Quanto è grande un virus?
Non è una domanda ovvia se non si conoscono le scale dimensionali in biologia. La figura sotto allegata può aiutarvi
®micro.magnet.edu |
Forse adesso è un poco più chiaro quale è la scala dimensionale in cui collocare i micro-organismi. Cosa emerge?
- i virus sono almeno 10 volte (in media 100 volte) più piccoli di un batterio medio.
- il limite di risoluzione del microscopio ottico è (per motivi fisici) di 0,2 micrometri (µm). L'occhio umano può invece distinguere due puntini ad una distanza di almeno 0,1 mm.
- date le dimensioni medie di un virus (20-300 nanometri) la microscopia ottica non è utile per potere osservare un virus; bisogna ricorrere al microscopio elettronico, la cui "acutezza" nelle diverse varianti in cui tale strumento esiste, permette di visualizzare agevolmente sia una particella di polline che un filamento di DNA.
- Procarioti (cioè i batteri) ed eucarioti hanno dimensioni varie, circa 0,5-5 e 10-100 µm, rispettivamente.
Le particelle virali sono quindi certamente piccole ma grandi a sufficienza per espletare la loro funzione. Del resto un virus di cosa ha bisogno? Di un involucro in cui racchiudere un codice (DNA o RNA), spesso di alcuni strumenti (proteine attive nelle fasi iniziali dell'infezione) e delle protuberanze proteiche con cui identificare, e agganciare, le cellule bersaglio.
Niente di più.
Cosa altro servirebbe a queste entità (termine volutamente vago) assolutamente incapaci di fare alcunchè se non all'interno di una cellula? Nulla, dato che probabilmente non sono nemmeno da considerarsi organismi viventi. Esiste nel mondo scientifico una corrente di pensiero non minoritaria che esclude che un virus possa essere definito "vivente". La definizione di "vita" non è banale ma possiamo riassumere i principali elementi in comune tra i diversi organismi viventi:
Un virus possiede alcune di queste caratteristiche ma non tutte. In assenza di una cellula ospite non ha alcuna attività ne capacità. Non è così strano allora pensare ad un virus come ad un non-organismo. In fondo nessuno penserebbe di comparare anche il virus informatico più efficiente ad un processore.
- struttura complessa ed organizzata con molecole organiche finalizzate a svolgere compiti specifici
- capacità di evolversi (evoluzione)
- capacità di adattamento all'ambiente esterno
- capacità di riprodurre (riproduzione) e di trasmissione nel tempo del proprio patrimonio genetico
- capacità di interagire con l'ambiente esterno e di reagire agli stimoli
- capacità di assumere energia dall'esterno per il mantenimento della propria struttura
- capacità di omeostasi
Ma non è di questa annosa questione che voglio occuparmi oggi, quanto della scoperta nel permafrost siberiano di un virus non solo ancora attivo sebbene vecchio di migliaia di anni ma anche appartenente alla curiosa "classe" dei virus giganti, il cui primo membro venne identificato nel 1992. L'aggettivo "gigante" è quanto mai appropriato date le dimensioni intorno al µm, ben superiori non solo alla media dei virus ma anche a quelle di un batterio; un aggettivo che rispecchia in parte anche le notevoli dimensioni del DNA, sebbene non le più grosse in assoluto tra i virus.
In alto il confronto tra le dimensioni del Pithovirus e alcuni virus umani. In basso una foto al microscopio elettronico del virus |
Ovviamente i virus giganti non sono virus batterici (come potrebbero infettare qualcosa di più piccolo di loro?) ma parassiti delle amebe, protozoi apparententi alla classe dei rizopodi. Virus di cellule eucariote quindi.
Il virus appena scoperto, chiamato Pithovirus sibericum, è stato isolato dal materiale proveniente dal carotaggio del permafrost siberiano, in strati vecchi di circa 30 mila anni; non solo è il virus più antico mai isolato (difficile pensare d'altronde ad un virus fossile) ma è la dimostrazione che, in opportune condizioni, i virus possono mantenere la infettività per lunghi periodi di tempo; il test di infettività condotto su colture di Acanthamoeba ne è la prova.
Beninteso la collocazione del Pithovirus tra i virus giganti è solamente descrittiva, non esiste infatti una famiglia filogenetica di virus giganti. La somiglianza tra Pithovirus e Pandoravirus, oltre all'avere un identico ospite, è limitata all'aspetto
dimensionale e morfologico, non deve fare pensare
quindi siano virus affini. La sequenza del DNA rivela
scarse somiglianze, una chiara indicazione di non-parentela. Al più i Pithovirus sono
simili a membri delle famiglie virali come i Marseillviridae,
Megaviridae e gli Iridoviridae.
Un virus che arriva dal Pleistocene
30 mila anni fa si era nel tardo Pleistocene, il periodo immediatamente precedente alla migrazione dell'essere umano nel continente americano. Parliamo di un periodo coincidente con l'ultima glaciazione in cui l'uomo non era un attore rilevante nell'ecosistema naturale. Date le suggestioni della cinematografia di fantascienza, la scoperta di questo virus (e di altri ignoti) potrebbe fare temere di avere risvegliato con il virus un pericolo per il genere umano, pericolo da millenni dimenticato nei ghiacci. Fortunatamente questi virus sono, come tutti i virus, estremamente selettivi per l'organismo da parassitare; una scelta non strana dato che sono "programmati" per sfruttare un ben specifico macchinario cellulare. Per intenderci lo stesso virus HIV può infettare solo pochi tipi di cellule in un umano e non funziona bene nelle scimmie, i nostri parenti più prossimi. Altro punto importante è che, come detto, in quel periodo non solo la Terra era nel mezzo dell'ultima glaciazione ma la densità umana era meno che scarsa, a maggior ragione in Siberia. E un virus ha come unica possibilità di mantenersi quella di avere un numero sufficiente di ospiti. La possibilità che nella "carota" siberiana siano presenti altri virus "umani" è di conseguenza meno che irrilevante.
Mimivirus |
Pandoravirus |
I Pithovirus sono al momento i campioni tra questi giganti, date le dimensioni leggermente più grandi dei Pandoravirus, pari a 1,5 x 0,5 µm. Dimensioni quasi batteriche. Hanno una forma ad "anfora" e l'involucro esterno è delimitato da una membrana. Se guardate l'estremità della particella virale potrete vedere che appare come chiusa da un "tappo" molecolare (probabile zona di entrata/uscita del DNA); da qui il nome Pithovirus, da pithos parola greca che si riferisce alle anfore e che era stato usato anche per il Pandoravirus. Il nome si riferisce quindi sia alla morfologia della particella virale che alla sua somiglianza con i Pandoravirus.
Anche il genoma è grande, 610 mila basi (kbp) e sebbene più piccolo di quello dei Pandoravirus (2.8 Mbp) è simile dimensionalmente a quello batterico (di poco superiore a 1 Mbp). Una dimensione, quella virale, incredibile se si pensa alla netta maggiore complessità funzionale di un batterio rispetto ad un virus. Perché il Pithovirus abbia bisogno di 467 geni non è ancora chiaro dato che la maggior parte dei virus codifica solo per proteine strutturali (capside, etc) e poche proteine funzionali; per tutto il resto usa il macchinario gentilmente fornito dalla cellula.
Altra domanda ancora senza risposta è per quale motivo la particella virale abbia tali dimensioni quando altri virus con genoma paragonabile a quello del pithovirus sono capaci di inserire il DNA in capsidi ben più piccoli. Una delle spiegazioni proposte è che il Pithovirus sia nella fase iniziale del percorso "evolutivo" che porta al minimo ingombro per la massima resa. Il virus migliore è quello che con pochissime "istruzioni" date alla cellula è in grado di riprogrammarla per la propria proliferazione. Inoltre più il virus è grosso, minore è il numero di particelle virali che una cellula riuscirà a produrre.
Il Pithovirus sembrerebbe quindi avere iniziato a ridurre il proprio corredo genetico senza la concomitante riduzione delle dimensioni della particella originaria.
Un ipotesi quest'ultima che deve essere inquadrata in una delle teorie circa l'origine dei virus, quella che propone il virus come l'involuzione di una cellula ridottasi talmente da essere diventata un parassita obbligato: una stringa di informazioni in grado di riprogrammare cellule compatibili. Una ipotesi in contrasto con quella che afferma che virus e cellule si siano originate in modo del tutto indipendente dalle strutture pre-biotiche presenti nel cosiddetto "mondo a RNA".
Se da un punto di vista scientifico quello che emerge è l'enorme varietà di virus ancora da scoprire (e le strategie adattative selezionate) da un punto di vista pratico qualche dubbio affiora circa quello che potrà emergere dai ghiacci in seguito al fenomeno del riscaldamento globale; sia naturalmente per la riduzione delle calotte che per il più facile accesso industriale ad aree prima precluse (l'artico ne è un esempio).
L'analisi dettagliata dei microorganismi presenti in queste aree è fondamentale per valutare se costituiscono potenziale per l'ecosistema, con conseguenze a cascata sull'uomo anche senza dovere ipotizzare la ricomparsa di un patogeno agente direttamente sull'uomo.
*** aggiornamento ***
Un altro virus gigante che ha mantenuto, una volta riemerso dopo 30 mila anni dalle tundre ghiacciate della Siberia, la capacità di infettare le amebe è il Mollivirus sibericum. Visibile al microscopio ottico grazie ai suoi 0,6 micrometri di diametro, possiede un genoma di 560 kbp codificante per un gran numero di proteine senza omologie significative tra gli organismi noti. Un nuovo (e indesiderato regalo) del riscaldamento globale.
Il mollivirus al microscopio ottico (Image credit: Matthieu Legendre) |
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Fonte
- Thirty-thousand-year-old distant relative of giant icosahedral DNA viruses with a pandoravirus morphology
Matthieu Legendre et al, Proc Natl Acad Sci U S A. 2014 Mar 3
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