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Visualizzazione post con etichetta scienze naturali. Mostra tutti i post
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Virus: non solo agenti infettivi ma anche cibo per protozoi

Virus. Non solo distruttori (di cellule) ma anche "integratore alimentare" per alcuni microrganismi.

Pensiamo alle placide acque di uno stagno in cui abbondano insetti e qualche pesce. Nelle sue acque, generalmente poco invitanti dato l'aspetto non cristallino, è in atto una invisibile ma continua disfida tra i virus e gli organismi unicellulari (batteri e protozoi) dove i primi cercano di trovare l'ospite adatto da usare per riprodursi e i secondi, vittime potenziali, a volte si trasformano da preda in predatori usando gli intrusi come fonte di cibo (una scena che evoca la trasformazione di Pac-man e dei fantasmini).
Per correttezza ricordo che i virus sono in genere altamente selettivi nella definizione di ospite "utile" (permissivo). La cellula bersaglio deve possedere sia recettori adeguati che un macchinario replicativo compatibile con le necessità riproduttive del virus. Ecco perché ad esempio un virus dell'influenza non è in grado di infettare le cellule muscolari dello stesso ospite (quindi geneticamente identiche) o cellule di organismi diversi da quelli abituali. Un batteriofago (virus dei batteri) non potrà fare nulla contro una cellula eucariote e sarà per questa inerte come un granello di sabbia.
Indizi di questa possibile alternanza di ruoli preda-predatore sono stati forniti da John DeLong, ricercatore presso l'università del Nebraska, a cui si deve la scoperta che alcune specie di Halteria, microorganismi ciliati che popolano le acque dolci in tutto il mondo, si nutrono dei clorovirus (virus che infettano le alghe verdi) che condividono il loro habitat acquatico. Una dieta questa per cui è stato coniato il nome virovoria/virivoria, rivelatasi sufficiente, in test di laboratorio, non solo a sostentare il microbo in assenza di altro cibo ma anche a permettergli di riprodursi.
Halteria (credit: Don Loarie)
L'utilizzo del virus come fonte di cibo può essere visto come una soluzione ecologica per rimettere in circolo parte del carbonio "intrappolato" nelle molecole organiche perse dalle cellule infettate quando "esplodono" durante la fase di rilascio della progenie virale.
Un riciclo non indifferente se si pensa a quanti virus ci sono nelle acque (circa 10 milioni in ogni goccia di acqua marina) e a quanti microbi tipo l'Halteria  esistono, senza contare quelli con simili capacità non ancora rilevati. Un tassello nel ciclo del carbonio fino ad oggi misconosciuto.

Non pura serendipità la scoperta di DeLong ma il proseguimento di studi iniziati nel 2016 per cercare di comprendere come riuscissero i clorovirus ad entrare in contatto ed infettare le zooclorelle (alghe verdi) che vivono a centinaia in perfetta simbiosi dentro protozoi ciliati come i parameci.
La relazione simbiontica tra un paramecio e le zooclorelle (alghe verdi)
(Credit: wikipedia)
La spiegazione più semplice era che l'infezione delle zooclorelle avvenisse prima del loro ingresso nei parameci oppure durante l'ingestione del cibo (in genere funghi unicellulari) da parte del protozoo.
In alternativa c'erano indizi in letteratura scientifica che indicavano la capacità di alcuni protozoi di rimuovere i virus dalle acque reflue, indicativi di una cattura diretta per quanto mai osservata.

Nessuna informazione era però disponibile sulla ragione di questa attività di cattura di virus e tanto meno sul ruolo negli ecosistemi microbici.
I virus sono fatti di cose buone come gli acidi nucleici, ovvero molto azoto e fosforo. Difficile credere che una sì preziosa fonte di materiale fosse stata dimenticata durante l'evoluzione. "Qualcosa" avrebbe usato questa nicchia dimenticata come fonte di cibo a buon mercato (altamente disponibile).
L'idea venne messa alla prova raccogliendo campioni da uno stagno in modo che ciascuna goccia campione contenesse almeno uno dei tanti microrganismi, fino a rappresentarli in modo più ampio possibile. A ciascun campione vennero poi aggiunte generose "porzioni" di clorovirus (come detto, questi virus sono in grado di infettare solo le alghe verdi e sono innocue per tutti gli altri microbi).
Dopo una incubazione di 24/48 ore si cercarono indizi nelle gocce se (e quali) specie microbi si fossero avvantaggiati della presenza dei virus come degli utile snack: ad esempio monitorando il loro stato vitale e riproduttivi.
Indizio trovato nelle gocce in cui era presente l'Halteria. Qui il numero di clorovirus era diminuito di 100 volte in soli due giorni e le cellule di Halteria (prive di ogni altra fonte di cibo) era cresciuta di 15 volte. Le Halteria nelle gocce di controllo (a cui non erano stati forniti clorovirus) non mostravano alcun aumento.
Indizi suggestivi ma serviva una prova definitiva che indicasse che il virus veniva usato come cibo dai protozoi. A questo scopo il DNA del clorovirus venne marcato con un colorante verde fluorescente prima di essere aggiunto al liquido contenente l'Halteria; poche ore dopo l'aggiunta il vacuolo (l'equivalente ciliato di uno stomaco) divenne verde brillante.
Il dato era ora inequivocabile: non solo i ciliati stavano mangiando il virus ma questi erano una fonte nutritiva sufficiente a sostentarli. 
L'analisi della dinamica predatore-preda (declino del clorovirus rispetto alla crescita di Halteria) mostrava che Halteria convertiva il 17% della massa di clorovirus consumata in nuova massa propria; percentuali simili  a quelle osservate quando i Parameci si nutrono di batteri o i piccoli crostacei mangiano le alghe.

Quanto sia diffusa la virovoria in natura o se sia essa un escamotage nutritivo da usare in tempi grami è una risposta ancora inevasa ma di importanza fondamentale per comprendere la resilienza delle reti alimentari.

Fonte
- The consumption of viruses returns energy to food chains
JP DeLong, (2022) Proceedings of the National Academy of Sciences 



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(Il libro dell'ecologia - Amazon)



Una chicca finché dura: The Hobbit illustrated by the author (Tolkien) a 30€

Legno fluorescente per massimizzarne il riutilizzo

Ecco come coniugare un approccio ecologico (utilizzo multiplo delle risorse naturali) e la lotta contro parassiti come il bostrico.

Da qualche tempo la Svizzera ha iniziato un opera di piantumazione di alberi decidui sia per compensare i danni causati dal parassita che per aumentare la quota di verde; piante che poi verranno anche sfruttate per il legno. Ideale sarebbe trovare modi per utilizzare il più possibile questi materiali prima del loro utilizzo finale come legna da ardere che reimmetterà in circolo la CO2 precedentemente legata.
Tra le varie idee c'è quella di dotare il materiale naturale di nuove proprietà associandolo a magneti, impermeabilizzandolo oppure sfruttarlo per produrre elettricità.
Altra possibilità quella, progettata da un gruppo di ricercatori svizzeri, di creare un legno luminoso grazie al trattamento con un particolare fungo. Legno che potrebbe poi essere usato per creare gioielli o complementi di arredo.
Delle piante ingegnerizzate per essere luminescenti ne ho già scritto in passato. Vi ricordo che sono in vendita ad un prezzo più che abbordabile in USA.
Attori di questo esperimento il fungo Desarmillaria tabescens (chiodino senza anelli o fungo del miele), dotato di bioluminescenza, e un legno a bassa densità come quello di balsa (Ochroma pyramidale).
Nei test campioni di legno sono stati incubati con il fungo in un ambiente umido per tempi diversi. In questa fase il fungo degrada la lignina, responsabile della rigidità e della resistenza alla compressione, senza intaccare la cellulosa così da non compromettere la stabilità del legno. Alla fine dell'incubazione il legno ha assorbito umidità pari a otto volte il peso iniziale e, una volta esposto all'aria, comincia ad emettere luce verde (lunghezza d'onda a 560 nanometri) la cui intensità raggiunge il plateau in circa 10 ore e da quel momento emette luce per una decina di giorni (arco temporale che si sta cercando di aumentare).
Campioni di legno incubati con il fungo
(credit:empa.ch)

Nulla di "magico" beninteso. 
In natura, la bioluminescenza è una proprietà nota in molti organismi, dai funghi agli animali (meduse, lucciole, ...). La luce viene prodotta grazie a processi chimici che rilasciano energia sotto forma di calore e luce. 
Da un punto di vista dell'efficienza la lucciola è sul podio con una resa quantica del 40% seguita dalle meduse (17%) mentre i funghi luminosi sono ad un più modesto 2%.

Oltre 70 sono le specie di funghi che mostrano bioluminescenza, nota anche come foxfire (vedi anche QUI) nel legno in decomposizione.
Il termine è un ibrido franco-inglese derivante da "faux" e "fire" ("falso fuoco"). Il momento ideale per osservare il fenomeno è in autunno nelle foreste di faggi.
Non del tutto chiara la funzione della bioluminescenza nei funghi. Una delle ipotesi è che serva per attrarre gli insetti utili ai funghi per veicolare altrove le loro spore. 


Leuchtholz aus dem Pilzlabor (credit: Empa-TV)

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Il fungo del miele può germogliare in modo poco appariscente sul suolo della foresta nella classica forma di fungo, adornato solo da una striscia decorativa attorno al gambo, come un braccialetto, che gli conferisce il nome latino "Armillaria".
Molto più impressionante, tuttavia, è la sua ragnatela di fili neri che disegna su legno e terreno. I fili fungini formano spessi fasci lunghi un metro, circondati da uno strato protettivo nero contenente melanina. Sono anche raggruppati nella categoria dei rizomorfi proprio per queste ramificazioni che assomigliano a radici che si espandono alla ricerca di nuovi habitat e fonti di cibo.
Nota. Il più grande organismo vivente al mondo, una rete di funghi del miele vecchia di 2400 anni, copre un'area di diversi chilometri quadrati nello stato americano dell'Oregon. Il fungo più grande d'Europa si trova in Svizzera sul Passo del Forno. Questo fungo del miele vecchio di 1000 anni copre un'area delle dimensioni di 50 campi da calcio.

Fonte
How to make wood glow
Empa.ch (11/2024)






Luci LED fungine (image: Amazon)
 
Libro per ragazzi sulla bioluminescenza
(image: Amazon)



Nikolaj Ivanovič Vavilov. Quando il pensiero scientifico si scontra con l'ortodossia ideologica (o religiosa)

 La mela, la scienza e le ideologie
Quando si pensa agli ostacoli che il pensiero scientifico ha dovuto affrontare per "riuscir a riveder le stelle" (parafrasando Dante), il pensiero va subito all'inquisizione e a Galileo. Una visione semplicista (e miope) l'implicito identificare il cattolicesimo come il nemico principale della conoscenza scientifica.
Più prosaicamente sono LA religione (in particolare quelle monoteiste ... ma non solo, come alcuni pogrom induisti insegnano) e l'ideologia i principali avversari del pensiero scientifico, che per definizione non accetta verità altre a quelle "scritte nel Libro". O meglio la religione e l'ideologia diventano nemiche della scienza nel momento in cui escono dall'ambito personale o di confronto dialettico e pretendono di imporre il pensiero unico ritenendosi le uniche depositarie della verità.
Numeri alla mano, a cavallo del 1600 e nella sola Germania luterana le persone processate per stregoneria furono 73 mila, di cui almeno 40 mila condannate al rogo (numeri ben superiori a tutta l'inquisizione spagnola cattolica). Una persecuzione che non risparmiò nemmeno Keplero che dovette difendere la madre settantenne dalle accuse lanciate (si badi bene) non dallo "stato" ma dai concittadini, che peraltro ignoravano il senso dei suoi scritti e che non conoscevano di persona essendo emigrato da anni.
Mendel era un frate ed è grazie ai suoi studi che nasce la genetica. Darwin non era certo un ateo ma è grazie alla sua libertà di pensiero (e all'essere vissuto in un epoca sì bigotta ma in cui la religione aveva perso il potere "esecutivo" e il pensiero illuminista si stava fondendo con il positivismo) che il concetto stesso di evoluzione si afferma e sostituisce il Lamarckismo; teoria quest'ultima che noi posteri non dovremmo disprezzare dato che l'epigenetica è di fatto una sorta di neo-lamarckismo che non si contrappone alla genetica classica ma la completa. Se solo Darwin e Mendel (contemporanei) avessero conosciuto le rispettive opere chissà che sintesi ne sarebbe venuta fuori! Come loro, molti sono stati gli studiosi di scienza che erano parte integrante della chiesa: il canonico Copernico; Padre Angelo Secchi, uno dei padri dell’astrofisica; don Georges Lemaitre, padre del Big Bang, don Lazzaro Spallanzani (fondamentale per la biologia moderna);  ... . La differenza la fanno quindi le leggi che la società sa imporre per prevenire aneliti teocratici o totalitari. Dimentichiamo troppo spesso quanto le libertà europee oggi date per scontate siano state conquistate dopo secoli di contrapposizione società/stato/religione.
Se fosse solo un problema religioso potremmo anche farcene una ragione. Ma i nemici delle scienze biologiche si annidano anche in ideologie ammantate di puro materialismo, come il comunismo. Sarà che quando le ideologie diventano "assolutiste" (alias non esiste altra verità all'infuori di essa) diventa difficile distinguerle dalla religione se non per l'assenza di un pantheon divino, prontamente sostituito dal culto della personalità come ben dimostrano i casi dei "laicissimi" Mao e Stalin.

Un fenomeno poco noto quello della lotta scienza-ideologia, ben esemplificato però dalla fine di Nikolaj Ivanovič Vavilov e dal caso delle mele selvatiche del Tien Shan, da lui identificate come le progenitrici delle mele oggi coltivate in tutto il mondo. L'accusa che portò alla sua condanna a morte, commutata in 20 anni di gulag siberiano (dove morì dopo soli tre anni), verteva sul reato di aver difeso la genetica classica mendeliana, considerata una "pseudoscienza borghese".
A leggerlo oggi fa effetto ma sappiamo bene che una tale accusa non stonerebbe in stati teocratici odierni.

Riassumiamo la vicenda.
Malus sieversii selvatica in Kazakhstan
La mela oggetto del contendere è la Malus sieversii, dal nome del suo scopritore, il tedesco Johann Augustus Carl Sievers. Nel suo ruolo di membro della Accademia imperiale russa delle scienze di San Pietroburgo  e noto l'interesse di Caterina II per la botanica, Sievers compì una serie di viaggi in Asia centro meridionale (attuali Kazakhstan, Uzbekistan, ...) dove si imbatté in mele selvatiche, piccole e dolci. Ben prima di essere "scoperta", la mela si era diffusa lungo la Via della Seta al seguito dei mercanti, fino ad arrivare ai centri delle civiltà mesopotamiche, egizie, cinesi, greche, romane e infine nelle americhe al seguito di Colombo.
Durante il suo lento diffondersi la Malus sieversii si sarebbe trasformata (ad opera della selezione operata dall'uomo) nelle varietà attuali, perdendosi la memoria dell'origine. Per riscoprirne la sua centralità filogenetica bisogna attendere il 1929 quando il genetista e agronomo russo Nikolaj Vavilov, dopo avere visitato le foreste di meli selvatici del Tien Shan (le Montagne Celesti del sud del Kazakhstan ... bellissime!) identifica tali mele come le progenitrici delle varietà attuali. Una affermazione oggi innocua ma che alle orecchie sovietiche suonò come una indebita ingerenza "borghese" (termine che comprendeva ogni studio non centrato sulle problematiche marxiste).
Una accusa non solo frutto di cecità ideologica ma che in realtà sottintendeva il dirigismo economico sovietico impegnato ad eliminare ogni coltura che non rientrasse nei piani quinquennali. E le mele selvatiche non rientravano in questi piani ma anzi, come vedremo poi, l'idea era di sostituirle in toto con le varianti "moderne". Una scelta quanto meno miope per il semplice fatto che tale ceppo primigenio era sopravvissuto sostanzialmente indenne per decine di milioni di anni. Una specie resistente, in grado di tollerare mutazioni climatiche letali per altri ceppi.
 Nota. Oggi si sa che il melo esisteva già nelle fasi finali dell'era dei dinosauri (circa 70 milioni di anni fa), per cui alla prova dei fatti capace di superare eventi come l'impatto meteorico che pose fine al loro dominio, e le più "recenti" glaciazioni.
Sostituire una specie antica con una meno rodata anche se apparentemente più produttiva appariva a Vavilov come una scelta molto rischiosa. Rischiosa non solo da un punto di vista ecologico ma anche per l'effetto che avrebbe potuto avere una annata di condizioni climatiche estreme sulla disponibilità di mele, fonte principale dell'alimentazione locale. Bisogna ricordare che Vavilov non era un teorico con poco senso pratico ma uno che aveva dedicato gran parte della vita di studioso (noto anche oltreoceano) a combattere la cronica penuria di cibo post-rivoluzionaria, ottimizzando le coltivazioni in modo "scientifico" in modo da massimizzare e ampliare la gamma delle coltivazioni locali (che l'attuazione dei "piani quinquennali" decisi a Mosca rendeva sempre più a rischio). Quanto le mele fossero importanti in quell'area lo si evince dal nome della (ex) capitale, Alma Ata, coniato a metà '800, che in Kazako vuol dire "padre delle mele".
Proprio in questo ambito avvenne lo scontro tra la scienza di Vavilov e l'ideologia, impersonata in Trofim Lysenko, direttore dell'Accademia di scienze agricole dell'URSS. Uno scontro tra la genetica mendeliana del primo e la "nuova biologia, proletaria che deve opporsi alle pseudoscienze borghesi" (sic!). Non bastasse questo atto d'accusa è lo stesso Lysenko a sostanziare l'accusa con parole incredibili in quanto dette da uno scienziato (ideologizzato): "l'URSS si fonda sul marxismo-leninismo e sul materialismo-dialettico e dato che esse non prevedono la genetica mendeliana, questa è da considerarsi una falsa scienza che va rimpiazzata con la vera biologia". Rileggetevi l'atto d'accusa. Un tono anche peggiore rispetto alle scomuniche religiose in quanto si nasconde dietro pretese di "vera scienza", ma che altro non sono che ideologia e come tale lontana dal pensiero scientifico.
Lysenko parla nel 1935 di fronte al Politburo
Una sfida che andrà oltre Vavilov (morto nel frattempo in Siberia) e il picco del periodo staliniano. Negli anni '50 Lysenko sarà il più accanito persecutore di Aymak Djangaliev (allievo di Vavilov) quando questi si opporrà al piano esecutivo di eradicazione dei meli selvatici. Un piano fatto approvare a Mosca da Lysenko con la giustificazione che "il melo selvatico è un errore della natura che andava corretto attraverso il lavoro dell'Uomo".
E' superfluo dire chi abbia avuto la peggio anche se, essendo in un epoca più "moderata" Djangaliev se la cavò con l'espulsione dal partito, la proibizione dei suoi libri, la revoca del dottorato e il rogo di gran parte dei suoi appunti, ... .
Ovviamente i risultati della "nuova biologia" non furono eccelsi. I vecchi meli, che pure erano sopravvissuti a 5 inverni di fila con picchi a -50 °C (alla faccia degli errori della natura), furono estirpati e i loro sostituti non superarono il primo inverno duro. Il Kazakhstan perse così il 70 per cento dei suoi meli ma Lysenko si dimostrò più resistente riuscendo a passare indenne anche al processo di destalinizzazione perseverando nelle sue idee fino agli anni '80.

Nel 2009 il biologo molecolare americano Barry Juniper dimostrò, grazie al sequenziamento del genoma del Malus Sieversii e alla comparazione con le altre specie di meli la correttezza della teoria di Vavilov. Il Malus Sieversii è veramente il progenitore della mela moderne.

Ricordiamocelo quando ascolteremo per l'ennesima volta le affermazioni di coloro che si professano "materialisti" mentre ragionano da religiosi. Un esempio su tutti? La crociata naturista anti-OGM "senza se e senza ma" che, guarda caso, vede tra gli adepti e profeti tutte le categorie sociali ad esclusione di chi abbia, non dico competenze nel campo, ma anche solo una cultura scientifica universitaria (vedi il CV e i trascorsi dei guru di tale movimento come Capanna e Petrini. Poca scienza e tanta ideologia).


****
Nota. Vale la pena ricordare un caso analogo e dalle conseguenze catastrofiche, quello della coltivazione del cotone in URSS. A partire dagli anni '40 si cominciarono ad implementare piani quinquennali volti a fare diventare l'Unione Sovietica il principale esportatore mondiale di cotone. La zona scelta in cui sostituire le colture tradizionali con una monocoltura intensiva di cotone fu quella dell'Asia centrale circostante il lago d'Aral. Un progetto coerente con l'idea sovietica di organizzare ciascuna repubblica in modo che producesse una sola cosa (alimentare, metalli, legno, ...), con l'indubbio vantaggio di impedirne l'autosufficienza, ottimo antidoto a velleità indipendentiste. Per soddisfare l'elevata richiesta di acqua (tipica del cotone e ancora di più data l'estensione delle colture) furono dirottate gran parte delle acque che rifornivano il lago d'Aral attraverso canali mal progettati che fecero perdere fino al 70% dell'acqua convogliata.

Il risultato è stata la quasi totale scomparsa del lago in soli 30 anni, trasformato in una pianura salina piena di scorie tossiche (pesticidi e rifiuti militari) e non utilizzabile, come si sarebbe voluto, come acquitrino in cui coltivare il riso. Si perché la cancellazione del lago fu vista come opportunità per fare altro ... senza però saperlo fare. Oltre all'impatto ecologico pensiamo all'effetto della scomparsa della economia locale fondata sulla pesca di pesca).
La capacità obnubilante delle ideologie dimostra ancora una volta la sua forza ... .

Fonti
Sono debitore per l'idea di questo articolo a molte fonti. Su tutte 
  • "Le mele dei dinosauri" (C. Vulpio su La Lettura, 33, 2016)
  • "Expo, nel padiglione russo l’eredità di Vavilov: 323 mila piante e semi" (L. Zanini sul CdS del 4/6/2015)
  • "Le foreste dei meli selvatici del Tien Shan", XXXVII edizione Premio Internazionale Carlo Scarpa, 2016
  • "Les Origines de la pomme", documentario (2012)
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Se vi interessano altri esempi in cui abbiamo assistito allo scontro ragione/scienza vs. ideologia, vi suggerisco la lettura di articoli precedentemente apparsi in questo blog (clicca sul titolo per aprire la pagina)

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Ottimo libro per capire il dibattito Nature vs. Nurture (ossia innativismo vs. ambiente)


Un valido "antidoto" all'imperante clima di pseudo-scienza che sembra imperare di questi tempi?  Allora vi consiglio "Il più grande spettacolo della terra" di Richard Dawkins; una lettura piacevole oltre che utile per chi si "ciba" di scienza



Il rospo del deserto di Sonora non è l'unico animale che può provocare allucinazioni

Del rospo "psichedelico", e dei problemi che sta vivendo dopo l'articolo del NYTimes, ne ho scritto in precedenza e lì vi rimando per una trattazione completa.
Oggi amplio un poco il tema trattando di altri animali che, se maneggiati incautamente, danno gli stessi effetti collaterali.

Rana scimmia gigante (Phyllomedusa bicolor)
Habitat: bacino amazzonico; Sud America.
credit: TimVickers
Superfluo ricordare che, essendo un anfibio, il suo nome nulla ha a che fare con i noti animali marini (Cnidaria). Il nome deriva dal greco “phyllo” (foglia o fogliame) e “medousa” (regina o protettrice), quindi significa “regina/guardiana del fogliame”.
La cute produce una secrezione che nella forma essiccata, nota come kambô, e applicata su tagli o bruciature pelle, viene usata da alcune tribù come medicina e/o rituali sciamanici; negli anni si è diffusa anche nelle città fino ad essere proibita non tanto per i suoi minimi (e poco caratterizzati) effetti allucinogeni ma per l'elevato rischio di tossicità.
I dubbi sulla reale azione psichedelica vengono dal fatto che il kambô non attiva il recettore 5-HT2A, una proteina che rileva il messaggero chimico serotonina, come invece fanno le sostanze psichedeliche.
Le secrezioni avrebbero la finalità "rituale" di aumentare la resistenza dei cacciatori mentre la funzione originale (quella evolutasi nella rana) è di provocare nei predatori rigurgito, convulsioni e un cambiamento nella funzione cardiaca.
La composizione della secrezione è ancora poco caratterizzata per quanto riguarda quale fra le varie molecole (circa 200 peptidi) presenti siano i veri effettori

Spugna bucherellata (Verongula rigida)
La spugna bucherellata (traduzione letterale visto che non ho trovato il suo nome in italiano) e alcune altre spugne tra cui Smenospongia aura e Smenospongia echina producono 5-bromo-DMT e 5,6-dibromo-DMT e in quanto tali (la dimetiltriptamina o DMT è un allucinogeno) sono potenzialmente in grado di produrre effetti allucinogeni.
È noto che la spugna bucherellata concentra nei suoi tessuti sostanze chimiche chiamate monoammine dotate di azione neuromodulatrice. Questi composti non solo danno il sapore amarognolo alla spugna (già di suo un dissuasore per i predatori) ma possono anche alterare il comportamento nei pesci cocciuti limitando così il danno per la spugna a piccoli morsi prima di indurre il malcapitato a cambiare dieta.
Uno studio del 2008 sui ratti ha evidenziato una azione antidepressiva per il  5,6-dibromo-DMT mentre il 5-bromo-DMT mostrava proprietà sedative. 
Dato l'attuale interesse per la riscoperta di droghe modificate per uso terapeutico (su tutte l'approvazione della ketamina), non mi stupirebbe scoprire che alcune aziende stanno attivamente lavorando per selezionare prodotti da usare come antidepressivi, ansiolitici o antidolorifici.

Formica mietitrice californiana (Pogonomyrmex californicus)
Credit: Matt Reala
Il veleno della formica mietitrice californiana è costituito da enzimi non noti per indurre allucinazioni ma associati ad essi per come gli indigeni locali le usavano durante i loro rituali. Resoconti etnografici del secolo scorso riportano che le persone inghiottivano centinaia di formiche vive avvolte come palline all'interno di piume d'aquila, cosa che rende più che probabile che venissero morse dall'interno del tratto orofaringeo/esofago (dubito che fossero ancora vive nello stomaco).
Secondo gli studiosi, il dolore associato ad un tal numero di morsi di formiche, associato al freddo, al digiuno e alla privazione del sonno che caratterizzavano quei rituali, innescava allucinazioni e/o visioni mistiche insieme ad intorpidimento nella zona del morso. Uno stato che durava dalle 4 alle 8 ore.
Un morso di una di queste formiche è sufficiente ad uccidere un topo.
Il loro veleno serve come difesa dai grossi predatori, come piccoli mammiferi e lucertole.

Salpa (Sarpa salpa)
Varie sono le specie di pesci che possono causare allucinazioni uditive e visive se mangiati. Tra questi alcuni cavedani, i pesci pagliaccio e la salpa che userò qui come esempio essendo presente nel Mediterraneo.
Credit: Brian Gratwicke
Noto anche agli antichi romani come "pesce dei sogni", fatto che suggerisce i suoi potenziali effetti collaterali dopo averlo mangiato (ittioalleinotossismo). Sebbene rari sono stati documentati casi di intossicazione (Clinical Toxicology, 2006). Tra questi il caso di un quarantenne che dopo avere mangiato la salpa al forno ha in seguito avuto allucinazioni di animali urlanti e di artropodi giganti che circondavano la sua auto; sintomi durati 36 ore con cure mediche.
Non è noto quale sia il (o i) composto responsabile e alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti di sottoprodotti derivati dalla dieta del pesce.
Importante sottolineare che questo fenomeno è diverso da altre forme di avvelenamento da pesce, i cui esempi classici sono quello del pesce palla e della ciguatera, entrambi causati da tossine prodotte da microbi simbionti nel pesce o dall'anisakis cioè pesce mangiato crudo e infetto da nematodi. 
All'interno del pesce palla sono ospitati batteri simbionti  che producono la tetrodotossina (TTX), neurotossina che può causare paralisi e morte. La ciguatera invece è causata dall'ingestione di alimenti di origine marina contaminati da una tossina, di origine non batterica, nota come ciguatossina, presente in molti microrganismi (in particolare il dinoflagellato Gambierdiscus toxicus). Può causare diarrea, vomito e debolezza, nonché un disturbo sensoriale inverso, in cui le cose calde sembrano fredde e viceversa. In entrambi i casi non si hanno allucinazioni. 
Rimane da capire se questi allucinogeni presenti nella salpa siano incidentali (dovuti alla sua dieta) oppure fungano da deterrente per i predatori.

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Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)

Arrivato il vaccino contro il cancro che ha decimato il diavolo della Tasmania

In occasione dell'approvazione del vaccino contro il cancro contagioso che affligge il "diavolo della Tasmania" ripropongo in calce un articolo scritto nel lontano 2014.

I diavoli della Tasmania affetti da cancro riceveranno vaccini ispirati al COVID mentre il vaccino è stato approvato per i test
Tre decenni fa, la malattia del tumore facciale del diavolo (DFTD) emerse in Tasmania uccidendo da allora circa l’80% di questi marsupiali facendo temere che la stessa specie fosse sull'orlo dell'estinzione. Come descritto nell'articolo in calce, si tratta di un rarissimo esempio di cancro non solo mortale ma contagioso dovuto all'alta omogeneità genetica degli animali (evidente a livello del MHC-1); in soldoni se una cellula tumorale "aliena" entra in altro animale questi non la riconoscerà come estranea (distruggendola) ma come "self" lasciandole così tutto il tempo di proliferare e diffondersi.
Il vaccino funziona sulla falsariga di quello sviluppato da AstraZeneca e Johnson & Johnson, cioè basato sull'adenovirus (geneticamente modificato per impedirgli di moltiplicarsi) come vettore.
Dopo essere penetrato nelle cellule del diavolo della Tasmania, il vaccino DFTD induce la produzione di proteine presenti solo nelle cellule tumorali che diventano così utili "sparring partner" con cui il sistema immunitario impara a riconoscere e a distruggere (le cellule tumorali sono riconosciute come corpi estranei, quindi da distruggere).
L'autorizzazione all'inizio del test risale alla scorsa estate e prevede di usare 22 animali sani e in cattività: solo quelli che mostreranno di essere resistenti alla malattia e privi di residui virali del vaccino verranno rimessi in libertà aprendo la strada al trattamento di massa di quelli rimanenti.

Anche nei casi esiste un problema di tumori contagiosi. Vedi QUI il precedente articolo sul tema.

Fonte
Tasmanian devil cancer vaccine approved for testing
Nature (2023)



*** 02/'5/2014 ***
Un tumore infettivo minaccia il diavolo della Tasmania. Salvarlo si può

Obiettivo: salvare il diavolo della Tasmania.

Il piccolo mammifero australe fotografato a lato è sull'orlo dell'estinzione a causa di una malattia tumorale infettiva. Non spaventatevi dopo avere sentito la parola infettiva dato che l'infettività è estremamente specifica per questo animale ed è strettamente legata come vedremo alla ridottissima variabilità genetica delle popolazioni autoctone.
Cercherò di spiegarlo in modo abbastanza semplice. Un tumore altro non è che una la crescita sregolata (leggasi non più regolata dai sensori interni e da quelli tissutali) di cellule, perché mutate o riprogrammate da agenti esterni come virus o agenti chimici. In entrambi i casi non solo i segnali regolatori intrinseci e locali che segnalano quando e quanto dividersi o differenziarsi non verranno più "ascoltati" ma viene persa la capacità delle cellule danneggiate di "suicidarsi" (meccanismo noto come apoptosi). Risultato? L'accumulo di cellule sempre più mutate e non responsive che generano tessuti disorganizzati e invasivi, i tumori.

Salviamo il diavoletto (link)
La meravigliosa efficienza dei sistemi biologici fa si che queste anomalie siano rare in quanto gran parte di esse viene eliminata dai sistemi di controllo. Tuttavia ogni organismo multicellulare complesso (come i vertebrati) producono nel corso dell'esistenza un numero incredibilmente alto di cellule; quindi per quanto rari siano i fenomeni questi possono apparire. 
Ogni giorno in ognuno di noi compaiono cellule mutate che cominciano a comportarsi in modo anomalo ma di cui non ci accorgiamo dato che vengono prontamente identificate e distrutte, anche, dal nostro sistema immunitario; non tutti sanno infatti che le cellule immunitarie svolgono non solo compiti di pattugliamento contro invasioni esterne ma anche di verifica di anomalie nei codici identificativi di ciascuna cellula. In pratica è come se le cellule immunitarie controllassero in continuo i pass di tutte le cellule con cui vengono in contatto. Quando la cellula mutata appare normale ai controllori essa è ovviamente invisibile per cui sfugge alla cernita; analogamente quando il numero di cellule anomale eccede la capacità del sistema di controllo un certo numero di queste sfuggirà alla eliminazione. 
In modo non molto diverso negli individui affetti da AIDS (che come è noto sviluppano tumori come il sarcoma di Kaposi estremamente rari nella popolazione sana) la costante diminuzione del numero di linfociti, oltre ad esporre a infezioni opportuniste, rende il controllo interno sempre meno efficace.

In tutti i casi sopra descritti un tumore anche se invisibile al sistema immunitario del portatore non potrà mai essere trasmesso ad un'altra persona (o animale) immunitariamente integra dato che la cellula verrebbe immediatamente identificata come estranea (non self) e distrutta. Su quanto sia efficace questo controllo pensate alle reazioni di rigetto successive ad una trasfusione errata o dopo un trapianto eterologo in assenza di immunosoppressivi.
Questo discorso è valido fino a che organismo donatore e ricevente sono geneticamente distanti. In una popolazione geneticamente omogenea le reazioni di rigetto diventerebbero tanto più deboli tanto maggiore è l'omogeneità. Come potrebbe del resto il sistema immunitario capire in queste condizioni se una cellula è self o non-self?
Una elevata omogeneità genetica è quindi un pre-requisito per l'esistenza stessa dei tumori infettivi; non è un caso se i tumori infettivi (ma NON quelli secondari legati ad infezioni di virus come HTLV e HIV) sono stati descritti solo in razze canine altamente auto-incrociate e, appunto, nel diavolo della Tasmania.
Nei cani l'esempio classico è quello del Canine transmissible venereal tumour (CTVT), il tumore più vecchio in assoluto dato che non compare spontaneamente (se non a bassissima frequenza) ma viene trasmesso da millenni da un animale all'altro (si stima che tale tumore abbia di fatto 2500 anni --> Murchison et al, Science (2014)). Nel caso del diavolo della Tasmania è più difficile, essendo meno studiato, stabilire con certezza l'età di questo tumore ma le cause e la modalità di trasmissione sono identici (accoppiamenti o preliminari).
Se nel caso del cane l'alta omogeneità genetica è stata in larga parte causata dall'uomo, nel caso del diavolo della Tasmania le cause sono duplici: una popolazione non sufficientemente ampia da permettere la presenza di una ampia variabilità e una localizzazione geografica limitata che accentua il problema della scarsa popolazione. Ma se si trattasse di tumori interni (ad esempio fegato o pancreas) i problemi sarebbero relativi, al più si avrebbe un aumento dell'incidenza tumorale senza le problematiche legate alla trasmissione reciproca. Purtroppo il tumore che sta dilagando nei diavoli della Tasmania è localizzato su mucose e zone esterne (Devil facial tumour disease - DFTD) come volto e genitali, aree di frequente contatto sia nell'identificazione reciproca che nell'accoppiamento. Non stupisce quindi la vera e propria epidemia che ha decimato l'85 per cento della popolazione di questi mammiferi dal momento della comparsa del tumore nel 1996. Il semplice contatto favorisce il passaggio di un numero anche limitatissimo di cellule che se in grado di entrare nei tessuti sottostanti (ad esempio a causa di abrasioni) non incontrerà più alcuna restrizione alla sua proliferazione.

Esempio di tumore su questi poveri animali
(©wikipedia)
Uno zoo americano in collaborazione con una università australiana si è messo in moto per cercare di salvare il diavolo della Tasmania attraverso la reintroduzione locale di individui sani tra quelli presenti all'estero. Un'impegno urgente dato che si prevede l'estinzione della specie allo stato selvatico entro 25 anni.
Il progetto diviso in diverse fasi vedrà dapprima la reintroduzione di 50 animali su Maria Island, un isola al largo della costa orientale della Tasmania. Il gruppo sarà seguito con attenzione (anche con gps e chip), tanto quanto lo sarebbe in uno zoo, in modo da favorire i sani stimolare la diversità genetica.



Forza diavoletto, facciamo il tifo per te!
Il simpatico diavolo della Tasmania rivisitato dalla ®Warner Bros (all credit to: giphy.com)
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Aggiornamento (agosto 2015)
  • L'analisi genomica dei tumori ha confermato l'origine clonale dei tumori.
  • Il profilo trascrizionale (cioè i geni attivi) mostra che il tumore è originato da una cellula di Schwann.



Fonti e link
-  America and Australia in partnership to save the Tassie devil
University of Sidney, news
- Pagina facebook del programma Save the Tasmanian Devil
- Diavoli della Tasmania su wikipedia.


Formiche zombie. Il risultato di una lotta tra formiche e funghi vecchia di milioni di anni

[originale 08/2013. Aggiornato 09/2023]
Ogni giorno, da milioni di anni, le formiche operaie lasciano il nido la mattina e con le compagne vanno alla ricerca di cibo e di materiali utili. 
Ogni giorno, nelle zone tropicali, all'interno di questo flusso ininterrotto di pendolari potremmo scorgere delle formiche che invece di muoversi speditamente sui rami, vagano senza meta apparente e in modo goffo, inciampando di frequente. 
Ogni giorno intorno a mezzogiorno queste formiche "confuse", come in risposta ad un rintocco lontano, seguiranno un preciso programma comportamentale che le condurrà alla fase finale della loro vita di "non morti". Si agganceranno con le mandibole alla parte inferiore di una foglia posta a circa 25 cm di altezza dal suolo e in coincidenza con una vena succosa, e lì moriranno.
Formica zombificata da cui esce il fungo che dissemina le sue spore sul terreno sottostante... pronte per colonizzare altre formiche (image: Kim Fleming via Wired)
Ho usato non a caso il termine "non-morte" per queste formiche. Si tratta di formiche infettate, e oramai condannate, i cui movimenti sono controllati da un organismo parassita. 

Torniamo alla scena della formica che si aggancia alla foglia e li, con la mascella bloccata, si lascia morire. Come in una variante della serie "Alien", pochi giorni dopo l'infezione dalla testa della formica emergerà il gambo di un fungo che giunto a maturazione rilascerà nell'area sottostante le spore. Ogni tanto qualcuna di queste spore verrà raccolta dalle formiche di passaggio e questo perpetuerà il ciclo infezione - "zombificazione" - diffusione delle spore.

A scrivere una trama del genere in un libro di fantascienza-horror si correrebbe il serio rischio di sfidare l'incredulità del lettore, ma come scrisse qualcuno anni fa "solo dalla letteratura si pretende la verosimiglianza, la vita è di per se molto più incredibile".

Il fenomeno sopra descritto è ben documentato da anni. Il termine di formiche-zombie per le formiche infettate è dovuto al loro essere del tutto prive del controllo dei movimenti, quasi come dei morti che camminano. Le prime descrizioni presenti nella letteratura scientifica risalgono al 19mo secolo e furono documentate in Indonesia da Alfred Russell Wallace.

Il termine "zombie", tuttavia, pur suggestivo non è del tutto corretto (a meno di non usare come riferimento i zombie-rabbiosi ma vivi de "La città verrà distrutta all'alba" di George Romero). Non si tratta infatti di formiche resuscitate dalla morte ma di un meccanismo parassitario fungino estremamente sofisticato che opera prendendo il comando del sistema nervoso della formica in modo da trasformarla nel terreno di coltura ideale per la propria crescita. Una volta che il fungo ha preso il controllo, "costringe" la formica a cercare la posizione ideale (per il fungo ovviamente), e lascia la formica a morire. Quello che serve al fungo ora è procedere spediti nella fase finale della maturazione, una fase in cui l'integrità strutturale della formica non è più importante.
La posizione della formica e l'altezza della foglia sono entrambi ideali visto che si trovano ad una altezza sufficiente dal suolo perchè le spore possano diffondersi facilmente nella zona senza che le altre formiche si accorgano del pericolo.
Primo piano del fungo che emerge dalla parte posteriore della testa (®David Hughes, Penn State University)

Credit: Nat. Geogr.

Gli attori di questa danse macabre sono il fungo Ophiocordyceps (un parassita obbligato) e le formiche carpentiere del genere Camponotus. Un duetto che continua da milioni di anni (le tracce fossili nell'ambra fanno pensare ad una disfida che dura da almeno 48 milioni di anni) e che, ovviamente, ha visto la nascita di rapporti specifici fra molte specie di funghi e altrettante specie di formiche. In un articolo del 2011 pubblicato sulla rivista PLoS ONE, i ricercatori  Harry EvansSimon Elliot e David Hughes del Dipartimento di Biologia Animale presso l'Università Federale di Vicosa in Brasile, hanno descritto quattro nuove specie del fungo Ophiocordyceps trovate in un piccolo tratto di foresta pluviale nel sud-est del Brasile. Ognuna di queste specie di funghi parassita solo una delle specie di formiche Camponotus, a denotare un elevato grado di specializzazione.

Non è tutto. Un ecosistema naturale in equilibrio prevede che i predatori siano loro stessi soggetti alla possibilità di essere predati. In questo caso il fungo stesso può essere parassitato da altri funghi.
Ricercatori danesi (Andersen et al, PLoS ONE, maggio 2012) hanno trovato sul cadavere di una formica parassitata una specie di fungo del tutto diversa. Questo ulteriore parassita, detto iperparassitaimpedisce al fungo originale di emettere le sue spore, di fatto sterilizzandoloL'iperparassita sfrutta quindi il primo parassita, e si riproduce al suo posto. Non stupisce quindi che anche questi iperparassiti abbiano una forte preferenza sul tipo di organismi da parassitare e siano essi stessi dei parassiti obbligati.
Oltre ai funghi i ricercatori hanno trovato anche piccoli insetti della famiglia Cecidomyiidae intenti a deporre le uova nel cadavere della formica infetta. Le larve crescendo si nutriranno del fungo.
Un vero e proprio micro-ecosistema che in ultima analisi ha permesso alle formiche di sopravvivere. Dato che il secondo fungo impedisce la sporificazione del primo, il numero di spore da esso prodotte (quindi la capacità di infettare le formiche) viene fortemente ridimensionato. La formica in se è diventata la "irrilevante" vittima sacrificale che garantisce la sopravvivenza delle sue sorelle. L'iperparassita infatti NON è in grado di infettare direttamente le formiche.
 David Hughes, professore associato di entomologia e biologia alla Pennsylvania State University, ha aggiunto in un articolo del 2011 su Ecology BMC, nuovi dettagli sulla fase infetta della vita della formica. I primi indizi di una infezione in atto si hanno quando la formica si allontana, barcollando come fosse ubriaca, dalla zona asciutta e elevata di un albero per dirigersi verso quella più umida del suolo. Il movimento della formica appare casuale e sono frequenti le convulsioni che la fanno cadere. 
Ed è in questo frangente che la formica smette di essere tale. Non è più una formica! 
Nel momento stesso in cui appaiono i sintomi, questi sono la conseguenza dell'attivazione dei geni fungini che hanno preso possesso del sistema nervoso della formica e la guidano come un oggetto telecomandato. Della formica a questo punto esiste solo il corpo. Come se il sistema operativo della macchina vivente formica fosse stato cancellato e al suo posto fosse stato caricato quello di un programma hacker. Da qui la denominazione zombie usata per i computer sotto controllo di malware esterni. 
Secondo Harry Evans il responsabile diretto del controllo è una tossina prodotta dalle cellule fungine. Dall'analisi della formiche nelle diverse fasi del processo infettivo si è in effetti scoperto che al momento della comparsa del movimento scoordinato, le cellule fungine hanno di fatto colonizzato la testa dell'insetto. Una disseminazione per nulla casuale visto che il cervello in gran parte rimane libero, così come le ghiandole e i muscoli. Le cellule fungine si distribuiscono in modo altamente specifico, così da controllare e condizionare; una distribuzione molto diversa da quella che ci si aspetterebbe se fosse in atto una "semplice" invasione dei tessuti da parte di un parassita.
Tutto è finalizzato a rendere la fase di sporificazione la più efficiente possibile. 
La posizione, l'ora, la modalità con cui la formica si aggancia alla foglia e perfino l'orientamento (invariabilmente nord-nordovest) sono il risultato della attività fungina, un comportamento totalmente assente nelle formiche sane.
Un esempio chiarificatore. E' sempre il fungo che induce l'atrofia delle cellule muscolari della mandibola; di conseguenza quando la formica "morderà" come ultimo atto la vena della foglia nel cosiddetto "aggancio mortale" la mandibola si bloccherà definitivamente lasciando la formica li a morire (entro 6 ore), il fungo a germogliare (due-tre giorni dopo) e le spore a diffondersi da una posizione ideale.
Dal momento in cui inizia a germogliare alla maturazione completa passano alcune settimane. Una crescita relativamente lenta che può interrompersi e reiniziare in un secondo momento.

Di seguito un video prodotto dalla PennState sulle formiche "zombie".

Un secondo video prodotto dal famoso documentarista Richard Attenborough e dalla BBC.
Perchè un meccanismo così complesso per infettare le formiche? In fondo al fungo basterebbe che la formica infettata morisse all'interno del nido, facilitando la diffusione delle spore a tutte le sorelle. questo avverrebbe senza dubbio se non fosse che i le formiche hanno una attenzione maniacale per l'igiene del loro formicaio. I ricercatori hanno ipotizzato che quella del fungo sia stata una contromossa evolutiva per evitare di essere "smaltito" come sporcizia. Ogni formica malata o deceduta viene infatti prontamente uccisa o rimossa dal nido. Un comportamento che impedirebbe di fatto al fungo di germogliare e di infettare nuove formiche. Il fungo porta la formica laddove la maturazione potrà avvenire senza inconvenienti ma in un luogo prossimo al tragitto quotidiano delle sue consimili.

Una lotta quella tra funghi e formiche che risale quasi all'epoca dei dinosauri. La prova, come accennato prima, è in un dato pubblicato nel 2010 su Biology Letters, in cui si descrive una foglia fossile trovata in Germania vecchia di 48 milioni, che porta le cicatrici distintive di un morso di formica sulla sua vena principale. Un'epoca in cui il clima del territorio tedesco era tropicale.
I ricercatori hanno descritto la scoperta come "il primo esempio fossile di un comportamento manipolato". 


Sia Evans che gli altri ricercatori coinvolti continuano la loro caccia alla ricerca di organismi opportunisti sempre più bizzari.
Studiare le formiche-zombie ed i funghi responsabili non è un semplice esercizio scientifico (anche se questa definizione è incomprensibile per chi non si occupa di scienza). Ogni informazione ottenuta su questi ecosistemi complessi potrebbe infatti fornire nuovi strumenti naturali per lo sviluppo di trattamenti naturali contro i parassiti in agricoltura.

Un altro esempio di variazione comportamentale indotta da un parassita lo si ha con la malaria. Non solo il plasmodium altera la percezione olfattiva della zanzara rendendola più o meno "mordace" sugli esseri umani a seconda dello stadio di sviluppo del protista, ma si è evoluto "spingendo" la zanzara ad acquisire sempre più abitudini alimentari diurne rispetto al classico comportamento notturno. Le conseguenze sono state pesanti per le persone che vivono in un ambiente dove la malaria è endemica, a causa della perdita di efficacia delle reti protettive notturne poste intorno ai letti che avevano contribuito nel ridurre di molto le nuove infezioni. 
Se pensate che la manipolazione del comportamento causata da un parassita non riguardi noi vertebrati, l'esempio tipico sono i topi infettati dal Toxoplasma Gondii che fa li rende indifferenti alla presenza dei gatti ... con conseguenze facilmente immaginabili. Il vantaggio del parassita è che favorendo la predazione del loro ospite murino potranno infettare i gatti, condizione essenziale per completare il loro ciclo riproduttivo. Ma i gatti vivono a contatto con noi, e il toxoplasma non si fa problemi a 1) infettarci e 2) a alterare il nostro comportamento.
L'effetto dell'infezione da toxoplasma sul comportamento umano
Per articoli sul curioso fenomeno di simil-zombie in natura (senza nulla di soprannaturale) --> QUI

Fonti
Zombie Ants Have Fungus on the Brain, New Research Reveals
 PennState, news  

Fungus that controls zombie-ants has own fungal stalker
  Nature (2012) doi:10.1038

"Zombie Ant" Fungus Under Attack—By Another Fungus
  National Geographic News, May 4, 2012

Hidden Diversity Behind the Zombie-Ant Fungus Ophiocordyceps unilateralis: Four New Species Described from Carpenter Ants in Minas Gerais, Brazil
Evans HC et al, PLoS ONE 6(3), 2011

-  Disease Dynamics in a Specialized Parasite of Ant Societies.
 Andersen SB et al, PLoS ONE 7(5), 2012

Undead-End: Fungus That Controls Zombie-Ants Has Own Fungal Stalker
  Scientific American, October 29, 2012

I polpi sognano?

A compendio di quanto scritto nell'articolo aggiungo un libro letto durante queste vacanze natalizie dal titolo "Altre menti: Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza


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I polpi sognano?  La domanda non è peregrina data l’indubbia capacità cognitiva di questo animale in grado di risolvere problemi che i nostri amici pelosi da appartamento si sognano (gioco di parole adatto in questo contesto); tra questi svitare il coperchio da un barattolo per accedere alla ricompensa o la loro abilità mimetica che si adatta ad ambienti sempre nuovi. 

I risultati di uno studio pubblicato su iScience non hanno ancora disvelato il mistero ma forniscono importanti indizi a supporto dell’esistenza di una attività onirica con la conferma che il loro sonno consiste sia di fasi “tranquille” che attive. 

Poiché umani e polpi sono separati da oltre 500 milioni di anni di evoluzione, la scoperta indica che il modello bifasico del sonno è comparso in modo indipendente almeno 2 volte (nei rispettivi antenati).

Nello studio i ricercatori hanno filmato quattro polpi di una specie brasiliana (Octopus insularis) mentre dormivano nelle loro vasche in laboratorio. Per accertarsi che fossero realmente addormentati hanno mostrato loro video di granchi su uno schermo adiacente alla vasca (visione che da svegli evoca una risposta immediata) o colpendo delicatamente la parete della vasca con un martello di gomma.

Video credit: Science
Dall’analisi dei filmati sono stati rilevati due stati di sonno: 
  • Fase tranquilla. Pelle dei polpi pallida, pupille strette a fessura, per lo più immobili con le punte delle braccia che si muovono lentamente.
  • Fase attiva, in cui la pelle diventava più scura e si irrigidiva, gli occhi si muovono e le contrazioni muscolari si diramano sul corpo fino alle ventose.
Il sonno attivo, della durata media di 40 secondi, compare dopo un lungo sonno tranquillo, con cicli che si ripetono ogni 30-40 minuti.

I due stati sono simili alle fasi principali del sonno dei mammiferi: il sonno non-REM (onde lente in cui l'attività elettrica diffonde e sincronizza le varie aree del cervello.) e il sonno REM, la fase onirica. 

Il consensus attuale è che questo ciclo alternato, presente anche negli uccelli e forse nei rettili, sia importante per consolidare i ricordi e eliminare i rifiuti metabolici dal cervello e con questo una manutenzione fondamentale per il benessere cerebrale (la deprivazione da sonno porta a morte).

Purtroppo non possiamo chiedere loro se stanno davvero sognando. I ricercatori ipotizzano come strategia  alternativa quella di confrontare i cambiamenti di colore della pelle mentre il polpo è sveglio ed è intento in qualche attività di apprendimento con la successiva fase di sonno in modo da capire se i cambiamenti della pelle siano indicativi di cosa sta sognando.

Bene precisare che  polpi e mammiferi hanno un'architettura cerebrale molto diversa, quindi estrapolare i risultati potrebbe essere totalmente fuorviante. Quello che è certo è che i dati indicano che qualcosa avviene durante il loro sonno e che questo è caratterizzato da diverse fasi.

L'esperimento ideale sarebbe misurare la loro attività cerebrale mediante elettrodi (esattamente come viene fatto negli umani). Un approccio complicato nei polpi sia perché vivono in acqua che per la loro immediata rilevazione, mediata dai tentacoli, di qualunque cosa sia attaccata al loro corpo.

Fonte
- Cyclic alternation of quiet and active sleep states in the octopus




Batteri giganti che non dovrebbero esistere ovvero il caso Thiomargarita magnifica

Nel 1977 il regno di Monera crollò.
Era un regno giovane con i suoi 50 anni, popolato da esseri microbici, privi di nucleo e di altri organelli, altrimenti noti come procarioti.
Il responsabile della sua cancellazione fu Carl Woese ma non perché fosse cattivo. Fu solo l'inevitabile risultato della meticolosa analisi comparativa da lui fatta sul RNA ribosomale che dimostrava come all'interno di questo regno fossero raggruppati organismi tra loro molto diversi.
Fu così che il regno Monera scomparve e i suoi abitanti vennero raggruppati in due regni che noi oggi conosciamo come Eubacteria (veri batteri) e Archaeabacteria (batteri arcaici) che si andarono ad aggiungere ai 5 regni Animalia, Plantae, Fungi e Protista.
Una classificazione semplificata dalla stesso Woese dopo una decina di anni in tre regni, ma che in questo inizio secolo ha poi visto altre riorganizzazioni soprattutto nell'ambito degli eucarioti.
La versione semplificata di tutto è che l'albero della vita si distingue in cellule con nucleo (eucarioti) e cellule senza nucleo (procarioti) divisi in due regni tra loro tanto diversi quanto lo sono da una cellula nucleata.
LUCA sta per Last Universal Common Ancestor.

All'interno di questo mondo affascinante (vi rimando a precedenti articoli sulla simbiosi che ha originato gli eucarioti moderni), non trovano spazio i virus per la semplice ragione che oggettivamente non possono essere considerati organismi mancando di tutti i tratti necessari (ad esempio il metabolismo) oggi usati per definire "vita". 
Vedi in proposito il precedente articolo su questo blog "Virus come quasi-organismi" e un articolo su Frontiers del 2021.
Questo non vuol dire che queste "stringhe di informazione" vaganti non si siano "evolute": dal momento della loro comparsa (per alcuni rappresentano una fase pre-biotica, per altri sono la degenerazione massima di antichi organismi) l'evoluzione ha agito anche su di essi, selezionando quelli che stavano "al passo" con l'evoluzione cellulare. 
Per l'albero evolutivo dei virus vi rimando alla figura a questa pagina.
Tra i tanti virus esistenti (ne conosciamo solo una infima minoranza, vedi i 5 mila nuovi virus appena scoperti nelle acque oceaniche) alcuni sfidano il senso comune come i virus giganti, più grandi di una nostra cellula. Il virus più grande finora trovato è il Pithovirus sibericum con i suoi 1,5 micron (il coronavirus è grande 0,12 micron).
I virus giganti vanno bene per cellule giganti quali possono essere alcune amebe (Amoeba proteus può arrivare a 750 micron). Nelle profondità abissali si è trovato un vero gigante unicellulare, lo xenophyophorea che può arrivare a 10 cm (pensate che un eritrocita non supera gli 8 micron). 
Il tema "dimensioni" non è solo materia da Guiness dei primati ma nasce da vincoli biologici, in primis la "sostenibilità" della cellula. Un organismo unicellulare deve infatti avere dimensioni che tengano conto di una superficie che diventa in fretta limitante all'aumentare delle dimensioni cellulari. Inoltre mentre negli eucarioti la cellula dispone di sistemi di trasporto interni molto raffinati, sotto forma di citoscheletro e di compartimenti (organelli) in cui fare avvenire reazioni specifiche, questi sono assenti nei procarioti in cui il sistema di "delivery" del cibo e dei mattoni costruttivi avviene principalmente per diffusione passiva. È proprio la velocità di diffusione a porre un limite alla dimensione batterica, che si assesta nell'intervallo 0,2-2 micron.
In sostanza se una cellula non può affidarsi alla sola diffusione passiva per trasferire i nutrienti dall'esterno alle zone dove servono, deve compiere un lavoro, e compiere un lavoro implica un cospicuo consumo di energia che i batteri non si possono permettere (gli eucarioti possono, avendo una centralina energetica sotto forma di mitocondri e plastidi).
A rimettere in discussione il dogma dimensionale nei batteri arriva la scoperta dei Magnificent Sulphur Margarita.
Tecnicamente il nome dovrebbe essere Thiomargarita magnifica (thio è il suffisso per zolfo) ma i ricercatori vollero mettere in risalto il nome Margarita.
Fino a un paio di anni fa questo organismo non solo era senza nome e noto a pochi biologi ma nemmeno era consideravato un batterio.
Tutto iniziò quando il biologo marino Olivier Gros notò fili bianchi, lunghi anche un centimetro, che aderivano alle foglie sommerse delle mangrovie.
Credit: Jean-Marie Volland et al
All'inizio ipotizzò che fossero funghi senza però riuscire a identificarne la specie (nulla di strano, meno del 10% dei funghi è stato caratterizzato). Pensò allora di prenderne un campione e di farlo analizzare in laboratorio dove però i suoi collaboratori osservarono che c'era qualcosa di molto strano. In sintesi non solo questo era in realtà un batterio ma era 50 volte più grande del batterio più grande noto (tanto grande da potere essere visto agevolmente al microscopio ottico il cui limite di risoluzione è 0,2 micron.
Credit: Jean-Marie Volland et al

Come prima scritto questa dimensione è sempre stata considerata impossibile nel mondo dei batteri a causa del limite intrinseco posto dalla diffusione passiva.

A questo batterio gram negativo chemolitotrofo non deve essere importato molto delle disquisizioni teoriche sulle dimensioni ed ha evoluto un modo per aggirare il limite: la parte interna della cellula è riempita per gran parte del suo volume da una sacca piena di liquido, che costringe tutto il contenuto intracellulare a ridosso della membrana (e parete) cellulare. Il vantaggio è immediato in quanto i nutrienti, per quanto grande sia la cellula, non devono diffondere molto tra il punto d'ingresso e quello di utilizzo essendo tutto lo "spazio vitale e operativo" ammassato all'esterno.
La sacca di liquido che riempie la quasi totalità del batterio. "V" indica il vacuolo, "S" granuli di zolfo (questo batterio ricava l'energia ossidando l'acido solfidrico a zolfo, che poi deposita come granuli nel suo periplasma). Essendo questi granuli altamente rifrangenti e opalescenti, la luce incidente da l'idea di una perla, da cui il nome (margarita in latino).  
Image credit: Jean-Marie Volland et al.

Come se non bastasse questi giganti hanno infranto un'altra regola, anzi un dogma, cioè il non possedere un nucleo (luogo in cui il genoma è racchiuso). Non si tratta in verità di un vero e proprio nucleo con tutte le sue caratteristiche strutturali ma di un compartimento semplificato.

In qualche modo, questi batteri hanno preso una svolta evolutiva inedita che finora non era stata considerata possibile.

Questo studio ci ricorda che la nostra comprensione dell'evoluzione della complessità biologica è incompleta e che molto lavoro attende le nuove generazioni di ricercatori.


Fonte
- A centimeter-long bacterium with DNA compartmentalized in membrane-bound organelles
 Jean-Marie Volland et al, BioRxiv (Feb. 2022)





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