Da buon laico, fedele al ragionar di scienza, la notizia non mi stupisce più di tanto anche se andrei molto cauto prima di generalizzare.
Se infatti da una parte è credibile che a parità di condizioni di partenza (status sociale, cultura di appartenza, istruzione, età e sesso - senza questa normalizzazione le variabili diventano dominanti), la sensibilità religiosa possa essere maggiore in persone "psicologicamente" adatte, dall'altra le variabili in gioco sono tali e tante da rendere tali studi un campo minato.
La riduzione dei "fattori confondenti" è un passaggio chiave ben noto a chiunque bazzichi i campi della statistica e della epidemiologia. E' sufficiente un assunto "sbagliato" (nel contesto della ricerca) per falsare i risultati anche se condotti nel pieno del rigore statistico. Un problema tanto più accentuato quanto più il campo d'indagine si accosta alla psicologia. Ad esempio testare l'accettazione del concetto di evoluzionismo usando come campione la popolazione Amish, non potrà che dare risultati negativi perché la risposta è determinata dal campione usato.
Se poi, come fatto in questo studio, si cerca di identificare una qualche "concausa biologica" come fattore predisponente la religiosità all'interno della popolazione anziana, predisposta per una serie di motivi intrinseci a tale atteggiamento, i risultati ottenuti dovranno essere pesati con estrema cautela.
Fatta questa doverosa precisazione, passiamo allo studio pubblicato dai ricercatori della prestigiosa McGill University (con eccellente reputazione nel campo delle neuroscienze) sulla rivista Adaptive Human Behaviour & Physiology.
I ricercatori hanno usato come materiale di partenza il database del progetto Health and Ageing (NSHAP) gestito dal National Institutes of Health (NIH) americano. I dati sono quelli di migliaia di soggetti che al momento dell'arruolamento nello studio avevano una età compresa tra 57 e 85 anni; le informazioni raccolte sono sia di tipo comportamentale, attraverso questionari anonimizzati, che biomedici, con la raccolta e analisi di campioni di saliva e sangue.
Si tratta quindi di un classico studio retrospettivo con il quale il ricercatore indaga e mette alla prova statistica eventuali legami di causa-effetto.
Alla domanda se vi fosse una qualche relazione tra stato biologico e religiosità, la risposta è stata particolarmente interessante. Al netto dell'educazione ricevuta e dalla psicologia dell'individuo (a sua volta risultato della somma di esperienza e biologia) c'è anche la partecipazione dello stato ormonale, quindi del metabolismo. Nello specifico, sembra che gli uomini anziani il cui livello di ormoni sessuali (testosterone e di deidroepiandrosterone - DHEA) è nella parte alta della curva, sono quelli con una minore tendenza ad indulgere in pratiche religiose (sia praticate che interiorizzate).
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La fuga nella religione spiegata da un calo ormonale?
Forse, e nel caso non sarebbe nulla di inspiegabile. Il calo ormonale che si accompagna all'entrata nella terza (o quarta) età è spesso foriero di cambiamenti neurologici che possono degenerare in depressione o problemi cognitivi che sommati ad altri eventi contingenti (frequenti nelle persone anziane) come la morte di amici o familiari troverebbe terreno fertile in atteggiamenti più intimistici e consolatori. Se la fuga nella religione non è per sé stessa un problema, la validità del dato dovrà essere verificata su individui molto più giovani
Fonti
- Older men with higher levels of sex hormones could be less religious
McGill University / news
- Are Men’s Religious Ties Hormonally Regulated?
Aniruddha Das, (2018) Adaptive Human Behavior and Physiology
- Sex Differences in Anxiety and Depression: Role of Testosterone
J. McHenry et al, (2014) Front Neuroendocrinol. 35(1): 42–57
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