Un ipnotizzatore può farti addormentare ma un fascio di luce laser ben diretto riesce a mandare nel mondo dei sogni i topi.
Tra le tecniche utilizzate da illusionisti e prestigiatori l'ipnosi è quella che in passato ha riscosso maggior successo in quanto non basata su un trucco scenico.
Al netto della non partecipazione di complici a queste scenette da palcoscenico, il trucco non è ... un trucco, ma un metodo usato dagli psicologi per fare emergere ricordi traumatici dalle profondità del subconscio di un individuo "preparato" all'uopo attraverso l'induzione di uno stato di trance.
Nota. A differenza di quanto si crede, le persone sotto ipnosi non sono "spente" ma, al contrario, "iper-concentrate" su una data immagine, auto-creata o suggerita dall'ipnotizzatore, senza esserne cognitivamente consapevoli. Tra le aree cerebrali particolarmente attive durante lo stato ipnotico vi è il precuneo, sito nel lobo parietale superiore e coinvolto nei processi di elaborazione visual-spaziale. Per approfondimenti suggerisco due articoli, uno in italiano (--> su Focus) e uno in inglese (--> What Hypnosis Really Does to Your Brain).
Il miraggio della disponibilità di un interruttore "magico" in grado di attivare o spegnere un dato circuito neuronale legato a ricordi, emozioni o comportamenti ha guidato per anni il lavoro di molti neuroscienziati spinti dalla consapevolezza sperimentale che il modo migliore per valutare la funzione di una data area cerebrale fosse quello di testarne il rapporto causa-effetto, qualunque fosse l'effetto: dal semplice muovere un dito all'induzione di una emozione.
Fino a non molto tempo fa l'unica modalità per esplorare nel dettaglio "chi facesse cosa" nel cervello dipendeva da due approcci, uno clinico (basato sulla correlazione tra lesioni cerebrali e funzionalità alterate) e l'altro sperimentale (basato sull'attivazione/repressione di particolari aree). L'inserimento di microelettrodi nella calotta cranica è un tipico esempio di approccio sperimentale multi-funzionale, utile sia per identificare l'attivazione di una data area (in modalità "sensore") che per indurre una risposta nel soggetto (in modalità "stimolatore"); l'importanza del metodo è tale da essere ampiamente usato dai neurochirurghi sul paziente in sedazione vigile per monitorare la localizzazione di aree funzionali ed evitare così di lesionarle durante l'intervento.
Con gli anni le tecniche si sono affinate (complementandosi più che soppiantandosi) fino a rendere possibile modificare temporaneamente la funzionalità di una area specifica dall'esterno del cranio, come avviene con la stimolazione magnetica transcranica. Un metodo utile, in quanto totalmente non invasivo, ma grossolano quando lo scopo è caratterizzare nel dettaglio la funzionalità di poche decine di neuroni.
Fino a non molto tempo fa l'unica modalità per esplorare nel dettaglio "chi facesse cosa" nel cervello dipendeva da due approcci, uno clinico (basato sulla correlazione tra lesioni cerebrali e funzionalità alterate) e l'altro sperimentale (basato sull'attivazione/repressione di particolari aree). L'inserimento di microelettrodi nella calotta cranica è un tipico esempio di approccio sperimentale multi-funzionale, utile sia per identificare l'attivazione di una data area (in modalità "sensore") che per indurre una risposta nel soggetto (in modalità "stimolatore"); l'importanza del metodo è tale da essere ampiamente usato dai neurochirurghi sul paziente in sedazione vigile per monitorare la localizzazione di aree funzionali ed evitare così di lesionarle durante l'intervento.
Con gli anni le tecniche si sono affinate (complementandosi più che soppiantandosi) fino a rendere possibile modificare temporaneamente la funzionalità di una area specifica dall'esterno del cranio, come avviene con la stimolazione magnetica transcranica. Un metodo utile, in quanto totalmente non invasivo, ma grossolano quando lo scopo è caratterizzare nel dettaglio la funzionalità di poche decine di neuroni.
optogenetica |
Ed è qui che entra in gioco una tecnica estremamente potente chiamata optogenetica grazie alla quale è possibile, mediante un fascio di luce coerente portato da microfibre ottiche, modificare l'attività elettrica di neuroni in cui è stato introdotto il gene per un recettore esogeno sensibile alla luce (che funziona sulla falsariga di un fotorecettore retinico); il nome della tecnica riassume il suo modus operandi essendo il risultato di Optical-control e Genetica. Il gene per il fotorecettore può essere inserito in due modi: 1) creando animali transgenici, caratterizzati dal fatto che tutte le cellule possiedono il gene "alieno" ma solo un ristretto numero lo esprime; 2) sfruttando il più moderno e meno costoso trasferimento mediato da virus, che funziona qui come una nave cargo per trasferire (senza mai replicarsi) il gene solo in cellule specifiche (Per informazioni più dettagliate rimando ai siti --> Neuroscience Fundamentals e --> optogenetics.weebly.com).
Pur di fondamentale importanza e incredibile potenza conoscitiva tale metodo ha il grosso limite di essere utilizzabile esclusivamente sui topi, dato che è imprescindibile dall'utilizzo di alterazioni genetiche create ad hoc. L'animale deve infatti possedere neuroni che producono il fotorecettore; una modifica che in condizioni normali non ha alcun effetto sull'animale per il semplice motivo che dentro la calotta cranica non vi è luce e quindi il fotorecettore è costantemente inattivo. Una volta però introdotto un micro-cavo in fibra ottica in grado di illuminare una piccolissima area del cervello, si potrà studiare in modo estremamente dettagliato l'effetto che l'attivazione (o inibizione a seconda del tipo di fotorecettore usato) di uno o pochi neuroni specifici ha su una data funzionalità.
Nota. La variazione di attività del neurone successiva alla illuminazione si basa sulla variazione del potenziale di membrana della cellula conseguente all'attivazione/repressione del fotorecettore. Il gene introdotto codifica in genere per una proteina con funzioni di canale ione-specifico, in grado di aprirsi/chiudersi una volta illuminato. L'apertura del canale permette il rapido transito di un certo numero di ioni sufficiente a depolarizzare (attivare) o iperpolarizzare (inibire) il neurone, inducendo così l'effetto sulla rete neurale a valle.
La procedura in sé è allo stato attuale delle tecnologie di "facile" implementazione con un enorme ritorno da un punto di vista informativo sulla conoscenza del funzionamento del cervello.
Per comprenderne la portata pensate alla quantità (e qualità) delle informazioni ottenibili avendo la possibilità di attivare uno o pochi neuroni tra i miliardi presenti associando poi l'effetto indotto da tale attivazione con anomalie neurologiche umane associate a malattia ad eziologia sconosciuta.
Per comprenderne la portata pensate alla quantità (e qualità) delle informazioni ottenibili avendo la possibilità di attivare uno o pochi neuroni tra i miliardi presenti associando poi l'effetto indotto da tale attivazione con anomalie neurologiche umane associate a malattia ad eziologia sconosciuta.
Raggio laser e sonno REM
Se associamo la potenza di questa tecnica allo studio del sonno, un argomento da sempre centro gravitazionale dell'interesse di molti neuroscienziati, arriviamo al tema dell'articolo odierno.
Nella nostra società il numero di persone che soffre di disturbi del sonno è tale che le ricadute socioeconomiche sono rilevanti e non un argomento di mero dibattito accademico. Un problema aggravato dalla sostanziale sottostima del problema sia per le abitudini di vita odierne che per la conoscenza superficiale dei meccanismi neurologici.
I ricercatori sono riusciti a mettere a nanna un topo semplicemente usando un fascio di luce laser. O meglio non lo hanno fatto semplicemente addormentare ma hanno indotto la fase del sonno nota come REM.
Nota. REM, acronimo inglese per "rapidi movimenti oculari", è una fase intermittente del sonno la cui durata aumenta mano a mano che ci si avvicina al momento del risveglio. Circa l'80 % del nostro dormire avviene nella fase nota come non-REM caratterizzata da disconnessione sensoriale e bassa attività corticale. I neuroni in questa fase hanno attività intermittente (on/off) che si traduce in ampie onde lente facilmente registrabili con elettrodi posizionati sulla cute del cranio. E' noto che questa attività on/off interferisce con la trasmissione di informazioni tra diverse aree del cervello; da qui la sostanziale disconnessione con l'esterno e il non sognare.
Durante la fase REM, il cervello è invece "quasi sveglio", come evidenziato dall'attivazione della corteccia, sebbene anche qui sconnesso dal mondo circostante mediante una messa in sicurezza grazie alla paralisi totale dei muscoli scheletrici (per evitare di muoversi durante il sogno). In un precedente articolo si era già parlato di come la perdita di tale "messa in sicurezza" sia uno dei tratti predittivi di anomalie neurologiche in fieri (clicca --> "Disturbi del sono come predittori di malattie neurologiche"). Nella fase REM l'attività on/off dei neuroni è concentrata in alcune aree corticali chiave (sensoriali e motorie) e questo spiega perché si sogni pur rimanendo sconnessi e "paralizzati".
L'esperimento
Il punto di partenza è stato creare topi modificati che esprimessero l'interruttore optogenetico nei neuroni GABAergici situati nel midollo allungato, la parte più antica del cervello. Una volta "creato" il sensore è stato sufficiente illuminarlo con una fibra ottica ultra-sottile per indurne (a seconda dell'esperimento e del sensore montato) l'attivazione o la repressione del segnale.
Il punto di partenza è stato creare topi modificati che esprimessero l'interruttore optogenetico nei neuroni GABAergici situati nel midollo allungato, la parte più antica del cervello. Una volta "creato" il sensore è stato sufficiente illuminarlo con una fibra ottica ultra-sottile per indurne (a seconda dell'esperimento e del sensore montato) l'attivazione o la repressione del segnale.
L'attivazione mediata dalla luce induce il sonno REM Credit: Franz Weberd |
Dopo l'attivazione sono bastati pochi secondi per far piombare un topo già addormentato direttamente nella fase REM. La conferma inequivocabile di avere identificato esattamente i neuroni "interruttore" la si è avuta eliminandoli: il sonno REM non compariva più nemmeno durante il sonno naturale.
Particolarmente interessante il fatto che non era solo la capacità di sognare ad essere persa durante il sonno ma anche la paralisi muscolare e l'attività corticale. Per il resto il topo era normale.
Curiosamente se questo interruttore veniva attivato durante la fase di veglia, ad essere stimolato era il senso di fame nel topo; una possibile spiegazione è che tali neuroni siano importanti in attività "piacevoli" come la toelettatura e il mangiare e che essi agiscano in opposizione ad altre cellule di tipo noradrenergiche.
Questi neuroni rappresentano una piccola rete nei circa 70 milioni di neuroni che compongono il cervello di un topo (Suzana Herculano-Houzel et al, PNAS, 2006) e i circa 20 miliardi nell'Homo sapiens (Steven M. Platek et al, 2009), ma sufficienti per prendere la decisione di indirizzare la regolare la comparsa del sonno REM.
E' certo che le informazioni ricavabili da questi studi permetteranno di capire più in dettaglio le problematiche legate al sonno negli esseri umani, identificando dove possibile le cellule su cui agire in modo selettivo con nuove terapie mirate.
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Fonte
- Control of REM sleep by ventral medulla GABAergic neurons.
Franz Weber et al, Nature (2015) 526, pp. 435–438
- Researchers find neural switch that turns dreams on and off
UC Berkeley/news
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