La comparsa del sottotipo B nel gruppo M del virus HIV-1 nei maschi nordamericani omosessuali ha rappresentato il punto di svolta nella genesi della pandemia di HIV / AIDS.
Come discusso in precedenza, il passaggio (e adattamento) del virus da scimmia a uomo è avvenuto in Africa verosimilmente nella prima metà del secolo scorso; un passaggio avvenuto in realtà a più riprese come evidente dalla esistenza di diversi gruppi di HIV-1 "umani" (gruppi M, N, O e P). Il gruppo M rappresenta la quasi totalità dei casi nel mondo, mentre gli altri tre sono confinati (ma sempre minoritari) a Camerun, Gabon e Guinea. Dal gruppo M si sono poi originati diversi sottotipi (A, B, C, D, F, G, H, J e K) di cui il B, pur rappresentando solo il 12% dei casi mondiali è il più diffuso in Nord-America, Europa e Australia.
HIV-1 al microscopio elettronico |
Ho omesso volutamente i casi derivanti da HIV-2 in quanto non solo minoritari ma anche decisamente meno "problematici" per la salute rispetto a HIV-1.
Vi consiglio di leggere, prima di proseguire, il precedente articolo sul tema HIV pubblicato su questo blog circa due anni fa (clicca --->"Dal gorilla di pianura il virus che originò due dei sottotipi ... "). Riassume per chi non è del campo le conoscenze consolidate sull'origine del virus causante l'AIDS ed è necessario per contestualizzare i dati riportati in questo articolo. Riguardo all'origine del HIV-2 vi rimando ad un buon articolo apparso nel 2019.
I dati filogenetici oggi disponibili permettono di datare retrospettivamente ai primissimi anni '70 la comparsa del sottotipo B nei Caraibi e, in qualche momento del decennio successivo, negli USA. Una valutazione finora inferenziale dato che all'epoca non si aveva idea della presenza di questo virus e tanto meno delle sue varianti.
Si trattava come detto di inferenze basate su dati temporali e geografici, incrociati con le sequenze parziali dei genomi virali ricavati da vecchi campioni di sangue (analizzati e analizzabili solo a partire dai primi anni 2000) e che permisero di datare al 1981 la prima conferma "certificata" del virus.
Solo recentemente l'avanzamento delle tecniche analitiche ha aumentato le chances di datare con maggiore accuratezza la data della comparsa del virus sul suolo americano (e da lì nei paesi occidentali). Un punto chiave questo per l'analisi della via di diffusione della pandemia e delle modificazioni sedimentatesi ad ogni passaggio (con conseguente comparsa di un sottotipo virale sempre più adatto all'ambiente umano).
Un tassello importante in questo percorso viene dal lavoro di Michael Worobey e collaboratori, pubblicato sulla rivista Nature. Grazie al miglioramento delle tecniche di sequenziamento, ma soprattutto di assemblaggio dei dati genetici ricavabili da genomi degradati, è stato possibile in primis "cercare" il virus in più di 2000 campioni di siero sanguigno degli anni '70 (positivo il 10% dei campioni), e poi ricavarne la sequenza nucleotidica, nonostante il basso titolo virale e la degradazione conseguente a decenni di conservazione.
Si trattava come detto di inferenze basate su dati temporali e geografici, incrociati con le sequenze parziali dei genomi virali ricavati da vecchi campioni di sangue (analizzati e analizzabili solo a partire dai primi anni 2000) e che permisero di datare al 1981 la prima conferma "certificata" del virus.
Solo recentemente l'avanzamento delle tecniche analitiche ha aumentato le chances di datare con maggiore accuratezza la data della comparsa del virus sul suolo americano (e da lì nei paesi occidentali). Un punto chiave questo per l'analisi della via di diffusione della pandemia e delle modificazioni sedimentatesi ad ogni passaggio (con conseguente comparsa di un sottotipo virale sempre più adatto all'ambiente umano).
Un tassello importante in questo percorso viene dal lavoro di Michael Worobey e collaboratori, pubblicato sulla rivista Nature. Grazie al miglioramento delle tecniche di sequenziamento, ma soprattutto di assemblaggio dei dati genetici ricavabili da genomi degradati, è stato possibile in primis "cercare" il virus in più di 2000 campioni di siero sanguigno degli anni '70 (positivo il 10% dei campioni), e poi ricavarne la sequenza nucleotidica, nonostante il basso titolo virale e la degradazione conseguente a decenni di conservazione.
Il migliaio di campioni di siero analizzati viene dagli ospedali di San Francisco e New York, usati all'epoca per diagnosticare la presenza del virus dell'epatite B (HBV), allora tra le principali cause di infezione nella comunità omosessuale.
Nell'articolo è riportata l'identificazione e analisi di otto genomi completi di HIV-1 del gruppo M, databili al 1978. Questa "istantanea" dal passato dimostra anche che il virus HIV-1 statunitense possedeva già allora una certa diversità genetica (ad indicarne la presenza sul territorio da qualche anno) e la forte "parentela" con il virus presente nei pazienti caraibici. Il dato ha permesso non solo di fare risalire l'arrivo del virus negli USA intorno al 1970 ma di identificare la città epicentro, cioè New York, e perfino di individuare alcuni potenziali "portatori" (le persone emigrate da Haiti decedute negli anni successivi per complicazioni correlabili, a posteriori, all'AIDS).
Il percorso e la scala temporale dell'ingresso del HIV-1 in USA. Il cladogramma indica la differenziazione dei vari ceppi rapportata al tempo. (Image credit: Worobey M. et al / Nature.org) |
Altro elemento interessante è che i dati così ottenuti hanno ridefinito la visione classica che vedeva in un assistente di volo canadese il cosiddetto "paziente 0" americano. Come ben evidente dalla figura in allegato il posizionamento nell'albero filogenetico del virus di questo paziente non è compatibile con il suo essere il ceppo primigenio. L'erronea identificazione del paziente 0 è spiegabile con una analisi genetica incompleta conseguenza sia della mancanza di campioni "più antichi" che dalla notevole capacità del paziente di ricordare più del 10% dei nominativi tra le centinaia di partner occasionali avuti nel corso degli anni (mentre gli altri pazienti intervistati ne ricordavano a malapena qualcuno). Fu proprio l'incrocio delle anamnesi ospedaliere con i contatti avuti dallo steward a renderlo centrale nella ricostruzione della diffusione del virus in USA.
I dati odierni fanno chiarezza sulla tempistica e mostrano che il virus è arrivato (insieme ad alcuni immigrati haitiani oppure a qualcuno che ebbe rapporti sessuali con maschi infetti dell'isola) nei primissimi anni '70.
Il resto è storia.
Fonte
- 1970s and ‘Patient 0’ HIV-1 genomes illuminate early HIV/AIDS history in North America.
Michael Worobey et al. Nature. 2016 Nov 3; 539(7627): 98–101
Nessun commento:
Posta un commento