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La molecola che spegne i pensieri non voluti

Mantenere il controllo del proprio pensiero è fondamentale per il benessere mentale.
Quando questa capacità viene meno ecco comparire problemi come ricordi intrusivi, allucinazioni, elucubrazioni e preoccupazioni persistenti. 
Episodi apparentemente insignificanti agiscono come una miccia facendo emergere ricordi spiacevoli che non si riesce a mettere da parte; come dei tarli invisibili continueranno a scavarsi una nicchia sempre più preminente fino a condizionare il nostro quotidiano. Le cause possono essere molte e vanno dalle allucinazioni sensoriali (di natura neuropatologica) capaci di innescare falsi ricordi, ai traumi esperienziali che pur in assenza di anomalie neurologiche pregresse modificano i circuiti neuronali predisponendo il soggetto a episodi di panico e/o aggressività anche in assenza di inneschi ovvi.

Non sempre si tratta di eventi spiacevoli come ben insegna la fase dell'innamoramento dove l'azione combinata di ossitocina e vasopressina gioca un ruolo  chiave nel pensiero chiaramente ossessivo che caratterizza le prime fasi di una relazione. Se avete figlie/i adolescenti capirete bene quanto pervasivo sia questo pensiero anche se scevro di tratti manifestamente patologici. Il precedente esempio ha solo valenza generale; i circuiti coinvolti nella fase "ossessiva" dell'innamoramento e quelli esperienziali traumatici, sono infatti diversi. I primi sono "naturali" in quanto siamo programmati per focalizzarci sul potenziale partner riproduttivo; non a caso si tratta di circuiti molto "antichi", siti nelle parti più profonde del cervello. I disturbi comportamentali da stress sono invece qualcosa di più recente e molte delle anomalie che li riguardano si trovano nelle aree "moderne" del cervello come quelle corticali. Per questa ragione non troverete alcun coccodrillo (o rettile in generale) traumatizzato da esperienze spiacevoli; l'assenza della regione corticale rende impossibile ogni capacità di pensiero se non quello dettato dall'istinto (codificato in quella parte antica del cervello che non a caso è detta "cervello rettiliano").
Il ripresentarsi di un pensiero "non voluto", caratterizzato  da un cronico "ruminare" su episodi del passato, è spesso sintomatico di patologie come la sindrome da stress post-traumatico (PTSD), schizofrenia, depressione o ansia.

Il costo sociale e umano è alto come ben insegnano i comportamenti violenti e imprevedibili dei soldati reduci da teatri di guerra o delle vittime di abusi. Ad oggi non esiste un metodo di trattamento univocamente efficace (sia esso chimico o basato su terapie comportamentali) per minimizzare le recidive. 

Non saremmo in grado di sopravvivere senza la capacità di controllare le nostre azioni. Siamo dotati di riflessi veloci, spesso fondamentali, ma che dobbiamo filtrare per evitare reazioni inconsulte. Gli eventi negativi fanno parte della vita di ognuno di noi ma siamo dotati di "anticorpi comportamentali" che ci proteggono dal pensiero ossessivo. Ci deve essere quindi un meccanismo simile che blocchi l'insorgere di pensieri indesiderati. L'evento o ricordo spiacevole viene accantonato (in modo conscio o inconscio) pensando ad altro.
Eppure questa capacità di salvaguardia non sempre funziona. Limitandoci ai casi di esperienze più gravi solo un certo numero delle persone che le hanno vissute sviluppano i sintomi tipici della PTSD. Capire perché e cosa non abbia funzionato nella capacità compensativa innata del cervello è un argomento che travalica il puro interesse neurologico, dato il costo sociale e umano che tali problemi innestano.

Da questa premessa l'importanza della notizia riguardo l'identificazione della molecola che è alla base della soppressione dei  pensieri indesiderati. Lo studio è contenuto in un articolo pubblicato su Nature Communications da ricercatori di Cambridge.
Corteccia prefrontale
 (credit: DBCLS)
Punto di partenza è che per capire dove sia la differenza tra un circuito neuronale capace di gestire il ricordo e quello "cortocircuitato" è necessario capire la chimica del cervello.
Una delle regioni distintive del nostro cervello "evoluto" è la corteccia prefrontale in cui risiedono i centri di controllo delle azioni, implicati anche nel "filtraggio" dei pensieri. La corteccia prefrontale agisce come una sorta di regolatore di alto livello in grado di controllare l'attività di altre aree come la corteccia motoria (le azioni) e l'ippocampo (i ricordi).

L'analisi è stata condotta su volontari esaminati con il classico test "associa/non associare" usato per misurare la reattività del pensiero associativo; nel nostro caso i ricercatori se ne sono serviti come "faro" per mappare nel cervello la capacità di inibire un dato pensiero. In breve, i partecipanti al test imparano per prima cosa ad associare tra loro parole di senso compiuto ma prive di nesso logico come ad esempio "disavventura" e "scarafaggio" ("ordeal" e "roach" nel test originale). Verificata l'avvenuta memorizzazione si passa alla seconda fase in cui viene mostrata la parola innesco (ad esempio "disavventura") in due colori diversi; se la parola è in verde il volontario dovrà richiamare la parola associata ("scarafaggio") mentre se in rosso dovrà cercare di sopprimere il ricordo dell'associazione (vale a dire pensare ad altro). In due parole, la parola l'innesco in verde richiama il ricordo, quella in rosso lo inibisce.
Durante l'esecuzione del test, il cervello dei volontari viene scansionato mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) e spettroscopia a risonanza magnetica. Si tratta di tecniche molto informative, ancorché non invasive e innocue, con il quale i ricercatori possono osservare in tempo reale cosa accade nel cervello quando uno stimolo richiama in automatico un ricordo e cosa avviene quando tale ricordo viene forzatamente accantonato.

A fare la differenza rispetto a studi simili condotti in passato è l'utilizzo della spettroscopia grazie alla quale è stato possibile, in aggiunta alla "semplice" mappa dell'attività cerebrale fornita dalla fMRI, indagarne la chimica.
Riassumendo i risultati in una frase, lo studio ha permesso di identificare nel neurotrasmettitore GABA la molecola chiave della inibizione dei pensieri indesiderati e in aree come corteccia frontale e l'ippocampo le regioni chiave.
L'acido γ-amminobutirrico (GABA) è il principale neurotrasmettitore inibitorio in noi mammiferi e come tale ha un ruolo centrale nella regolazione delle reti neuronali. Si stima che quasi il 40% delle sinapsi nel cervello umano abbiano recettori per il GABA, sebbene appartenenti a diverse famiglie. La sua azione inibitoria si attua favorendo l'ingresso di ioni cloruro nel neurone bersaglio, evento che inibisce la comparsa di un potenziale d'azione; in altre parole tiene il neurone spento. Questo è il motivo per cui molti ansiolitici (ad esempio le benzodiazepine) sono progettati per rinforzare il segnale GABA riducendo così l'attività dei circuiti "ansiogeni".
Non deve trarre in inganno la apparente ovvietà tra la nota azione inibitoria del GABA (e all'opposto quella del glutammato come principale neurotrasmettitore eccitatorio) e il suo coinvolgimento nell'inibizione dei pensieri assillanti. I circuiti neuronali sono infatti complessi; ad esempio un segnale inibitorio che agisce su un neurone inibitorio avrebbe di fatto un effetto disinibente.
Lo studio ora pubblicato dimostra un nesso tra i circuiti candidati al "controllo" del pensiero e la presenza di GABA. Tra i dati emersi vi è che la concentrazione di GABA nell'ippocampo - un'area chiave del cervello "profondo" coinvolta nella memoria e "cablata" con la corteccia e l'amigdala- è predittiva della capacità della persona testata di bloccare "a comando" il processo di recupero della parola associata e quindi della sua capacità di prevenire il ritorno di pensieri e ricordi non voluti. Un dato confermato nei pazienti affetti da PTSD che presentano livelli di GABA locali inversamente correlati alla gravità della patologia (pur avendo subito traumi paragonabili).

Da sottolineare che lo studio ha permesso di ampliare il focus delle precedenti ricerche, prima centrato sulla corteccia prefrontale (il centro di comando), includendo l'ippocampo, ampliando così la finestra interventista nella progettazione dei trattamenti farmacologici e nel monitoraggio del loro effetto.

Le ricadute terapeutiche potrebbero espandersi oltre la PTSD toccando la schizofrenia. E' infatti emerso che i soggetti schizofrenici hanno ippocampi iperattivi, il che si correla con la frequenza di sintomi intrusivi come quelli allucinatori. Una ipotesi di lavoro confermata da studi autoptici che hanno rivelato la compromissione dei circuiti neuronali inibitori (basati sul GABA) nell'ippocampo dei pazienti. Una anomalia che "cortocircuita" ogni tentativo della corteccia prefrontale di regolarne l'attività. L'ippocampo, sede della memoria, diviene quindi incapace di bloccare l'emersione di ricordi dal suo "database" che possono, comparendo in modo inopportuno, dare luogo ad allucinazioni percepite come totalmente reali dal soggetto.

Sebbene lo studio non si sbilanci nella formulazione di un nuovo approccio terapeutico, è chiaro che questa nuova finestra conoscitiva espande le potenzialità di intervento in molti disturbi caratterizzati da pensieri ricorrenti non controllabili.

Fonte
Hippocampal GABA enables inhibitory control over unwanted thoughts.
Schmitz, TW et al. - Nature Communications; 3 Nov 2017



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