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Ebola. Il virus può persistere nei soggetti guariti

Aggiornamento maggio 2019. Una nuova epidemia è in atto nella parte nord-orientale del Congo. Molto più pericolosa delle precedenti a causa dei conflitti nella zona e degli attacchi dei ribelli nei confronti di tutti gli operatori sanitari --> Violence propels Ebola outbreak towards 1,000 cases

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L'epidemia di Ebola è stata dichiarata ufficialmente finita dall'OMS qualche mese fa, stante la prolungata assenza di nuovi casi accertati (--> sito WHO).
L'epidemia ci ha insegnato molto sui rischi di diffusione di malattie un tempo sporadiche ma che negli ultimi decenni hanno mostrato il preoccupante binomio di aumento di frequenza e di "migrazione"; un fenomeno strettamente legato all'aumentata antropizzazione delle foreste e all'espansione dei villaggi, oltre che al miglioramento dei mezzi di trasporto.

Il virus Ebola non è nato ieri ma esiste nelle foreste africane da ben prima che arrivasse l'uomo. Se all'inizio si ipotizzò che fossero state le scimmie il veicolo di trasmissione preferenziale verso l'essere l'umano (sulla falsariga di quanto avvenuto con l'HIV --> leggi QUI), l'ipotesi venne presto accantonata con la scoperta che il virus è egualmente letale (e rapido) nei primati non umani. Oggi si ritiene che i  pazienti zero delle epidemie di Ebola siano persone venute in contatto con il pipistrello della frutta (o con suoi residui biologici), un animale in cui l'infezione è sostanzialmente asintomatica (vedi QUI per la cronistoria e le informazioni epidemiologiche dell'ultima epidemia di Ebola).

La caratteristica virulenza e altissima mortalità (90%) del virus Ebola nell'essere umano è stata la vera barriera che ha impedito la diffusione del virus fuori dalle foreste, dove è endemico; chiunque avesse contratto la malattia (ivi compresi i familiari o i membri del clan) sarebbe stato "cancellato" entro tre settimane dalla comparsa dei sintomi (coincidente con l'inizio della fase infettiva). L'assenza di vie di comunicazione affidabili e la bassa densità abitativa sono nel caso di malattie a progressione rapida un metodo di quarantena naturale; solo chi è guarito o non infetto disporrà del "tempo" necessario per raggiungere aree "sicure". Questo è il vero motivo per cui manca ogni ricordo anche tramandato oralmente di precedenti epidemie di Ebola; la progressiva comparsa di focolai con frequenza sempre più ravvicinata (e di durata maggiore) a partire dagli anni '60 è coinciso con il miglioramento delle vie di trasporto, la comparsa di strutture ospedaliere rurali e l'aumento della densità umana in prossimità dei luoghi popolati dai pipistrelli.

L'ultima epidemia è stata la peggiore per due motivi: ha coinvolto un numero di persone finora mai visto (in cui il vero rischio era la diffusione incontrollata nella vicina e popolosa Nigeria); le aree coinvolte non erano considerate a rischio Ebola essendo molto lontane dall'area compresa tra Congo e Sudan, in cui erano stati registrati i precedenti focolai.

L'alto numero delle persone infettate ha permesso di acquisire molte informazioni sulla modalità di trasmissione e sul progredire della malattia, validando sul campo le procedure di contenimento migliori da attuarsi in mancanza di terapie preventive minimamente efficienti. Se da una parte si è così scoperto che a fare la differenza sono i trattamenti volti a mantenere lo stato di idratazione del paziente (capace di abbassare il tasso di mortalità dal 90% iniziale al 30-40%), dall'altra si è osservato che la cosiddetta vaccinazione passiva basata sulla trasfusione con il plasma dei soggetti guariti non è particolarmente efficace (vedi articolo precedente --> QUI).
Il massiccio incremento della popolazione virale ha consentito anche di monitorarne l'evoluzione. Come scritto sopra, il virus Ebola non ha come ospite primario l'essere umano e quindi il virus non è "calibrato" alle specifiche del nostro macchinario cellulare. Nel momento stesso in cui il virus esce dal suo ciclo naturale di diffusione ed entra in ambito umano sarà sottoposto ad una fortissima pressione selettiva che favorirà la comparsa di virus più "bravi" nello sfruttare le risorse di un ospite "non ottimale".
Nota. Un virus efficiente non è necessariamente un virus più patogeno anche se questo è inevitabile nelle prime fasi dell'adattamento. Il virus che meglio si è adattato al suo ospite è quello che non lo uccide. Se lo fa si condanna all'estinzione nel momento in cui il bacino di infetti scompare. Un virus che riesce a cronicizzare l'infezione può permanere nel suo ospite per decenni se non per tutta la vita; l'herpes simplex è un esempio classico di un doppio adattamento (del virus che sceglie i gangli come luogo di rifugio da cui emergere saltuariamente e dell'ospite che attiva una risposta immunitaria così potente da tenere il virus sotto controllo ogni qualvolta esca "dal santuario" in cui si nasconde). In linea generale i virus ad altissima virulenza e patogenicità sono quelli che hanno "appena" fatto il salto dal loro ospite naturale (mammifero o uccelli) all'essere umano. Essendo noi degli ospiti "non previsti" il virus non è "calibrato" per noi e noi non siamo dotati degli strumenti immunitari per attivare l'autodifesa in tempi rapidi (prima di soccombere all'infezione). Esempi classici di virus "nuovi" sono HIV (il passaggio da scimmia a essere umano è avvenuto intorno alla metà del secolo scorso --> leggi QUI), SARS, MERS, WNV, … .
 Studiare il genoma dei virus nei diversi momenti dell'epidemia ha permesso di identificare le mutazioni che hanno reso il virus più adatto all'ospite umano. Identificare queste mutazioni permetterà ai ricercatori di "disegnare" molecole antivirali ideali, capaci cioè di colpire le proteine virali in quei siti chiave che consentono al virus di funzionare nell'essere umano.

Tra gli elementi principali che hanno permesso di mettere sotto controllo la malattia fino al suo naturale spegnimento vi è il monitoraggio degli spostamenti (e dei contatti avuti) da ciascun paziente prima dell'arrivo nei centri di raccolta. Conoscere il numero e l'identità della persone "a rischio" ha impedito il diffondersi della malattia  nelle città e nel contempo ha quantificato "il rischio trasmissione".
Il monitoraggio è continuato anche dopo la dimissione dei pazienti guariti (scomparsa sintomi, no virus nel sangue, presenza di anticorpi neutralizzanti) e questo ha fornito alcune sorprese non proprio piacevoli sul rischio di nuove infezioni. Secondo la visione "classica", l'infezione virale avviene unicamente per il contatto con fluidi corporei (sangue, vomito, diarrea) o particelle di aerosol (--> QUI) prodotti da individui sintomatici (il virus è assente nella fase di incubazione della malattia, che dura tra 4 e 21 giorni).
In alcuni casi recenti l'infezione è invece avvenuta attraverso percorsi non convenzionali, come sperma e latte materno; limitandoci al primo caso questo è quanto accaduto ad una donna un mese dopo che il ritorno a casa del marito dall'ospedale.
 Non si tratta purtroppo di un evento "irripetibile" dato che già in precedenza il virus era stato individuato nei soggetti guariti nei cosiddetti siti immunologici privilegiati (testicoli, occhi, ...); in queste aree il sistema immunitario non può circolare a causa dei potenziali effetti deleteri di una seppur minima risposta infiammatoria.
L'assenza di un pattugliamento efficiente rende questi siti "nascosti" luoghi ideali per un virus. 
Ricordo che un virus non è definibile come un organismo vivente, ma come una "stringa di informazione" che in assenza di un "elaboratore adeguato" è inerte come un granello di sabbia (--> QUI). Si prenda quindi il verbo "nascondersi" in modo molto largo; si tratta semplicemente di una situazione in cui il virus, invisibile al sistema immunitario, rimane inerte in quanto privo di una cellula adatta per esprimere il proprio codice. Quando per qualunque motivo il virus uscirà dal "santuario" (sia la causa una lesione, una espulsione fisiologica o un casuale moto browniano) ci sarà un breve lasso di tempo (prima di essere neutralizzato dagli anticorpi circolanti) in cui il virus potrà infettare una cellula idonea o infettare un nuovo individuo.
Sarà necessario quantificare il titolo virale nel fluido seminale dei sopravvissuti, monitorarne la variazione nel tempo (non potendosi replicare dovrebbe calare) e soprattutto informare ex-pazienti e familiari sulla necessità di utilizzare a scopo precauzionale i preservativi (le direttive attuali della WHO ne richiedono l'utilizzo fintanto che il liquido seminale sia risultato negativo ad almeno due test successivi --> QUI).

Aggiornamento. I timori sono stati confermati. Il virus può persistere in soggetti guariti andando ad insediarsi in una delle suddette aree privilegiate. Il caso più famoso è quello del medico Ian Crozier che 2 mesi dopo essere guarito - nessuna traccia di virus nel sangue - si accorse di persistenti disturbi visivi. Il prelievo di un campione del liquido oculare mostrò la presenza di un elevato titolo virale "inerte" (a differenza di un batterio, se un virus non trova una cellula idonea non può fare nulla). Tra i disturbi più frequenti lamentati dai soggetti guariti quelli neurologici ad indicare una persistente attività virale.
Nuova prova di quanto questo sia un rischio reale è il nuovo focolaio di Ebola in Guinea (02/2021), probabilmente originato da soggetto sopravvissuto a precedente infezione e portatore del virus.



Fonte
- Rapid outbreak sequencing of Ebola virus in Sierra Leone identifies transmission chains linked to sporadic cases
Armando et al. (2016) Virus Evolution

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