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Ebola. Come si calcola il periodo di quarantena

Premessa. Non esiste una formula magica che permetta di definire a priori il tempo di quarantena perché questo è funzione del patogeno coinvolto e di come si manifesta la malattia indotta. Nei successivi paragrafi cercherò di mostrare la complessità sottostante con tutte le variabili biologiche in gioco.

Prima di entrare nella trattazione dettagliata del problema teorico mostro un modo empirico su come viene quantificato il tempo di quarantena "minimo" nel caso di una epidemia di SARS il cui tempo di incubazione medio è di circa 10gg.
Usiamo la SARS come esempio. Definendo come α la percentuale di soggetti infetti in quarantena che ad un dato periodo t mostreranno i sintomi della malattia, la figura qua sopra ci dice che ponendo α=90 questo periodo sarà di circa 10 giorni. Tempo minimo perché' se venissero dimessi tutti i sani al giorno 11, ci sarebbe il 10% di probabilità che qualcuno di loro manifesti i sintomi nei giorni successivi. Per precauzione si allunga di qualche giorno il tempo di quarantena in modo da appiattire la curva (credit: J. Wu / UHK) 



Passiamo ora ad analizzare per quale motivo determinare il tempo necessario varia tra epidemia ed epidemia. Per farlo torniamo all'epidemia di Ebola del 2015 con la scoperta di un soggetto malato appena rientrato dall'Africa.
Il caso Eric Duncan (QUI il riassunto) è un utile esempio di come un virus fino a ieri confinato alle foreste del centro Africa, possa varcare un oceano nel giro di pochi giorni. Non che questo sia sorprendente. 
La globalizzazione dei trasporti (di persone o cose) è da tempo la corsia preferenziale che virus e affini sfruttano per diffondersi al di fuori delle aree geografiche di origine. Oltre al caso della SARS il precedente più interessante è quello del West Nile Virus che si è diffuso dal Nord Africa grazie al trasporto di pneumatici (vedi il precedente articolo --> WNV).
Il WNV, responsabile di alcune forme di encefalite e meningite, si trasmette mediante la puntura delle zanzare le cui uova sono deposte nei residui di acqua presenti negli pneumatici. Le gigantesche navi portacontainer che attraversano gli oceani in continuazione chiudono la catena di trasmissione.
Minimizzare il rischio di importazione di malattie "esotiche" o almeno limitarne la diffusione è il fronte caldo di una nuova ed invisibile guerra. Se in alcuni casi il rimedio è "ovvio" una volta scoperto il vulnus (nel caso degli pneumatici, gli USA procedono ad una disinfestazione accurata prima di sbarcarli) nel caso di malattie trasmesse dall'uomo il problema è meno semplice.

Tornando all'esempio di Duncan, le ragioni che permisero ad Ebola di varcare l'oceano in poche ore sono riassumibili nelle falle nel sistema di controllo, sfortuna e omessa dichiarazione da parte del soggetto di essere a rischi. Risultato netto è che un soggetto a rischio altissimo che MAI avrebbe dovuto ottenere il permesso di imbarcarsi e tantomeno di passare i controlli frontalieri ... ci sia riuscito.
Riassumiamone i punti critici:
  • non c'erano embarghi per i voli dalle zone focolaio;
  • Duncan non dichiarò di essere stato a strettissimo contatto con malati di Ebola;
  • esiste un periodo di incubazione in cui il soggetto è asintomatico e magari (non nel caso di Duncan) inconsapevole di essere a rischio. Ad esempio, uno qualunque dei passeggeri che avendo volato al fianco di un infettato ancora asintomatico non sa di essere un soggetto a rischio.
Proprio su questo punto (periodo di incubazione) credo che valga la pena spendere qualche parola. Questo è il periodo che intercorre tra l'infezione e la liberazione di particelle virali potenzialmente in grado di infettare un'altra persona. La comparsa dei sintomi è una variabile che attiene "solo" allo stato di salute dell'individuo e non alla sua capacità di infettare terzi. Ma non esiste rapporto univoco: puoi stare bene ed essere contagioso ma puoi anche essere molto malato ma rappresentare per chi ti sta vicino un rischio sostanzialmente nullo.
Il periodo di incubazione non è semplicemente il tempo che intercorre tra il momento in cui il virus penetra nella cellula e quando viene liberata la progenie virale (un tempo di per sé breve). E' qualcosa di più complesso in quanto comprende l'entrata nell'organismo, il raggiungimento della cellula bersaglio sfuggendo ai sistemi di difesa nativi, l'entrata nella cellula, l'attivazione del programma di "dirottamento" dei sistemi cellulari a vantaggio del virus, la liberazione dei primi virus e infine il raggiungimento di aree a contatto diretto o indiretto con l'esterno (fluidi vari, aerosol, lesioni, ...). Solo a questo punto il virus è "disponibile" perché possa infettare qualcuno
In alcuni casi questo è semplice visto che il virus viene liberato con l'aerosol dell'espirato (influenza, raffreddore) o attraverso superfici contaminate (via oro-fecale come i norovirus). In altri casi (epatite B, HIV, Ebola, ...) l'infezione necessita di una esposizione diretta a fluidi corporei.
Il tempo necessario per la comparsa dei sintomi varia nelle diverse malattie e dipende dalla modalità di replicazione del patogeno, dalla risposta immunitaria e da altre variabili specifiche per ogni malattia. In sintesi andiamo da pochi giorni del virus influenzale agli anni che impiega l'HIV a manifestarsi sotto forma di AIDS.

Semplificando al massimo si può dire che tanto più è distante il luogo di replicazione (inteso come tipologia di cellule) dal luogo di entrata del virus e tanto maggiore è il tempo di incubazione.
Nota. I virus in generale non sono di "bocca buona". Per potersi replicare devono utilizzare in toto l'apparato traduzionale (e spesso anche trascrizionale) della cellula. Per riuscirci devono in primis avere le "chiavi" giuste per entrare nella cellula (cellula suscettibile) e inoltre la cellula deve produrre tutto quello che serve al virus per replicarsi (cellula permissiva). Entrambe le condizioni devono verificarsi perché l'infezione abbia successo. Questo il motivo per cui  i virus dell'influenza, della rabbia, l'HIV e gli altri colpiscono non solo una sola o poche specie ma possono infettare un numero estremamente limitato di cellule (epitelio respiratorio, neuroni, linfociti, ….).
Ma come ho detto si tratta di una generalizzazione e non è possibile usare unicamente questo criterio per predire esattamente il tempo di incubazione.
Più utile forse sottolineare che la sintomatologia compare per il verificarsi di almeno uno di due eventi:
  • la presenza di un numero sufficientemente alto di cellule infettate produttrici di nuovo virus;
  • la risposta del sistema immunitario.
Se coinvolge un numero sufficiente di cellule, si associa a profonde alterazioni funzionali del tessuto colpito. Nel secondo caso è proprio la risposta immunitaria la causa dei sintomi che comunemente associamo ad una infezione in corso (fiacchezza, febbre, nausea, …) ed è mediata dagli interferoni.

SE il virus non è prodotto a livelli elevati, SE non vi sono danni estesi e SE il sistema immunitario non si accorge dell'invasione in atto, il soggetto sarà asintomatico.

Quindi essere asintomatici NON implica in assoluto il non essere infettivi. Anche in questo caso dipende dal virus.
Due casi opposti. Una persona infettata con HIV ha sintomi passeggeri (e a volte nemmeno quelli) circa due settimane dopo l'infezione, dopo di che rimane sostanzialmente asintomatico fin quasi alla comparsa della malattia (AIDS) che può avvenire anche a distanza di molti anni (il tempo necessario perché la popolazione linfocitaria scenda sotto i limiti per il il corretto funzionamento immunitario). In tutto questo periodo il virus è immunologicamente invisibile (si nasconde dentro le cellule deputate al controllo), non straordinariamente proliferante ma presenta, in assenza di terapie, una viremia chiara (quindi è in grado di infettare il partner sessuale). Altri virus come l'Herpes Simplex rimangono sostanzialmente spenti e al riparo nei gangli nervosi fintanto che il sistema immunitario rimane efficiente (le lesioni periodiche che caratterizzano questa malattia sono dovuti a momentanei cali di efficienza del sistema di sorveglianza causato da stress, irradiazione solare, farmaci o altro). A differenza dell'HIV il rischio di infezione nel periodo asintomatico è pressoché nullo.

Ed Ebola? Quanto scritto sopra dovrebbe avere chiarito che non è possibile fare ipotesi a priori ma ci si deve basare sui dati disponibili, ottenuti sia dallo studio in laboratorio di modelli animali che dai dati clinici raccolti dalle precedenti epidemie.
I dati dicono che l'infettività nel periodo asintomatico è quasi nulla MA superiore a zero. OMS e CDC raccomandano di tenere in isolamento i soggetti potenzialmente esposti al virus per almeno 21 giorni, questo per evitare che un rischio potenziale diventi reale.

Perché 21 giorni?
Un recente articolo pubblicato su PLoS Current Outbreak da Charles Haas, affronta l'argomento "quarantena" in Ebola comparando i periodi di incubazione calcolati per i focolai precedenti. Epidemie, è bene ricordarlo, molto più limitate geograficamente (e per numero di casi coinvolti) di quella attuale. I dati sono i seguenti:
  • 1976 (Zaire). Tempo medio tra esposizione e malattia per i 109 casi rilevati pari a 6,3 giorni con una distribuzione compresa tra 1 a 21 giorni.
  • 1995 (Congo). 315 casi e 5,3 giorni di incubazione. Una analisi indipendente e posteriore a quella del 1995 ha esteso il tempo di incubazione a 10 giorni
  • 2000 (Uganda). 425 casi e 3,35 giorni di incubazione. Probabile sottostima del tempo data la difficile tracciabilità dei soggetti coinvolti
  • Le osservazioni sul campo riferite ai primi 9 mesi dell'epidemia attuale in Africa occidentale, fanno stimare all'OMS un periodo di incubazione medio di 11,4 giorni, con un limite superiore (e intervallo di confidenza al 95%) pari a 21 giorni. Da qui la definizione del periodo di quarantena richiesto.
  • Haas stima che il rischio di di sviluppare i sintomi dopo i 21 giorni di quarantena di tra lo 0,2% e il 12%. 
Più lungo è il periodo di quarantena imposto, minore è il rischio di agire come diffusori del virus, in caso si sia nella fase di incubazione. Ma protrarre la quarantena per più tempo del necessario ha un costo sia in termini economici che pratici.
Secondo Haas il periodo di quarantena ideale è quello che si ottiene dall'incrocio delle due curve di rischio per il costo-quarantena e costo-rilascio individui esposti (© Charles Haas)

Uno studio recente condotto in Liberia dalla università di Yale mostra che la mossa più efficace sul campo è quella di mettere in isolamento stretto il paziente prima che sia passato il quinto giorno dalla comparsa dei sintomi. I modelli epidemiologici mostrano che attuando questo isolamento su almeno il 75% dei nuovi malati è in grado di bloccare la diffusione della malattia (Yale/news).

Isolare un villaggio è più semplice che isolare ciascuna delle centinaia di passeggeri dei tre voli presi da Duncan, soprattutto e fatto dopo qualche giorno dalla scoperta del caso Nel caso specifico i tre voli presi da Duncan mentre era asintomatico (Monrovia-Bruxelles, Bruxelles-Washington, Washington-Dallas) hanno un profilo di rischio considerato accettabile per la tipologia del virus. Diverso il discorso se si fosse trattato di un virus trasmesso per via aerea come la SARS.
Dei tre voli precedenti il rischio maggiore è Washington-Dallas preso il giorno prima della comparsa dei sintomi.
Rischio espresso sempre in termini relativi: di sicuro il profilo di rischio di chi era seduto di fianco a lui sul volo per Dallas è maggiore di quello di chi ha interagito con Duncan all'aeroporto di Monrovia ma inferiore a quello di un familiare o dell'infermeria che lo ha avuto in cura nel reparto di terapia (infatti è ufficialmente il secondo caso in USA).

I controlli effettuati sui passeggeri del volo per Dallas diedero esito negativo.

 (articolo successivo sul virus Ebola ---> qui)





 Fonte
-  On the Quarantine Period for Ebola Virus
Haas CN. (2014) PLOS Currents Outbreaks. Oct 14. Edition 1. doi: 10.1371

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