La riduzione del livello del testosterone, l'effetto voluto della terapia anti-androgenica usata nel trattamento del tumore della prostata, potrebbe aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer (AD).
Attenzione però a non fraintendere il senso e la portata dei risultati dell'analisi: l'utilità di ogni terapia si basa sul bilanciamento di beneficio e rischio per il paziente. Se una terapia utilizzata per una malattia potenzialmente fatale nel medio periodo si associa ad un aumentato rischio di una malattia anche invalidante sul lungo periodo, il trattamento sarà legittimo dato che permette di allungare la durata e/o qualità della vita del paziente (parametro misurato dal QoL). Al contrario un trattamento che aumentasse il rischio di una affezione acuta (ad esempio una epatite fulminante) nel trattamento di una patologia cronica ma sostanzialmente stabile e "benigna" non avrebbe alcuna ragione di essere. La domanda a cui bisogna rispondere è quindi "il rischio associato è inferiore al beneficio del trattamento, non ottenibile con terapie alternative e (forse) meno rischiose?"
I ricercatori hanno analizzato le cartelle di poco meno di 6 milioni di
pazienti ricoverati nel corso degli anni presso strutture legate a
Stanford e al Mount Sinai Hospital. Da questi sono stati selezionati
circa 9 mila individui a cui era stato diagnosticato il tumore alla
prostata, 2397 dei quali trattati con la terapia di deprivazione degli
androgeni.
I numeri ottenuti dall'analisi indicano che gli uomini che sono stati sottoposti ad una terapia di deprivazione degli androgeni nell'ambito della terapia per il tumore della prostata avevano un rischio quasi doppio (rispetto ad un campione equivalente pesato su età e background genetico) di ricevere una diagnosi positiva all'AD negli anni successivi. Tanto maggiore la durata della terapia e maggiore la probabilità di AD ed egualmente vi è una correlazione tra dose cumulativa e "risposta."
Meglio precisare che i risultati non dimostrano che la terapia anti-androgenica aumenta di per sé il rischio di malattia di Alzheimer (relazione causa-effetto) ma si evidenzia una correlazione in un certo senso non sorprendente; è noto da anni infatti che il testosterone ha una azione protettiva per il cervello e che la "caduta di performance" intellettuale negli uomini che invecchiano è parallela al calo ormonale.
Studi oramai classici hanno dimostrato che esiste una associazione tra bassi livelli di androgeni (in particolare, ma non solo, del testosterone) e impotenza, obesità, diabete, pressione alta, malattie cardiache, depressione e deficit cognitivi. E' anche noto che gli uomini con AD tendono ad avere un livello di testosterone inferiore rispetto agli uomini della stessa età normali. L'analisi condotta sia su topi che su esseri umani sembra indicare che un basso livello di testosterone favorisca il processo neurodegenerativo sia direttamente (aumentata sintesi della proteina beta amiloide) che indirettamente (facilitando condizioni come il diabete e l'aterosclerosi).
Difficile tuttavia stabilire l'entità precisa del rischio aumentato data la natura multifattoriale (in alcuni aspetti ancora poco compresa) della degenerazione cellulare alla base dell'AD. Tuttavia considerando la già alta prevalenza (numero di individui affetti) della malattia di Alzheimer negli uomini anziani, ogni trattamento che aumenti il rischio in una popolazione che invecchia, ha implicazioni notevoli per la salute pubblica (costi sociali e economici inclusi).
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Fonte
- Androgen Deprivation Therapy and Future Alzheimer’s Disease Risk
Kevin T. Nead et al, J Clin Oncol. (2016) 34(6) pp566-71
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