I geni (o più correttamente la combinazione allelica) che costituiscono il nostro genoma contribuiscono a definire il rischio di sviluppare alcune patologie, rischio pesato dalla penetranza genetica.
In alcuni casi essere portatori di un (solo) allele “sbagliato” non avrà alcuna rilevanza sul rischio incrementale di una malattia (ad esempio i portatori di una copia del gene mutato per la fibrosi cistica o per la anemia mediterranea non si ammalano) mentre in altri casi il rischio di sviluppare un tumore aumenterà considerevolmente (una copia del gene BRCA1 mutato conferisce una probabilità del 60% di sviluppare un tumore alla mammella nel corso della vita).
Nel caso delle malattie neurodegenerative, come Parkinson o Alzheimer (da qui in poi AD, Alzheimer's Disease), che in genere si manifestano in tarda età, quindi dopo il periodo riproduttivo e come tale la permanenza degli alleli predisponenti nella popolazione non è controselezionata, i fattori causali sono eterogenei; oltre alla componente genetica vi sono fattori esterni come ambiente e stile di vita, il che rende complicata l’identificazione degli alleli facilitanti, spesso molteplici e ciascuno con impatto minimo ma cumulativo. Diverso il discorso per le forme familiari della malattia (AD familiare o FAD) dove la chiara ereditarietà del tratto si associa ad una precocità dei sintomi, fatto che ha permesso non solo di identificare i geni coinvolti e di validare i fattori di rischio associati ai vari alleli ma anche di testare farmaci sperimentali pensati per prevenire la malattia prima che diventi sintomatica (quando i sintomi compaiono il danno è già irreversibile).
La genetica delle forme familiari è diversa da quelle sporadiche (dove i fattori coinvolti sono meno noti e più eterogenei) e differenti i geni coinvolti.
Predisposizione ed alta penetranza equivale a certezza della malattia?
Non necessariamente. Si tratta di fattori di rischio che anche in caso di probabilità dell’80% lasciano un certo margine condizionato da fattori terzi (ambiente e stile di vita). C’è però un altro elemento da mettere sulla bilancia, l'esistenza di fattori genetici protettivi.
Già in un precedente articolo su infezione da HIV e rischio AIDS ho discusso di questi fattori che in quel caso erano varianti geniche che rendevano l’infezione del virus (o la sua replicazione) più difficile e lo “smantellamento” del sistema immunitario, alla base della fase clinica nota come AIDS, limitato.Fenomeni simili di resistenza ad una infezione associati ad aumentato rischio di altre malattie sono noti per malaria/emoglobinopatie, colera/fibrosi cistica, tubercolosi/sindrome di Tay-Sachs, e resistenza a infezioni fungine/fenilchetonuria. Da un punto di vista evolutivo l'aumentato rischio di malattia, in genere legato alla presenza di due copie del gene alterato, è ampiamente compensata dalla resistenza ad un dato patogeno ad alta mortalità.
In tal senso riporto l'identificazione (in due studi separati) di tre individui appartenenti a famiglie con chiara predisposizione all’AD, che pur essendo portatori delle varianti alleliche di rischio, rimasti asintomatici per oltre un decennio rispetto all'età media in cui si è sviluppata la malattia nei consanguinei, suggestivo di un aplotipo (combinazioni di alleli) protettivo. Di questi tre individui l’ultimo identificato è quello di maggior interesse data la mole di dati genetici ottenuti e il follow-up decennale.
L'articolo in cui il soggetto è stato descritto è apparso poche settimane fa su Nature Medicine che riassumo brevemente di seguito.
Nell'ambito dello studio Dominantly Inherited Alzheimer Network (DIAN), iniziato nel 2011, sono stati analizzati e seguiti nel tempo i membri di una famiglia ad alto rischio (FAD), portatrice di una mutazione nel gene PSEN2, codificante per l'enzima gamma secretasi che ha tra i suoi "bersagli" APP (proteina precorritrice della beta-amiloide) i cui prodotti sono i "mattoni" delle placche amiloidi.
La maggior parte delle mutazioni associate al FAD (almeno 200) sono a carico del gene PSEN1. Le mutazioni nel gene PSEN2 sono più rare, da qui l’interesse per questa famiglia.
La proteina mutata favorisce la produzione di prodotti la cui aggregazione porta alle placche amiloidi, ritenute il passaggio chiave nel processo neurodegenerativo (meccanismo noto come “ipotesi amiloide”, ipotesi che negli ultimi anni ha cominciato a mostrare alcune crepe).
La mutazione è di tipo autosomico dominante che tradotto vuol dire che il gene non si trova su un cromosoma sessuale (quindi ereditarietà non legata al sesso) ed è sufficiente essere portatori di una sola copia del gene mutato per avere la quasi totale certezza di manifestare i sintomi causati dalla mutazione (nel caso FAD sviluppare la malattia intorno ai 50 anni).
Date le premesse grande fu la sorpresa quando si scoprì che un membro della famiglia analizzata, 61 anni e portatore della mutazione, mostrava una piena funzionalità cognitiva a differenza di 11 dei suoi 13 fratelli “portatori” in cui la demenza si era invariabilmente palesata intorno ai 50 anni.
Non bastasse la sorpresa della asintomaticità, la scansione cerebrale mediante PET mostrava un cervello simile a quello di persone con l'Alzheimer, pieno di placche amiloidi ma con una differenza sostanziale: l’assenza di aggregati dovuti alla proteina Tau, minimamente presenti solo nel lobo occipitale, una regione del cervello coinvolta nella percezione visiva solitamente non responsabile dei sintomi di AD.
Test di memoria e altre valutazioni cognitive diedero punteggi normali e costanti nel tempo (oggi l'uomo è un sano settantenne), alcuni dei quali anzi migliorarono grazie alla pratica.
Quale allora la differenza tra questo individuo sano e i consanguinei malati portatori della stessa mutazione? Le variabili possibili sono quelle ambientali (stile di vita, alimentazione, etc) come pure l’avere ereditato, per pura casualità, una combinazione di alleli “protettivi” in grado di minimizzare l’effetto della mutazione
Alcuni alleli protettivi sono noti da tempo (ad esempio APOE ε2), nessuno di questi però presente nel soggetto in esame dove invece sono state identificati 9 alleli assenti nei fratelli malati. Di queste varianti 6 non erano mai state associate al rischio AD, ma correlabili a processi di neuroinfiammazione e al controllo del corretto ripiegamento (folding) delle proteine.
Tra le ipotesi formulate quella che la presenza di varianti antinfiammatorie insieme a fattori esterni e comportamentali spiegherebbero l'assenza di sintomi pur in presenza di fattori scatenanti come le placche amiloidi (declassate da agenti causali ad agenti facilitanti).
A supporto di tale ipotesi il ridotto stato infiammatorio delle aree coinvolte nel AD, pur in presenza di placche amiloidi, rispetto a quanto osservato nei soggetti sintomatici; dato che suggerisce una minore reattività del sistema immunitario contro le placche amiloidi
Ricordo per inciso che in molte malattie i danni maggiori sono causati da una reazione eccessiva o anomala del sistema immunitario contro un “fattore scatenante” più che al fattore stesso.
Se sommiamo questi dati con la ridotta presenza di accumuli di proteina Tau diventa lecito ipotizzare che le placche amiloidi siano condizione necessaria ma non sufficiente per la malattia e che (forse) l'innesco definitivo viene da altre alterazioni che facilitano (oppure non impediscono) la formazione di aggregati di Tau, un combinato che favorirebbe la attivazione locale di una infiammazione cronica e a cascata neurotossicità.
Identificare i fattori genetici protettivi potrebbe un giorno portare allo sviluppo di trattamenti farmacologici utilizzabili anche nelle forme sporadiche dell'AD come trattamento preventivo.
Tra gli studi clinici in atto vale la pena segnalare quello basato su lecanemab, un anticorpo che attacca l'amiloide (approvato dalla FDA nel 2023) in combinazione con anticorpi diretti contro la proteina tau.
Fonte
- Longitudinal analysis of a dominantly inherited Alzheimer disease mutation carrier protected from dementia
Jorge J. Llibre-Guerra et al, (2025) Nature Medicine
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