Fare attività fisica fa bene sotto molti aspetti. Da un punto vista mentale aiuta gli adulti a scaricare le tensioni accumulate durante la giornata e impegna i più giovani allontanandoli da attività meno salubri. In termini generali favorisce la funzionalità cardiovascolare (e quindi l'ossigenazione) e aiuta a prevenire le problematiche legate alla vita sedentaria e ad una alimentazione non ottimale.
Che fosse però anche utile a recuperare deficit visivi è qualcosa che neppure gli oltranzisti del fitness h24 avrebbero mai osato proporre. Perché questo è proprio quello che emerge da uno studio condotto sui roditori pubblicato sulla rivista eLife e citato su Nature.
Non si vogliono qui alimentare false speranze circa possibilità di recupero in persone con lesioni dell'apparato visivo. Stiamo parlando di un caso ben particolare e di un deficit, come vedremo, causato da deprivazione sensoriale e non da lesioni o anomalie del nervo ottico. Lo studio contiene sicuramente elementi molto interessanti riguardo la plasticità cerebrale, la capacità cioè di "ricablarsi" a seconda delle necessità e che è (anche) alla base dell'apprendimento.
Riassumendo l'articolo in una frase, i ricercatori hanno osservato un netto miglioramento nella capacità di recupero della vista in topi sottoposti a deprivazione visiva nelle fasi iniziali della vita. Per capire questo punto vale la pena citare gli studi classici condotti mezzo secolo fa che dimostrarono come il corretto sviluppo della corteccia visiva dipendesse dal ricevere input nervosi da entrambi gli occhi nei primi anni (settimane nel caso dei topi) di vita. Se un occhio è privato della vista durante questo 'periodo critico', il risultato è l'ambliopia, o 'occhio pigro'. Nell'essere umano questa situazione originare da eventi "fisici" come blefaroptosi congenita (in genere corretta chirurgicamente dopo il periodo critico), strabismo, cataratta o altro difetto non corretto per tempo. Tanto più tardi viene ripristata l'apertura dell'occhio e tanto minore è la possibilità di recupero visivo.
Già nel 2010, Christopher Niell e Michael Stryker, entrambi alla UCSF, osservarono che topi fatti correre su minipedane avevano una attività della corteccia visiva più che doppia (stante un identico stimolo) rispetto a topi "non atletici".
Per articoli sul tema vedi "Neuroscience: Through the eyes of a mouse" e "Neurodevelopment: Unlocking the brain".
La spiegazione da loro proposta fu che l'occhio di chi corre è forzato ad essere più reattivo a causa delle maggiori variazioni ambientali rispetto a chi è semi-stazionario. Si tratterebbe quindi di un circuito di rinforzo che si attiva automaticamente quando serve, o al contrario tenuto spento (per risparmiare energia) quando non serve.
Tenendo presente questo dato e il concetto classico che è l'attività ad influenzare la plasticità neuronale, Stryker e Megumi Kaneko, si chiesero se fosse possibile agire in modo proattivo per "forzare" la plasticità neuronale nelle aree poco stimolate della corteccia visiva.
Per testare questa possibilità, hanno indotto l'ambliopia nei topi neonati (con una semplice occlusione temporanea di una palpebra nel periodo critico) e successivamente hanno verificato, in due gruppi di topi entrambi sottoposti ad un allenamento quotidiano su un tapis roulant, se la ricchezza visiva era o meno in grado di influenzare il recupero visivo.
Il primo gruppo di topi venne fatto correre "immerso" in un ambiente visivamente molto ricco e dinamico - creato attraverso simulazioni video - mentre l'altro era tenuto in un ambiente standard.
Le sessioni di tapis roulant erano di 4 ore al giorno per settimane; un allenamento medio usando come riferimento l'attività fisica di un topo in libertà che deve cercare cibo e sfuggire ai predatori.
Durante ciascuna sessione di corsa l'attività cerebrale del topo è stata monitorata mediante tecniche classiche e non invasive come la risonanza magnetica funzionale.
Il primo gruppo di topi venne fatto correre "immerso" in un ambiente visivamente molto ricco e dinamico - creato attraverso simulazioni video - mentre l'altro era tenuto in un ambiente standard.
Le sessioni di tapis roulant erano di 4 ore al giorno per settimane; un allenamento medio usando come riferimento l'attività fisica di un topo in libertà che deve cercare cibo e sfuggire ai predatori.
Durante ciascuna sessione di corsa l'attività cerebrale del topo è stata monitorata mediante tecniche classiche e non invasive come la risonanza magnetica funzionale.
Ad una settimana dall'inizio dei test i topi hanno cominciato a mostrare una maggiore reattività agli stimoli visivi nella zona corticale a cui afferiscono i segnali provenienti dall'occhio a ridotta funzionalità. Dopo due settimane, l'attività corticale era paragonabile a quella dell'occhio sano. Al contrario i topi del gruppo di controllo (corsa in ambiente standard) hanno mostrato miglioramenti nettamente inferiori.
Il dato più importante è che nessuno tra gli stimoli usati (corsa e ambiente ricco) preso singolarmente aveva alcun effetto significativo; inoltre solo stimoli visivi ricchi ma non caotici erano in grado di produrre tali miglioramenti nei topi corridori.
Rimane ovviamente da capire se e quanto questo processo di recupero sia applicabile alla neurofisiologia umana e in quali condizioni. Test che senza dubbio inizieranno molto presto.
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Fonte
- Running cures blind mice
Nature/news (2014)
- Sensory experience during locomotion promotes recovery of function in adult visual cortex.
& eLife 3, e02798 (2014)
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