Perché alcune persone sono più inclini di altre, al netto di patologie neurologiche, ad avere allucinazioni?
Secondo una nuova ricerca condotta dalle università di Cambridge e di Cardiff, le allucinazioni sarebbero il risultato del tentativo del nostro cervello di dare un senso al mondo ambiguo e complesso che ci circonda.
Date un'occhiata all'immagine in bianco e nero qui sotto e cercate di "comprenderla".
Credit: Cambridge University |
E' molto probabile che l'immagine vi sia apparsa come un abbozzo senza senso di macchie bianche e nere. Confrontatela ora con l'immagine originale e tornate poi ad osservare l'immagine in bianco e nero.
Nota. Cliccate sulla miniatura a lato o direttamente sul link --> http://www.cam.ac.uk/sites/www.cam.ac.uk/files/inner-images/press_colour_smal.jpg)Miracolosamente l'immagine confusa di prima vi apparirà ora sensata con tutti i tasselli divenuti elementi cardine di una fotografia classica.
La capacità di dare un senso ad un input visivo "non immediatamente comprensibile" è, secondo i neuroscienziati inglesi, la chiave per capire perché alcune persone sono più inclini di altre alle allucinazioni.
Una delle esperienze più terribili associata ad alcune malattie mentali è la psicosi, di fatto una perdita di contatto con la realtà esterna. Terribile in quanto si traduce in una difficoltà di dare un senso al mondo, che di conseguenza apparirà minaccioso, invadente e confuso (non è un caso che nelle fasi iniziali del morbo di Alzheimer i soggetti spesso abbiano reazioni violente dettate dalla paura di un ambiente che improvvisamente appare ignoto). La psicosi è a volte accompagnata da sostanziali cambiamenti nella percezione sensoriale, come cioè le persone vedono, sentono, colgono immagini, suoni, odori e sapori di entità che, il più delle volte, non sono effettivamente presenti. In altre parole, allucinazioni.
In alcune persone alle allucinazioni sensoriali si sovrappongono convincimenti profondi, che paiono "ovvi" a chi li vive ma del tutto irrazionali e impossibili da comprendere per tutti gli altri. L'insieme dei due fenomeni spiega perché in un passato appena dietro l'angolo, le persone che soffrivano di allucinazioni venissero relegate ai margini della società, rinchiusi in strutture apposite o, in alcune culture, usati come oracoli viventi capaci di accedere ad una realtà invisibile a tutti gli altri.
Nella ricerca inglese pubblicata poche settimane fa su PNAS, la rivista della American National Academy of Sciences, si è testata l'ipotesi che le allucinazioni fossero il risultato di una eccessiva tendenza del cervello ad interpretare il mondo che ci circonda facendo uso delle conoscenze precedenti.
Per dare un senso e interagire con l'ambiente fisico e sociale in cui siamo immersi, abbiamo bisogno di informazioni adeguate, come ad esempio, la dimensione o la posizione di un oggetto vicino. Se non abbiamo accesso diretto a tali informazioni siamo costretti a interpretare le informazioni disponibili con il rischio di ricavarne estrapolazioni ambigue o incomplete. Questa continua elaborazione viene facilitata combinando gli input sensoriali con le nostre aspettative di un dato ambiente (basate sul ricordo o sulla associazione con situazioni simili). Ad esempio, quando entriamo nel nostro salotto potremmo scorgere con la coda dell'occhio (o perché in penombra) la presenza di una forma nera in rapido movimento che verrà in automatico etichettata come "il nostro gatto che si muove", anche se l'input visivo era poco più di una sfocatura subito scomparsa dietro il divano. L'input sensoriale è stato qui minimo e l'esperienza "gatto" è il frutto quasi totale di una elaborazione per dare un senso a quanto scorto. Difficile che si verifichi se non abbiamo un gatto in casa mentre è molto probabile che si verifichi se lo abbiamo (o lo abbiamo avuto) anche se non è lui l'origine di tale percezione (ad esempio si trova in un altra stanza e la "visione" è solo il risultato di un gioco di luci e ombre.
In un certo senso è il cervello che crea ciò che noi "vediamo"; visione beninteso non in senso fisico ma esperienziale. L'attività elaborativa cerebrale riempie gli spazi vuoti, ignorando gli elementi discordanti e presentandoci così una immagine modificata del mondo, fatta per adattarsi alle nostre attese. Non si tratta di un difetto ma del modo più efficiente per creare un quadro coerente di un mondo altrimenti ambiguo data l'enormità di stimoli sensoriali che riceviamo in ogni istante. Sebbene questo rappresenti un vantaggio fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza (sapere cogliere solo gli stimoli "utili" e non perdersi in una elaborazione che rallenterebbe troppo il tempo di risposta è la differenza stessa tra vivere o soccombere ad un predatore) il rovescio della medaglia è che questo nostro filtraggio ed adattamento ci pone in una condizione non troppo distante da quella tipica delle allucinazioni, cioè quella di percepire come reale il frutto di estrapolazioni inconsce.
E' importante a tale proposito ricordare come la percezione sensoriale "alterata" non è presente solo nelle persone con disturbi neurologici. Si tratta in verità di un fenomeno relativamente comune, sebbene in forma lieve; molti di noi hanno avuto una volta o l'altra l'impressione di avere sentito un campanello o di avere riconosciuto nella folla una persona che si crede di conoscere, etc etc. Quello che cambia, e che delimita i confini della psicosi, è la frequenza e la pervasività di tali "false" esperienze.
Nell'articolo i ricercatori hanno esaminato 18 individui affetti da psicosi insieme ad un controllo di 16 volontari sani. A tutti loro furono mostrate immagini ambigue simili a quella mostrata prima, valutando la loro capacità di "capirle"; ad esempio alcune di queste immagini contenevano una persona e lo scopo del test era accorgersi di tale presenza. Come avete potuto osservare voi stessi, la capacità di decifrarne il contenuto non è semplice almeno finché il cervello non capisce cosa cercare.
I risultati del test nelle prime fasi diedero risultati sostanzialmente identici nei due gruppi. Nella seconda fase furono aggiunte anche immagini a colori, tra cui anche la versione "in chiaro" di alcune delle immagini prima viste in bianco e nero.
Scopo del test era dimostrare che se le allucinazioni originavano da una maggiore tendenza a sovrapporre la previsione di quello che si vede a quanto si percepisce, allora le persone predisposte alle allucinazioni sarebbero state più brave ad utilizzare le informazioni delle immagini a colori per estrapolare il contenuto criptico delle immagini in bianco e nero.
I risultati del test nelle prime fasi diedero risultati sostanzialmente identici nei due gruppi. Nella seconda fase furono aggiunte anche immagini a colori, tra cui anche la versione "in chiaro" di alcune delle immagini prima viste in bianco e nero.
Scopo del test era dimostrare che se le allucinazioni originavano da una maggiore tendenza a sovrapporre la previsione di quello che si vede a quanto si percepisce, allora le persone predisposte alle allucinazioni sarebbero state più brave ad utilizzare le informazioni delle immagini a colori per estrapolare il contenuto criptico delle immagini in bianco e nero.
Un libro consigliato, tra gli ultimi del compianto Oliver Sacks (--> Amazon) |
Non è un caso che l'arte, intesa come rappresentazione del mondo, dia risultati straordinari (appunto perché fuori dall'ordinario) in artisti neurologicamente borderline o, nemmeno troppo raramente, chiaramente psicotici.
Sulla correlazione tra intelligenza e "artisticità" e malattie mentali vedi i precedenti articoli (--> "Intelligenza" e "Arte"). Altri articoli che potrebbero interessarvi --> "Déjà-vu" e "Esperienze al rallentatore", "La chimica dei rave-party e gli antidepressivi"
Fonte
- Shift towards prior knowledge confers a perceptual advantage in early psychosis and psychosis-prone healthy individuals.
Teufel, C et al. PNAS; 12 Oct 2015
- How hallucinations emerge from trying to make sense of an ambiguous world.
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