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Diagnosticare l'Alzheimer con un esame del sangue?

In un futuro prossimo sarà possibile fare la diagnosi dell'Alzheimer con un semplice prelievo di sangue.
Questo è quanto emerge dallo studio condotto dai ricercatori della UCLA che mostrano come un semplice esame di laboratorio potrebbe identificare la presenza di proteine beta amiloidi nel cervello, caratteristica chiave della malattia di Alzheimer.
Ad oggi la diagnosi è possibile mediante test cognitivi, di neuroimaging (Risonanza Magnetica ad alta definizione, Tomografia a Emissione di Positroni - PET) o la puntura lombare con dosaggio liquorale di beta amiloide e proteina tau. La certezza assoluta la si ha tuttavia post-mortem dall'analisi del tessuto cerebrale. Limitandoci ai test più utili, quelli fatti in vita, si tratta di test costosi (risonanza e PET), invasivi e con potenziali inconvenienti (prelievo del fluido cerebrospinale) o che espongono i pazienti a radiazioni (PET). Ci sono tutte le premesse quindi affinché un test "più semplice" possa guadagnare consensi tra gli addetti ai lavori.

Lo studio condotto dal gruppo californiano si è basato su campioni di sangue ottenuti da pazienti con decadimento cognitivo lieve, già coinvolti nel programma di ricerca Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative; i risultati preliminari confermano le potenzialità diagnostiche del test ematico. Sottolineo "potenzialità", dato che per raggiungere lo standard di metodo diagnostico (un metodo con elevata potenza analitica) saranno necessari altri miglioramenti.
Il vero punto è però un altro. Che vantaggio si avrebbe nel sapere in anticipo che si ha una malattia neurodegenerativa priva ad oggi di terapie adeguate?
Una domanda non secondaria se immaginiamo le implicazioni che il conoscere il proprio fato può avere sulla qualità della vita. I vantaggi per un paziente sono riassumibili così:
  • risparmiare alle persone affette da demenza e alle loro famiglie l'ansia dell'incertezza;
  • permettere alle persone ancora in pieno possesso delle proprie capacità di sistemare le incombenze.
  • scegliere le strutture e i servizi di cui si vorrà fruire quando entrerà nella fase terminale della malattia.
Non molto in effetti.
Il vero impatto, e la ragione ultima per cui tale approccio è di fondamentale importanza, lo si avrebbe nella ricerca clinico-farmaceutica qualora divenisse disponibile un test di diagnosi precoce. Uno dei principali limiti attuali allo sviluppo di farmaci efficaci è infatti nell'assenza di soggetti idonei su cui testare i prodotti promettenti.
La diagnosi di malattia di Alzheimer, oggi, identifica soggetti le cui condizioni neurologiche sono fortemente compromesse. La plasticità cerebrale è una delle meraviglie del nostro cervello e questo si evidenzia perfettamente nelle malattie neurodegenerative: quando i sintomi compaiono, il danno cellulare è talmente esteso (spesso più del 80% delle cellule chiave sono morte o non funzionali) da rendere molto difficile ipotizzare terapie diverse da quelle di mantenimento. Testare un farmaco in queste condizioni, fosse anche un farmaco miracoloso che rimuove in toto le cause della morte neuronale, darebbe risultati molto scarsi in quanto gran parte delle cellule sono già morte.
Ben diverse le potenzialità se lo stesso farmaco potesse essere testato nelle fasi iniziali ed asintomatiche della malattia, cosa ad oggi impossibile in quanto non è possibile identificare i pazienti in questo stadio. Un farmaco in grado di agire bloccando sul nascere il danno neuronale aprirebbe nuove strade terapeutiche e, questo si, farebbe la differenza anche per un paziente.
Questa è la vera importanza dell'articolo pubblicata, non a caso, sulla prestigiosa rivista Neurology.
(altri articoli sul tema --> "Alzheimer")

Fonte
- Brain amyloidosis ascertainment from cognitive, imaging, and peripheral blood protein measures.
Liana G. Apostolova et al, Neurology (2015) vol. 84 no. 7 729-737



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