Un paese di poeti, santi, navigatori e ... con il motto "aiutati che il ciel t'aiuta".
Sebbene sia innegabile il vezzo italico di denigrarsi (cosa che credo non abbia uguali in altri paesi più propensi invece all'autoincensamento), dall'estero non si tirano mai indietro quando c'è l'occasione per rinfacciarci le nostre (spesso presunte) mancanze, come ben ci ricordano le copertine dei settimanali tedeschi e inglesi, o il commento di qualche Eurocrate e ministro nordico.
Anche in ambito scientifico ci troviamo spesso esposti agli strali sarcastici esteri. Che poi questa stigmatizzazione sia ingenerosa considerando il rigore procedurale e l'integrità professionale di tanti (anzi della maggioranza) di noi, poco importa. Bisogna infatti riconoscere che si tratta spesso di accuse innescate da fatti acclarati come quando qualche giudice decise di portare a processo i sismologi che non avevano previsto il terremoto (sic! , --> "Scienza e giudici"), la credibilità data al metodo (!?) Stamina e Di Bella o la situazione di alcune facoltà del sud dove gran parte dei docenti è imparentato.
Su quest'ultimo punto in particolare c'è ben poco da dire, essendo figlio illegittimo di una riforma del dopoguerra nata con i migliori auspici (scegliere i migliori valutandoli in modo imparziale mediante i concorsi, evitando le raccomandazioni) ma naufragata nella logica baronale e di alleanze incrociate. Per accedere ad una qualunque posizione nell'apparato pubblico (scuole, università, ospedali e CNR ricadono in questo calderone) o più recentemente ai bandi per ottenere finanziamenti per la ricerca bisogna presentare titoli e produttività. Anche i finanziamenti privati valutano gli stessi parametri ma sono in genere più efficienti (chi paga vuole sapere a chi vanno i soldi e cosa ne farà), quelli pubblici rientrano in una zona di penombra dove la valutazione del merito si accompagna al "a chi fai riferimento" (dato che traspare dall'istituto di appartenenza e dalle persone con cui hai pubblicato).
In società meno gerontocentriche della nostra dove conta in primis il progetto e chi lo presenta (cioè il CV) il metodo funziona. I finanziamenti pubblici chiesti da giovani ricercatori verranno valutati in modo imparziale; da noi invece tutto tende a passare dal prof ordinario di turno (in genere over-60) che con la scusa di fare da volano per i finanziamenti - senza un nome noto referenti non si passa alla prima selezione - si pone come riferimento istituzionale tarpando le ali ai giovani ricercatori. In cambio pretende l'ultimo nome negli articoli - posizione che indica la "mente" del progetto. Ne deriva un effetto a cascata che riduce il numero di pubblicazioni utili ai giovani ricercatori (i nomi che contano sull'articolo sono i primi due e l'ultimo) e con essi la possibilità di accedere a finanziamenti europei "pesati" sugli articoli pubblicati.
In società meno gerontocentriche della nostra dove conta in primis il progetto e chi lo presenta (cioè il CV) il metodo funziona. I finanziamenti pubblici chiesti da giovani ricercatori verranno valutati in modo imparziale; da noi invece tutto tende a passare dal prof ordinario di turno (in genere over-60) che con la scusa di fare da volano per i finanziamenti - senza un nome noto referenti non si passa alla prima selezione - si pone come riferimento istituzionale tarpando le ali ai giovani ricercatori. In cambio pretende l'ultimo nome negli articoli - posizione che indica la "mente" del progetto. Ne deriva un effetto a cascata che riduce il numero di pubblicazioni utili ai giovani ricercatori (i nomi che contano sull'articolo sono i primi due e l'ultimo) e con essi la possibilità di accedere a finanziamenti europei "pesati" sugli articoli pubblicati.
La capacità di un ricercatore di produrre risultati "utili" viene stimata, oltre al mero numero di pubblicazioni, da un altro parametro cioè il numero di volte che quel dato articolo è stato citato da altri lavori, un indice della importanza e affidabilità dei dati prodotti.
Un sistema non perfetto ma che altrove funziona.
Non da noi, o meglio non così bene da noi, a causa sia di una minore produttività generale (conseguenza a sua volta, anche ma non solo, di minori fondi) che del minore spazio dato ai giovani ricercatori, quelli in teoria più innovatori. Come spesso avviene entra qui in gioco l'italica tattica "fatta la legge, trovato l'inganno" che in questo caso consiste nell'aumentare occultamente il peso bibliografico della citazioni dei propri lavori o di quelli di colleghi che poi ricambieranno il favore, agendo sulla bibliografia a supporto del progetto. Insomma, una bella pompatina in classifica per i propri lavori, che appaiono più citati di quanto dovrebbero.
Sebbene citare i propri lavori sia corretto per segnare l'evoluzione di una ricerca o qualora sia tra i maggiori esperti del campo, fare una selezione "interessata" di quali articoli usare a conferma delle proprie affermazioni non è una pratica corretta.Questa tendenza non è sfuggita ad alcuni analisti, italiani e questo è un merito, che hanno pubblicato un report sull'abuso delle autocitazioni finalizzato all'avanzamento di carriera.
In sintesi, i ricercatori italiani si posizionano ai primi posti (specialmente nelle discipline economiche e manageriali ma anche in genetica e psicologia) nell'utilizzo delle autocitazioni, in particolare quando si tratta di preparare la documentazione per i concorsi in ambito accademico. L'analisi ha preso in esame i lavori di 886 accademici italiani a partire dal 2002 evidenziando un aumento consistente del ricorso a questa pratica a partire dal 2010. La data non è casuale. Nel 2010 è entrata in vigore la riforma con cui si cercava di risolvere i problemi del passato (il pubblicare su riviste a basso impact factor per aumentare il numero di articoli) introducendo un indice calcolato sul numero di citazioni dei lavori (H-index).
Non si tratta di incrementi di poco conto. In alcune discipline il numero di autocitazioni è aumentato del 179 %. Altro problema contingente è l'aumento del numero di autori (o meglio co-autori) che se totalmente giustificato in molti casi (cooperazione tra molti gruppi di ricerca) è altre volte motivato dalla necessità di fare pubblicare le persone.
Insomma, ad ogni tentativo di migliorare il sistema si scoprono nuove vulnerabilità e con esse aumenta la sfiducia di chi decide che forse è meglio lasciare perdere ed andarsene.
Ma c'è di peggio. In Corea del Sud il governo ha aperto un'indagine sul fenomeno dei ricercatori che hanno inserito il nome dei loro figli come co-autori negli articoli pubblicati. Bene precisare che si tratta di ragazzi/e in età scolare e non di personale professionale. In alcuni casi gli studenti hanno lavorato agli esperimenti in corso come "manovalanza" con la scusa di progetti scolastici, mentre in altri casi il loro nome è stato inserito per dare loro un vantaggio nelle temibilissime prove di accesso universitario (altro che le lagne del numero chiuso da noi) a cui gli studenti si preparano fin dall'asilo con test di ammissione alla scuola (elementare, media, superiore) sempre più selettiva.
Fonte
- Self-citations as strategic response to the use of metrics for career decisions
M. Seeber et al, (2017) Research Policy
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