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Ingrassate d'inverno? Data la colpa alla genetica

Forse questa notizia diventerà il pretesto per coloro che dopo avere iniziato e abbandonato innumerevoli diete, diranno che la colpa è tutta dell'interazione ambiente-geni che li condiziona in modo subdolo a mangiare in eccesso, anche contro la loro ferrea volontà di perdere peso.

Le premesse
Le prove che noi siamo programmati a mangiare il più possibile all'avvicinarsi dell'inverno sono note da anni. Un fenomeno naturale di per sé naturale anche se non siamo animali  che devono prepararsi al letargo invernale.
Noi, appartenenti ai sapiens non africani (--> QUI il senso della distinzione generale tra sapiens africani e i loro discendenti non-africani - generalizzazione che comprende quindi anche asiatici e amerindi), siamo il risultato della selezione adattativa ad ambienti non solo più freddi rispetto a quelli africani (quindi necessitanti di un consumo energetico maggiore) ma anche ad una disponibilità di cibo estremamente variabile nelle diverse stagioni, con picchi di quasi totale assenza in inverno. Quando si deve affrontare una stagione in cui il cibo è sempre scarso, è normale che gli individui programmati per approfittare al massimo di ogni occasione, siano quelli che sopravvivono, o meglio che riescono a vivere per un tempo sufficiente da massimizzare le occasione riproduttive (vedi il concetto di fitness).
Il problema dell'essere umano contemporaneo è che possiede "alcune app", nate per gestire il reperimento e la gestione del "carburante", divenute "obsolete" in tempi evolutivamente troppo rapidi. Un programma che si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza negli ultimi 50 mila anni in ambienti estremamente variegati, è diventato ridondante (se non dannoso) negli ultimi 50 anni quando la disponibilità di cibo ha superato abbondantemente le necessità fisiologiche.
La conseguenza ovvia è stata l'impennata nella percentuale di obesi anche in quei paesi i cui abitanti non potevano, fino "all'altro ieri", prevedere con certezza se e quando avrebbero mangiato. L'evoluzione non ci ha protetti dai rischi legati all'essere sovrappeso e dal "cibo spazzatura" in quanto non c'era alcuna ragione per farlo. Nel nostro passato essere - leggermente - in sovrappeso non rappresentava una minaccia significativa per la sopravvivenza rispetto al pericolo concreto ed immediato di essere sottopeso. Solo con l'avvento di strutture sociali organizzate l'essere sovrappeso divenne una possibilità concreta e senza grossi effetti collaterali (la vita media era inferiore ai 50 anni) in quanto si poteva demandare ad altri "l'agilità necessaria" per trovare o produrre il cibo.
Accumulare il grasso corporeo (meglio se il tessuto adiposo bruno in quanto termogenico) è stata la nostra assicurazione contro il freddo e il rischio di non riuscire a trovare cibo. Questo spiega il motivo per cui ci piace mangiare tanto a Natale e le fallaci risoluzioni che si fanno ad ogni ultimo dell'anno di iniziare una dieta e cambiare le abitudini alimentari.

Lo studio
Alla comprensione del delicato equilibrio evolutivo, tra mangiare il più possibile evitando però di diventare obesi (e facile preda di qualche carnivoro che non va in letargo) si è dedicato un team della università di Exeter.
Grazie a simulazioni al computer i ricercatori hanno calcolato la percentuale di tessuto adiposo ideale in un sapiens affinché non fosse pregiudicata la sua salute e la sua capacità di sopravvivere ai rischi dell'inverno; un equilibrio che ha permesso ai nostri antenati di superare le migliaia di inverni rigidi delle regioni da loro colonizzate.
La risposta, riassumibile nel concetto "il peso ideale è quello superato il quale si tende a perdere peso e sotto il quale si tende a guadagnarlo" potrà forse sembrarvi marzulliana ma è la più completa possibile.
Cerchiamo di chiarire il concetto: la simulazione ci dice che al superamento delle riserve adipose ottimali  (ma all'interno di un intervallo fisiologico) diminuisce la "voglia" e l'abilità nel trovare cibo (e aumenta quella di diventare cibo), fenomeno che favorisce la perdita di peso; il contrario in situazioni di scarsa disponibilità di cibo. Un meccanismo di controllo dimostratosi efficace almeno fintanto che il cibo non è diventato disponibile in ogni scaffale e ci si siamo ritrovati bombardati in ogni istante dall'offerta di alimenti sensorialmente attraenti (guarda caso tutti iper-calorici). Di fronte a questa disponibilità inusitata di cibo h24, i meccanismi di controllo saltano e si innesca il circolo vizioso che spiega la percentuale a doppia cifra di individui sovrappeso soprattutto nella fascia di popolazione con meno risorse economiche.

Quindi preparatevi a sentirvi dire "non riesco a dimagrire in quanto non sono programmato/a per resistere al cibo".

***
Nota per chi volesse approfondire le tematiche su genetica e cibo.
  • Ipotesi del thrifty gene (gene risparmiatore). Ipotesi formulata negli anni '60 per cercare di spiegare l'elevata frequenza di malattie prima sconosciute come il diabete dell'adulto. L'idea di fondo è che la specie sapiens è il prodotto di una evoluzione plurimillenaria (limitandoci al genere Homo) in cui la selezione ha premiato coloro che erano in grado di sopravvivere (e riprodursi) durante le frequenti condizioni avverse, come la penuria di cibo associata alla colonizzazione di nuovi territori. Si sarebbero così selezionate varianti geniche (alleli) capaci di massimizzare il ricavo calorico da quel poco di cibo assunto. In altre parole la classica differenza tra individui che tendono ad ingrassare mangiando poco e quelli che rimangono invece magri qualunque per quanto ingurgitino cibi calorici. Nell'ultimo secolo tuttavia il passaggio da una economia di pura sussistenza ad uno di sovradisponibilità alimentare, comune anche nelle fasce più povere (cibo ricco di grassi e zuccheri), ha mandato "in corto circuito" un sistema nato con l'uomo della savana, che si trova ora inondato di cibo, in cui l'organismo cerca di massimizzare il recupero dei nutrienti in vista di carestie future. L'ipotesi è interessante ma non è mai stata confermata sperimentalmente. Vero è però che le popolazioni che oggi sono a maggior rischio obesità e malattie metaboliche (diabete, etc) sono le popolazioni adattatesi nei millenni a condizioni "statiche" e con dieta omogenea; i polinesiani, i discendenti dei nativi americani e alcune popolazioni africane sono esempi concreti di questa tendenza (--> CNN). Una ricerca recentemente pubblicata da un team della UCLA indica nella mutazione del gene DRD2 uno dei fattori di predisposizione per l'obesità tra gli americani di origine asiatica (--> UCLA, news)
  • L'ipotesi del drifty gene (conseguenza della deriva genetica) venne formulata una decina di anni fa come alternativa alla ipotesi precedente. L'ipotesi nasce da una analisi più accurata delle curve di sopravvivenza in persone sovrappeso e soggetti fisiologicamente magri durante i periodi di carestia; l'evidenza è che il tessuto adiposo in eccesso non aumenta la percentuale di sopravvivenza durante le carestie (JR Speakman, Int J Obes (Lond). 2008; 32(11) pp1611-7). Di fatto non esisterebbe un programma per massimizzare l'introito calorico in vista di tempi grami in quanto tale esigenza sarebbe comparsa solo dopo l'invenzione dell'agricoltura. Un periodo di tempo evolutivamente troppo breve (e non così diffuso se consideriamo il numero non basso di popolazioni dedite solo a caccia e pastorizia) perché la selezione abbia avuto il tempo e l'occasione per favorire la comparsa di "geni risparmiatori". Quindi se è pur vero che per i popoli dediti all'agricoltura la perdita di un raccolto sarebbe equivalsa a carestia e morte, questo problema non si è posto nelle decine di migliaia di anni antecedenti l'invenzione dell'agricoltura e per tutte le popolazioni nomadi dove l'aumento di peso era di per sé uno svantaggio. Eppure molti di questi popoli sono quelli che oggi mostrano il maggior tasso di obesità. Speakman propose che la causa dell'attuale frequenza di alleli che favoriscono l'obesità fosse una conseguenza della deriva genetica (genetic drift da cui drifty gene per assonanza e contrasto alla ipotesi thrifty gene). In estrema sintesi, con la formazione di comunità e lo sviluppo di strumenti con cui cacciare e difendersi, l'essere umano divenne sempre meno a rischio del diventare esso stesso una preda e quindi lo svantaggio dell'essere sovrappeso (minor velocità di fuga) venne meno. Un tratto non più contro-selezionato tende a sedimentare nella popolazione specialmente se si verificano nel frattempo colli di bottiglia genetici che aumentano casualmente la frequenza di alcuni alleli: tipico esempio sono gli attuali abitanti di isole molto distanti dalla terraferma, discendenti da poche decine o centinaia di fondatori. Una conferma della predisposizione genetica per l'obesità in alcune popolazioni isolane (accentuata dalla ricca dieta moderna) viene da uno studio condotto sugli abitanti delle isole Samoa, notoriamente di taglia XXL; in questa popolazione è presente la mutazione del gene CREBRF è nettamente più frequente rispetto ad altre popolazioni e strettamente associata all'indice di massa corporea BMI (vedi --> Ryan L Minster et al, Nat. Genetics)
Nessuna delle due ipotesi è completamente soddisfacente da un punto di vista evolutivo ma entrambe sono utili strumenti per comprendere le dinamiche selettive a cui noi sapiens abbiamo dovuto sottostare nel corso del centinaio di migliaia di anni dalla nostra comparsa e i repentini cambiamenti che che dobbiamo affrontare.


Su argomenti correlati --> "Il gusto e la genetica" e "Dormire poco fa ingrassare"


Fonte
- Fatness and fitness: Exposing the logic of evolutionary explanations for obesity
Andrew D. Higginson et al,  (2016) Proceedings of the Royal Society B,  283(1822)

- The shape of the future: Is obesity a crisis or just the latest stage of evolution?
National Post (febbraio 2016)

 

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