sono serviti solo 2 per la patata che non scurisce prodotta dalla Simplot (Boise, Idaho).
Arriveranno in Europa? Sicuramente ma difficile dire quando considerando la burocrazia elefantiaca di cui soffre la EU. Del resto c'è un modo dire tra gli addetti ai lavori del mondo tech che riassume bene il concetto: la Silicon Valley inventa, l'Europa inventa le regole e la Cina reinventa il progetto abbassando i prezzi e cancellando le regole.
Ma non solo di "abitudini alimentari" edonistici si tratta. La frutta modificata geneticamente ha ricadute potenzialmente enormi nella prevenzione delle malattie. Vedi a proposito il precedente articolo --> "Una banana transgenica salverà i bambini dalla cecità"
Articolo successivo sullo stesso tema --> I pomodori viola.


Fonti
- FDA concludes Arctic Apples and Innate Potatoes are safe for consumption
FDA, news (2015)

- Genetically modified apple reaches US stores, but will consumers bite?
Nature (nov. 2017) 551, pp149–150

Dove inizia l'Alzheimer

L'aumento dell'età media della popolazione mondiale pone diversi problemi (economici, sociali, sanitari) che hanno come minimo comune denominatore il peso sempre maggiore di patologie prima ristrette ad un numero ridotto di individui. Sebbene le anomalie funzionali legate all'invecchiamento possano colpire più distretti e funzioni, sono quelle neurologiche e più precisamente quelle che impattano le capacità cognitivo-comportamentali le più problematiche. Il deterioramento repentino o graduale è di fatto un processo senza ritorno che porta con se un carico difficilmente quantificabile in coloro che assistono inermi al processo.
La degenerazione cognitiva è un processo affatto omogeneo che può sottintendere patologie completamente diverse, come eziologia, tra loro. La demenza senile è un termine "ombrello" che copre in modo generico sintomi potenzialmente associabili alla demenza frontotemporale, al morbo di Alzheimer, alle complicanze tipiche delle fasi avanzate del Parkinson o alla summa di eventi vascolari di per sé "asintomatici" (ictus in aree limitate).
Ad aumentare la complessità del fenomeno è la coesistenza di componenti genetiche (facilitanti) e ambientali (ad esempio dieta, fumo, inquinanti, ...) di entità diversa a seconda della patologia sottostante.

Il morbo di Alzheimer (AD da qui in avanti) è forse la patologia più temuta in quanto, pur nel permanere di condizioni fisiche anche ottime, comporta un inesorabile "distacco" dal mondo reale del paziente con la progressione di deficit cognitivi, mnemonici e comportamentali.
Non sono ad oggi disponibili terapie efficaci (anche solo intese come "congelanti" lo status quo) ma non per la mancanza di risorse investite nello studio e nella sperimentazione di farmaci. Il vero problema di questo tipo di patologie è paradossalmente legato alla estrema plasticità cerebrale che è capace di compensare i deficit funzionali almeno finché i danni non diventano così estesi (o colpiscono regioni chiave) da emergere; alcuni studi hanno infatti dimostrato che il processo degenerativo inizia 10-20 anni prima che compaiano i sintomi. Ed è paradossalmente proprio in questa resilienza funzionale che si annida il problema; quando il paziente manifesta i sintomi l'entità dei danni è talmente estesa che la sola ipotesi di potere scoprire un farmaco in grado di ripristinare i circuiti neuronali distrutti è meno che improbabile. D'altra parte un farmaco anche rivoluzionario nella sua azione preventiva non potrebbe mai dare risultati positivi su soggetti con danni così estesi e quindi si perderebbe nelle prime fasi dei test.
La sperimentazione clinica si basa su prove di funzionalità e di sicurezza delle molecole candidate. Tuttavia se i soggetti testati hanno danni "non riparabili" è evidente che dallo studio non potranno emergere farmaci in grado di prevenire la comparsa dei danni ma, nella migliore delle ipotesi, solo quelli in grado di rallentare il decorso.
Il che non è sufficiente. Corollario a questo concetto è che fintanto che non saremo in grado di identificare i soggetti nella fase asintomatica della malattia non potremo nemmeno sviluppare farmaci preventivi.
In assenza di sintomi precoci, che precedono cioè i danni irreparabili su larga scala, gli approcci possibili sono due, basati sull'esistenza di due forme di AD, una familiare e l'altra sporadica. La familiarità della malattia (sebbene con diversi gradi di penetranza) è chiaramente indicativa dell'esistenza di mutazioni predisponenti (ad esempio APOE4 ε4) più o meno comuni nella popolazione di malati, che una volta identificate potrebbero essere utili per identificare i soggetti a rischio e testare su essi i farmaci più promettenti estrapolando poi i risultati su tutti i pazienti con AD. Il problema in questo approccio è che le due forme di AD  non sono propriamente la stessa cosa sia come tempistica (la forma familiare ha in genere un esordio precoce) che come base genetica. I geni mutati nei pazienti con AD sporadico (mutazioni ex-novo) non sono esattamente gli stessi di quelli mutati nelle forme familiari della malattia, quindi sebbene le manifestazioni tardive della malattia e alcuni parametri fisiologici come la presenza di aggregati amiloidi nei neuroni siano simili, è probabile che l'eziologia sia diversa.
L'alternativa sarebbe uno screening a tappeto mediante tecniche di imaging su migliaia di persone asintomatiche, seguite poi negli anni fintanto da identificare i soggetti sintomatici e da lì rielaborare i dati accumulati sperando che emerga un qualche nesso causale utile a fine diagnostico. Un approccio chiaramente complicato sia da un punto di vista logistico che economico.

E' di poche settimane fa la pubblicazione di un articolo capace di aprire uno squarcio nel "buio delle prospettive terapeutiche". Lo studio, pubblicato su Nature Communications da ricercatori della università di Lund, riporta la identificazione di quali siano le aree del cervello in cui inizia la malattia, permettendo di fatto la creazione di un canone diagnostico utile per lo screening di soggetti da reclutare per i prossimi studi clinici e fornire loro terapie capaci (potenzialmente) di bloccare il decorso prima che diventino sintomatici.

Per minimizzare il minimo il numero di soggetti analizzati (sia per ragioni di costo che di accumulo di dati "confondenti") i ricercatori sono partiti dalla nozione che l'accumulo della proteina β-amiloide è uno degli eventi chiave del processo degenerativo e che questo evento inizia decenni prima della fase sintomatica della malattia.
Nota. La centralità della beta-amiloide nella eziogenesi della AD è da qualche anno al centro di un profondo dibattito tra la visione classica che essa sia la causa prima della malattia e un numero non secondario di ricercatori che propendono per il suo essere un epifenomeno della patologia. Rimane il punto fermo che la stragrande parte dei pazienti presenta un accumulo di amiloide nel cervello e quindi la sua presenza può in ogni caso essere utilizzata come marcatore di uno stato patologico.
Lo studio è il risultato dell'analisi dei dati raccolti su più di 400 persone negli Stati Uniti, sani ma classificati come ad alto rischio di contrarre l'AD, a cui si sommano un numero simile di individui reclutati nell'ambito dello studio clinico svedese noto come BioFINDER. I dati ottenuti durante lo studio sono stati infine confrontati con quelli ricavati da soggetti sani e, apparentemente, non a rischio.
In estrema sintesi i ricercatori hanno prima quantificato il livello di proteina beta-amiloide nel liquido cerebrospinale dei volontari per poi passare alla mappatura mediante imaging (specificamente usando una tecnica nota come PET) delle aree in cui si localizzava la proteina. Un passaggio chiave per identificare quali fossero le aree in cui compaiono le anomalie ben prima della comparsa dei sintomi. Le zone identificate (precuneo, corteccia orbito-frontale mediana e cingolata posteriore) sono parte di una delle reti funzionali più importanti del cervello, nota come Default Mode network (vedi nota a fondo pagina),

Le aree in cui compaiono le prime anomalie associate al morbo di Alzheimer
(per l'immagine originale e dettagliata --> S. Palmqvist - Nat. Comm.)

Ora che sappiamo dove inizia la malattia di Alzheimer, potremo migliorare la diagnostica concentrando l'analisi su queste aree su quei soggetti a rischio (vuoi per storia familiare o per sintomi dubbi).
La Default Mode network  è una rete cerebrale fortemente interlacciata la cui attività è evidente quando ci troviamo in uno stato di astrazione vigile, come il tipico "sognare ad occhi aperti" che si svolge mentre si stanno svolgendo altre attività. Si tratta di una sorta di sistema di "pilota automatico" che ci permette ad esempio di camminare mentre siamo assolti nei pensieri senza andare contro un palo pur non essendo "attivamente" consapevoli di ciò che incontriamo. Non è un caso che tale sistema sia classificato tra quelli "superiori" (assente negli altri mammiferi) essendo associato non solo alla "mera" capacità di pensiero ma al pensiero astratto. Funziona, per dirla in termini semplici, come un raccordo tra l'attività corticale e i sistemi "inferiori" che rimangono vigili e "prendono il controllo".
Image credit: Immordino-Yang et al

Articoli precedenti sul tema -->"Una scarica per ricordare" oppure cliccando i tag --> "Alzheimer"  o --> "neuroscienze"


Fonte
- Earliest accumulation of β-amyloid occurs within the default-mode network and concurrently affects brain connectivity
Sebastian Palmqvist et al, (2017) Nature Communications 8, Article number: 121


Batteri sminatori

Le operazioni di bonifica dagli ordigni esplosivi nelle aree teatro di conflitto sono una delle attività più problematiche sia per il costo economico che per l'insita inefficienza della procedura, legata a doppio filo alla vastità dell'area da bonificare e alla varietà dei dispositivi occultati.
(original image --> DANGER MINES)
Il risultato è che la coda di vittime causate da ordigni "dimenticati" si protrae per anni anche dopo che il conflitto è ufficialmente terminato.

I metodi di rilevazione oggi in uso non sono cambiati granché negli ultimi 75 anni  il che amplifica la domanda di soluzioni innovative capaci di individuare le mine terrestri non metalliche a distanza di sicurezza. Se infatti è vero che ci sono automezzi appositamente disegnati per "arare" il terreno allo scopo di fare esplodere "in sicurezza" le mine, è anche vero che in molti casi l'approccio più efficace richiede l'individuazione visiva dell'ordigno prima e il disinnesco manuale poi.
Un aiuto potrebbe ora arrivare grazie ad un biosensore basato su batteri ingegnerizzati che spruzzati sul terreno da monitorare emettono fluorescenza al contatto con tracce di esplosivo.
Non si tratta in realtà di un approccio nuovo essendo stato proposto già nel 1999 sull'evidenza che la componente volatile dell'esplosivo tende a diffondere nell'area circostante con il passare del tempo. Da qui l'idea che non essendo difficile creare un batterio modificato contenente un gene "fluorescente" sotto il controllo di un promotore che risponde ad una data molecola, sarebbe "bastato" identificare una molecola presente nell'esplosivo (o derivata dal) per costruire un biosensore affidabile. Di fatto il sensore avrebbe funzionato come una sorta di cartina tornasole capace di dire "qui ci sono tracce di esplosivo quindi è probabile che ci sia un ordigno nelle immediate vicinanze".

Scansione a distanza degli ordigni (credit: newatlas.com)

La molecola ideale dovrebbe essere presente nel maggior numero di esplosivi in uso (oltre ad essere assente in ambiente naturale o non "critico"), essere sufficientemente stabile nel tempo e volatile (per facilitare la diffusione nel terreno). Dato che la maggior parte delle mine terrestri contiene TNT (e DNT come prodotto di degradazione), questo è stato l'ovvio punto di partenza.
I primi test condotti usando il batterio Pseudomonas putida diedero risultati promettenti ma non ancora utilizzabili in sicurezza: delle 5 aree in cui era stata interrata una carica contenente fino a 4,5 kg di TNT, 4 furono identificate con un margine di 2 metri, insieme però a 2 falsi positivi.

A distanza di anni dalla prima idea e con il miglioramento delle tecniche di ingegneria genetica si è finalmente giunti a nuovi test coadiuvati dalla possibilità di monitorare il segnale fluorescente da remoto grazie all'utilizzo di una scansione laser.
Nel test, pubblicato dal Belkin e collaboratori sulla rivista Nature Biotechnology, si sono utilizzati batteri ingegnerizzati del tipo Escherichia coli, spruzzati su un terreno in cui erano stati sepolti 12 contenitori di varia natura contenenti esplosivo (ma prive di innesco), ricoperte da diversi tipi di terreno (sabbia o terriccio).  I batteri, inglobati in perline di alginato del diametro di 3 mm, sono stati spruzzati in modo che la copertura del terreno fosse di circa 8 perline per centimetro quadrato.
La scelta dell'alginato viene dalla sua porosità che permette sia la diffusione delle molecole "target" nelle perline che la creazione di un ambiente permissivo per la temporanea sopravvivenza dei batteri (si tratta di biosensori, quindi il batterio deve essere vivo per fornire una risposta).
Altro punto chiave nella preparazione del test è stata la calibrazione del sistema di rilevamento, tale da rilevare il segnale fluorescente (rispetto al fondo ambientale) con scansioni laser effettuate a 20 metri di distanza e ad una velocità di 18 cm/sec, per un tempo di scansione totale di circa 15 minuti. 
I risultati sono stati sicuramente positivi con l'individuazione (e mappatura) di tutti i campioni sepolti nella sabbia, indipendentemente dalla tipologia di terreno, di involucro e di esplosivo. Inoltre a differenza del precedente test non si sono avuti falsi positivi.
Particolare importante è che l'involucro doveva essere sepolto da almeno 5 giorni perché la diffusione delle molecole fosse percepibile dai biosensori siti nelle vicinanze. Chiaramente questo preclude l'utilizzo di tali scansioni per la bonifica di mine recenti ma questo non è un problema dato che questi biosensori sono stati pensati per aree teatro di guerra nel passato.

Il sistema di scansione a distanza (credit: nature.com/articles/nbt.3791)

Sebbene i test abbiano dato risultati promettenti, rimangono alcuni problemi da risolvere, tra cui la rimozione (o l'inattivazione) dei batteri ingegnerizzati dopo l'uso, un passo questo fondamentale per evitare il rischio di trasferimento del pacchetto genetico ingegnerizzato ai batteri "indigeni". Altri aspetti su cui bisognerà ancora lavorare è la diminuzione del tempo necessario alla scansione e l'ottimizzazione dei tempi di risposta e delle matrici in cui sono incapsulati i batteri in modo da essere adatti alle diverse condizioni climatiche del teatro operativo.


Fonte
- Remote detection of buried landmines using a bacterial sensor.
Belkin S. et al, Nat Biotechnol. 2017 Apr 11;35(4):308-310

- Fischer, R. et al. (2000) Army AL&T., pp.10–12

- Glowing bacteria could help in landmine cleanup efforts
Darren Quick (su New Atlas)



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