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Ripristinare, parzialmente, la vista grazie all'inserimento di proteine fotosensibili nella retina

Un uomo di 58 anni è tornato a vedere (qualcosa) dopo 40 anni di "buio" grazie alla terapia genica.
Non si tratta di una visione completa, limitata per ora al rilevare la presenza di oggetti su una superficie e che necessita di particolari occhiali, ma è un passo avanti sia rispetto alle condizioni di partenza che a alle attuali terapie.
Gli occhiali necessari per la visione insieme ad un "caschetto" per monitorare le aree cerebrali attivate
(Image credit: José-Alain Sahel et al via Nature Medicine)
La malattia causa della cecità acquisita è la retinite pigmentosa, una patologia ereditaria monogenica (anche se il numero di geni mutati causanti la malattia è di 71) che colpisce più di 2 milioni di persone a livello globale, il cui esito è sempre la morte delle cellule fotorecettrici della retina. Ad oggi l'unica terapia disponibile, limitata al caso in cui sia coinvolto il gene RPE65, prevede la sostituzione del gene mutato con la versione normale
 
Il nuovo approccio, portato avanti dalla GenSight Biologics e descritto su Nature Medicine, non "si cura" di quale sia la mutazione responsabile ma va direttamente a "mettere una toppa" al sistema, agendo a valle del difetto (la scomparsa di coni e bastoncelli nella retina) inserendo delle proteine fotosensibili nello strato gangliare (RGC) della retina nella zona della fovea.

I coni e bastoncelli sono le uniche cellule retiniche capaci di catturare la luce, il cui "segnale" viene poi trasferito attraverso una serie di altre cellule (tra cui quelle ganglioniche, che sebbene sia nella parte esterna della retina, quindi più esposte alla luce, non sono capaci di captare il segnale) prima di confluire nel nervo ottico. Per completezza ricordo che la luce provoca una iperpolarizzazione delle classiche cellule fotorecettrici e quindi un "blocco" del segnale; tuttavia essendo queste cellule inibitrici, lo spegnimento causa l'attivazione dei circuiti a valle (in parole semplici la luce toglie il "freno" al segnale che quindi può essere trasmesso).

Il dettaglio della struttura della retina. Le cellule in alto sono quelli che "fronteggiano" la luce e da cui emana il nervo ottico, quelle in basso le cellule interne con i fotorecettori. Evito qui di addentrarmi ulteriormente nella neurofisiologia della visione. Vi rimando ad articoli precedenti sul tema o ad altri siti divulgativi.

Il fine della procedura è rendere cellule per loro natura incapaci di rilevare la luce di farlo fornendo loro i sensori nella forma di proteine foto-eccitabili (ad una specifica lunghezza d'onda). Poiché queste cellule si trovano a valle del "danno" il segnale da esse generato potrà sfruttare le vie di comunicazione standard dell'apparato visivo, dal nervo ottico alle aree cerebrali preposte all'elaborazione del segnale. 

Nella realtà dei fatti il problema è più complesso sia per il numero ridotto delle cellule RGC (vedi sotto) che per il limite del tipo di lunghezza d'onda rilevabile rispetto a quelle presenti nella gamma del visibile. Da qui l'esigenza di usare appositi occhiali capaci di "convertire" la luce in entrata in una luce rilevabile dalle cellule portatrici dei fotorecettori artificiali.
La scelta di usare una proteina sensibile al rosso invece, ad esempio, del blu, è che l'energia associata è inferiore, una opzione più sicura per la cellula.
Il metodo, centrato sulla "consegna" del pacchetto informativo per creare la proteina fotorecettore, sfrutta un virus modificato, incapace di replicarsi, iniettato direttamente nell'occhio. Dopo circa 4 mesi, tempo necessario perché l'espressione della proteina nelle cellule infettate si normalizzi, si inizia la fase di training con gli occhiali che serviranno al paziente (o meglio al cervello del paziente) per imparare ad interpretare questo nuovo segnale che ha due problemi rispetto alla luce normale: è monocromatico e le cellule RGC capaci di rilevarlo sono nel migliore dei casi 100 volte inferiori rispetto a coni e bastoncelli (da qui un limite intrinseco nella risoluzione massima ottenibile).

Gli occhiali utilizzano una fotocamera che rileva i cambiamenti di contrasto e luminosità convertendoli in qualcosa di paragonabile ad una "notte stellata con punti colorati". Quando la luce di questi punti entra nell'occhio, attiva le nuove proteine fotosensibili con un effetto a cascata sulla polarizzazione della membrana che risulta in un segnale inviato al nervo ottico prima e alle aree cerebrali della visione dopo (vedi anche un precedente articolo).
Ci vogliono mesi di allenamenti prima che il cervello impari a "tradurre" i segnali rilevati; alla fine però il primo paziente testato è stato in grado di distinguere immagini ad alto contrasto, inclusi oggetti su un tavolo e le strisce bianche in un passaggio pedonale. Una conferma che si era sulla strada giusta è venuto da test dell'attività cerebrale fatti in contemporanea ai test visivi, che hanno dimostrato che la corteccia visiva reagiva all'immagine proposta nello stesso modo in cui un soggetto normale avrebbe risposto osservando lo stesso oggetto.
image credit: Institut de la vision via modernretina.com


Il recupero visivo (dal buio assoluto) è quindi intrinsecamente associato all'utilizzo degli occhiali. Siamo purtroppo ancora ben lontani dal "miracolo tecnologico" che ci mostrava Geordi La Forge in Star Trek, TNG.


A migliorare una notizia già di per sé positiva il dato che con il tempo le capacità visive continuano a migliorare, complice l'abilità del cervello di "imparare" a gestire i nuovi input sensoriali.

Ad oggi, oltre al soggetto descritto nell'articolo, sono 8 le persone trattate con la stessa tecnica, di cui però non sono ancora disponibili i risultati per ragioni legate alla pandemia. Come spiegato nei precedenti paragrafi il passaggio cruciale è imparare ad usare questi particolari occhiali con un lavoro svolto fianco a fianco degli sperimentatori. Il distanziamento sociale obbligatorio ha ritardato questa interazione posticipando così anche i risultati.

Nota positiva non secondaria è che il trattamento ha carattere permanente e non presenta controindicazioni  o fattori di rischio.

GenSight Biologics non è in verità l'unica azienda che sta sviluppando terapie basate sull'optogenetica per il trattamento di patologie retiniche (vedi anche articolo precedente).
Bionic Sight ha annunciato positivi risultati preliminari (recupero parziale della vista mediante un caschetto simile a quello usato da GenSight) in quattro su cinque persone trattate.
Novartis sta sviluppando una terapia basata su una proteina nettamente più sensibile alla luce da rendere gli occhiali (forse) non necessari.

Fonte
- Partial recovery of visual function in a blind patient after optogenetic therapy
Nature Medicine, maggio 2021



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