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Paracetamolo e deficit di attenzione

L'azione analgesica del paracetamolo è nota da più di un secolo e questo ne fa un ottimo sostituto (parziale) per coloro che hanno problemi con il salicilato e simili. Ho scritto "parziale" in quanto il paracetamolo ha uno spettro di azione più ristretto rispetto all'aspirina che è sia antipiretica, antinfiammatoria, antiaggregante e antidolorifica.
 
Un recente studio dell'università di Toronto ci informa ora che il paracetamolo potrebbe rendere più difficile al cervello "rilevare gli errori commessi"
La ricerca pubblicata sulla rivista "Social Cognitive and Affective Neuroscience" va oltre la sua nota azione analgesica per approfondire alcuni indizi che mostravano una diminuita capacità del soggetto trattato di fare valutazioni corrette (in pratica una minore reattività a situazioni di incertezza).

Per testare quanto ci fosse di vero (o meglio di statisticamente rilevante) i ricercatori hanno diviso i partecipanti allo studio in due gruppi di 30, di cui il primo ha ricevuto una pastiglia con la dose massima di paracetamolo (ma all'interno di valori standard) mentre il secondo un placebo. 
Il test che è seguito era un classico "vedi e rispondi", in cui a seconda del simbolo che compariva sullo schermo bisognava schiacciare o meno il pulsante di risposta: nello specifico se compariva una "F" lampeggiante si doveva premere il pulsante mentre se compariva una "E" non si doveva fare nulla.
A completare il test, il monitoraggio dell'attività cerebrale di ciascun partecipante mediante un classico EEG; scopo ultimo misurare l'attivazione dei circuiti che seguono immediatamente una nostra azione automatica e che ci dicono "hai sbagliato" (segnale ERN) o "hai dato la risposta corretta" (segnale Pe).
I dati raccolti indicano che le persone che avevano assunto paracetamolo erano meno "abili" nell'accorgersi di avere commesso un errore
Non si tratta di un aspetto secondario.
Nella vita di tutti i giorni siamo bombardati di segnali di feedback che ci informano se ci sono discrepanze tra una risposta "corretta" ed una errata. Questo vale per qualunque attività sia di tipo cognitivo che "semiautomatica" come quando camminiamo. Immaginiamo la classica situazione di noi che attraversiamo la strada mentre parliamo con qualcuno e nello stesso tempo eseguiamo in automatico (e in modo subcosciente) la scansione della carreggiata; nel momento in cui compare nel nostro campo visivo una macchina inattesa la conversazione viene bloccata in automatico e tutti i riflessi si focalizzano su di essa e sulla reazione ("non attraversare" o "corri").
Da qui l'importanza di approfondire l'effetto del paracetamolo sulla nostra capacità di risposta e se sia il caso di assumerlo con cautela quando si è in procinto di guidare (come avviene con gli antistaminici a causa del loro indurre sonnolenza).
(prossimo articolo sul tema --> qui)

Fonte
- From Painkiller to Empathy Killer: Acetaminophen (Paracetamol) Reduces Empathy for Pain
   Dominik Mischkowski et al (2016)  Soc Cogn Affect Neurosci

- Acetaminophen attenuates error evaluation in cortex
Daniel Randles et al, (2016) Social Cognitive and Affective Neuroscience

-   This popular painkiller may hamper your ability to notice errors, U of T researchers say
   University of Toronto, news


Essere figli di padri giovani è "geneticamente" rischioso?

I figli di padri adolescenti sono più a rischio mutazioni di quelli concepiti da (padri) adulti?

L'essenza del pensiero scientifico si manifesta anche nel valutare articoli (ovviamente pubblicati su riviste serie) che vanno contro le idee acquisite; un processo che incentiva a ripensare la tematica affrontata, spingendo a rivedere i dati precedenti.
Finora nessuno (dal genetista al semplice curioso di scienza) avrebbe mai avuto molto da ridire circa il fatto che le cellule germinali di un adolescente sono meno "alterate" rispetto a quelle di un adulto. E non mi riferisco soltanto alla migliore efficienza riproduttiva legata al migliore stato fisiologico di un giovane in piena salute rispetto al cinquantenne medio. Parlo di "alterazioni" in senso letterale, cioè dell'informazione genetica, quindi di mutazioni.
Le cellule germinali aploidi derivano da una serie di divisioni cellulari a carico di cellule progenitrici diploidi che culminano nel processo meiotico da cui emergeranno le cellule mature (oociti o spermatozoi).
Il processo di maturazione degli spermatozoi
nei testicoli
1
lamina basale, 2 spermatogonia, 3/4 spermatociti di 1° e
2° ordine, 5/6 spermatidi e spermatozoi maturi, 7 Cellule
del Sertoli,
8 tight junction (barriera sangue-testicoli)
Maschi e femmine (limitiamoci per semplicità ai mammiferi) producono durante la loro vita riproduttiva, un numero di cellule molto diverso. Il numero di cellule germinali prodotte dai maschi ha dell'incredibile: tra 40 e 200 milioni di cellule al giorno per tutta la durata della vita adulta (alias sessualmente matura); le femmine sono più parsimoniose e nel caso della specie umana gli oociti che giungono a maturazione sono (in media) uno ogni mese (per chi volesse approfondire l'argomento --> spermatogenesi e oogenesi).

Limitiamoci qui al maschio, che è il tema centrale dell'articolo a cui faccio riferimento.
Da quanto scritto prima è chiaro che per mantenere costante il numero di spermatogoni e alimentare la linea differenziativa che attraverso gli spermatociti porterà agli spermatozoi (durante la quale non avvengono più divisioni mitotiche) è necessaria una continua divisione cellulare delle cellule "sorgente". Una divisione che deve al tempo stesso mantenere costante il numero di cellule indifferenziate e assicurare il costante rifornimento di cellule germinali mature.

Il lungo viaggio della gametogenesi maschile (credit: unsw.edu.au)
Tanto più sono le divisioni cellulari, tanto maggiore è il lavoro di duplicazione del DNA e di rimando la probabilità che vi sarà un errore di copiatura del DNA, cioè la mutazione.
Le mutazioni sono il risultato congiunto di errori di copiatura del DNA durante la divisione cellulare e di alterazioni chimiche causate sia da agenti ambientali standard (radiazioni, ossigeno, radicali liberi, etc) che dal normale metabolismo cellulare. La riparazione dei danni del DNA è un processo generalmente molto efficiente e ridondante (esistono cioè meccanismi diversi che si occupano di scoprire e correggere i danni in tutte le fasi del ciclo cellulare) ma la forza dei numeri (numero di cellule, numero di divisioni, entità dello stress ambientale, etc) fa si che ci sia sempre qualche alterazione che sfugge al controllo di qualità, fissandosi così nel genoma. Se la mutazione avviene in una cellula germinale il rischio associato alla mutazione può essere trasmessa alle generazioni successive.
Da questo concetto lineare deriva che le cellule germinali di un adolescente maschio dovrebbero essere meno alterate di quelle di un adulto. Ovvio, no? Un dato che trova riscontri nella realtà con il fatto che la prole di maschi anziani ha una maggiore incidenza di alcune patologie.
Eppure …
... una ricerca pubblicata su "Proceedings of the Royal Society B" rivela che gli spermatozoi degli adolescenti hanno un tasso di mutazione 6 volte superiore a quello delle ragazze (e fin qui ok, dato che il carico mitotico è diverso) ma anche superiore a quello dei ventenni e paragonabile a quello dei loro padri.
Da questo semplice sillogismo deriva che la progenie di padri adolescenti è più a rischio mutazione di quella di padri adulti e questo potrebbe spiegare alcune frequenze anomale di malattie con base genetica (ma non necessariamente familiare, quindi alterazioni ex novo) come l'autismo, la schizofrenia e la spina bifida (in quest'ultimo caso l'acido folico è un fondamentale strumento preventivo - ma non assoluto - specifico per i deficit nutrizionali e non genetici).
I ricercatori hanno dimostrato che all'inizio della fase puberale il carico replicativo delle cellule germinali maschili è maggiore di quanto finora stimato: 150 divisioni cellulari (invece delle 30 attese) contro le 22 di quelle nella femmina.
Anche qui la conclusione che emerge è ovvia, cioè il maschio adolescente è di per sé più a rischio  (per il numero di mutazioni potenzialmente trasmessibili allo zigote) di quanto lo sia la madre adolescente. Un rischio maggiore derivante dal maggior carico mitotico delle cellule progenitrici.

E' necessario tuttavia pesare l'impatto che una mutazione ha sulla fitness della cellula germinale alterata, diverso nei maschi e nelle femmine. Le cellule maschili sono sottoposte ad una maggiore pressione selettiva nelle fasi immediatamente precedenti la fecondazione di un oocita. Una vera e propria "corsa ad ostacoli" che di fatto screma gran parte delle mutazioni dannose per la fisiologia cellulare (o semplicemente che rendono la cellula meno performante).
Pur tenendo in considerazione questo aspetto, se si misura il tasso di mutazione nelle cellule maschili (6 volte superiore) e lo si somma al maggior numero di divisioni cellulari allora il fattore rischio torna a pendere verso il maschio.
Dato che non parliamo "solo" di numero complessivo di mutazioni ma di tasso di mutazione, la domanda chiave è per quale motivo  il tasso sia maggiore nei maschi adolescenti è ignoto. Al momento ci sono solo ipotesi, tra cui quella che forse il numero di divisioni cellulari maschili è maggiore di quanto stimato (e questo modifica la stima del tasso reale) oppure che i meccanismi di correzione degli di errori di copiatura sia per qualche motivo meno efficiente durante la pubertà.
Qualunque sia la ragione, il dato che emerge è che le cellule spermatiche degli adolescenti hanno frequenze di mutazione superiori del 30% a quelle dei ventenni, paragonabili a quelle di uomini intorno ai quarant'anni. 

Lo studio, condotto su oltre 24 mila soggetti tra genitori e figli (ovviamente biologici) di diversa origine geografica ed età, ha monitorato la comparsa di mutazioni in regioni del DNA note come microsatelliti, sequenze ripetitive di DNA che non essendo codificanti non sono soggette ad una selezione funzionale della cellula e quindi mostrano il dato grezzo del tasso di mutazione.

E' importante sottolineare che l'aumentata frequenza di mutazioni NON si traduce linearmente in una aumentato fattore di rischio, dato che per essere potenzialmente rischiosa la mutazione deve colpire regioni importanti del gene (codificanti o regolatorie).

In conclusione la stima del rischio per la progenie di un padre adolescente è circa il 2% contro l'1,5% di un ventenne.

Come bonus dell'articolo un bel video (200 frame al secondo) che mostra il movimento di uno spermatozoo all'interno di un struttura che mima l'apparato genitale femminile. Solo le cellule spermatiche migliori riescono ad arrivare alla metà. Un esempio della selezione che elimina molte delle cellule mutate.

Credit: "Female reproductive tract assists swimming sperm" - Cornell University
(In caso di problemi di visualizzazione del video cliccate su http://www.cornell.edu/video/sperm-swim-microfluidic-device-mimics-female-reproductive-tract)



Il campo di studio è tuttavia lungi dall'essere compreso nei dettagli a causa del numero di variabili coinvolte. Lo dimostra uno studio condotto dalla Georgetown University in cui vengono sottolineati i fattori di rischio associati ad un padre "maturo"; ne parlerò più dettaglio nel prossimo articolo.

(articolo successivo sul tema  ––> "mutazioni, spermatogenesi e età del maschio"

Fonte
- Elevated germline mutation rate in teenage fathers
 Peter Forster et al, (2015) Proceedings of the Royal Society B


Megalodonte. La scomparsa del mega squalo fu causata da predatori più abili e non da eventi ambientali

Dimenticatevi gli squali di Spielberg o quelli dei film della Asylum, la casa di produzione famosa per film del filone popcorn-catastrofista ricca di effetti speciali low cost e con trame (!?!) che definire trash è già un complimento (il più famoso è sicuramente Sharknado). La natura (e le discipline che indagano il suo mutare) offre spunti ben più interessanti alla persona curiosa, in quanto decisamente reali  sebbene apparentemente "incredibili".
Limitandoci al filone "squali che non vorremmo incontrare" come non citare allora il fortunatamente per noi estinto Carcharocles megalodon, lungo circa 18 metri (tre volte lo squalo bianco) ed egualmente feroce (a giudicare dalla dentatura). 
Vedi anche il sito prehistoric-wildlife.com
Il megalodonte visse tra i 23 e 2,6 milioni di anni fa per poi scomparire senza una ragione evidente; un mistero questo dato che nel periodo non si sono verificate estinzioni di ampia portata tale da spiegare il perché una specie sopravvissuta per 20 milioni di anni sia "improvvisamente" diventata inadatta.
Nota. Dalla comparsa dei primi resti fossili (il Fanerozoico, l'eone in cui viviamo, comprende gli ultimi 540 milioni di anni) si contano cinque estinzioni di massa (70-90% delle specie estinte) più una serie di eventi "minori". Secondo molti ricercatori l'era in cui viviamo, Olocene, è concomitante alla sesta estinzione di massa, attribuibile questa volta all'azione umana.  (per ulteriori info vedi --> Olocene, --> estinzioni di massa)
L'ipotesi comunemente accettata è che  l'animale non abbia saputo adattarsi alla variazione delle condizioni climatiche iniziate nel pliocene e culminate con le glaciazioni dell'era quaternaria (--> qui). A mettere in discussione questo assunto arriva ora lo studio condotto da ricercatori dell'università di Zurigo che correla il declino del megasqualo non a variazioni climatiche ma alla perdita di competitività a causa della comparsa nella stessa nicchia ecologica di specie più efficienti, vale a dire di predatori capaci di "rubargli" il cibo (e magari anche in alcune situazioni di diventare pericoli diretti).
Denti fossili di megalodonti, alcuni dei quali lunghi fino a 18 cm!!! (credit: Pimiento C et al)

Lo studio ha preso in esame circa 200 resti fossili di megalodonte provenienti da diverse parti del mondo usandole per "mappare" le variazioni occorse (sia come caratteristiche fisiche che nella diffusione) nell'arco di 20 milioni di anni. Se nel Miocene inferiore (tra 20 e 16 milioni di anni fa) i megalodonti popolavano principalmente le acque calde epicontinentali dell'emisfero settentrionale, nella fase di maggior diffusione arrivarono fino alle coste australiane e del Sudamerica.

La Terra ai tempi del Miocene e la diffusione del megalodonte. I continenti sono quasi nelle posizioni odierne. Da notare la separazione tra le due americhe  che fungeva da via di passaggio di molte specie marine e la maggiore apertura dell'area mediterranea. (Clicca QUI per la versione ingrandita) Credit: Catalina Pimiento et al, UZH
I dati sulla diffusione di questi giganti non sembrano indicare alcuna sostanziale variazione nella densità di popolazione anche nei periodi più freddi (che, è bene ricordarlo, non raggiunsero MAI le intensità della Snowball Earth del Neoproterozoico e che causo la quasi totale estinzione della vita sulla Terra); al contrario la loro popolazione si espanse anche a cavallo dei periodi freddi, in disaccordo quindi con l'ipotesi climatica.
Al contrario i ricercatori hanno notato una curiosa correlazione tra la densità di popolazione dei megasquali e quella di altre specie acquatiche di taglia piccola: al diminuire del numero di megalodonti si osserva anche una riduzione dei mammiferi marini di taglia inferiore. Il che potrebbe sembrare controintuitivo a meno di considerare che questi mammiferi non fossero il cibo preferito del megadonte ma che questo ci cibasse preferenzialmente di animali di taglia maggiore, tra cui (ma non solo) dei veri predatori dei piccoli mammiferi acquatici. Altra possibilità è che la comparsa di un qualche altro predatore più efficiente del megalodonte gli abbia "sottratto" il cibo.
In effetti, in concomitanza con la riduzione del numero di megalodonti si ha l'aumento delle orche (Orcinus orca) e del grande squalo bianco (Carcharodon carcharias). Due specie in grado di predare (e predarsi) nella stessa nicchia ecologica del megalodonte.
L'aumento della competizione e la probabile (anche se temporanea in un ciclo ecologico in equilibrio) forte riduzione delle prede in comune tra questi tre predatori avrebbe indubbiamente favorito gli animali più agili e con un fabbisogno energetico inferiore; la condanna all'estinzione del megasqualo.
Forse la stessa cosa è avvenuta per il Sarcosuchus imperator, il coccodrillo gigante vissuto al tempo dei dinosauri che con i suoi 10 metri di lunghezza era di sicuro un animale da evitare.
La classe dei chondrichthyans (pesci cartilaginei) presenta tracce fossili molto lontane nel tempo


Per articoli tematicamente correlati --> Cammelli giganti a nord del circolo polare , --> "animali da favola (o incubo) durante l'esplosione precambriana" oppure clicca il tag --> paleobiologia s

Fonte
- Prey scarcity and competition led to extinction of ancient monster shark
 University of Zurich / news

- Geographical distribution patterns of Carcharocles megalodon over time reveal clues about extinction mechanisms
C. Pimiento et al, (2016) Journal of Biogeography. doi: 10.1111/jbi.12754


Gatti e umani. Uno studio per capire se e quanto conta la lingua locale

Capite cosa vi sta dicendo il gatto? E lui vi capisce?

Una domanda non banale in effetti, sia che voi apparteniate alla tribù panteista che vede il mondo biologico pervaso da un'anima cosciente o che siate dei meccanicisti senza se e senza ma come me che vedono nella biologia l'unica chiave di lettura del vivente.
Chi ama gli animali (ma anche la biologia) non dovrebbe prescindere dal rifuggire ogni tentativo di umanizzarli. "Dovrebbe", il condizionale è d'obbligo, visto che siamo circondati da migliaia di poveri animali domestici in piena confusione identitaria essendo stati cresciuti come "umani poco dotati" con cui ci arrabbia quando si comportano da ... cane/gatto.
Ma del resto è più facile attribuire loro caratteristiche che di fatto NON possono avere (per ragioni neuroanatomiche, una su tutte la struttura corticale) rispetto ad accettarli così come sono.
Capire il comportamento di animali con cui condividiamo gli spazi domestici è condizione essenziale per evitare a loro di vivere in condizioni stressanti in quanto innaturali e a noi di comportarci in modo illogico ... come fa la mia vicina che ogni sacrosanta mattina alle 4 intesse una discussione con la sua gatta per convincerla a dormire. Se la gatta potesse parlare le avrebbe risposto stizzita che 1) i felini sono animali notturni e quindi se ne tornasse a dormire con un valium e  2) che è inutile formulare discorsi complessi (inutili in quanto "confusi" nel senso tonale) quando basta un comando di 1-2 parole e tono corretto che l'animale abbia imparato ad associare ad una azione (--> leggi articolo precedente QUI).

Sul tema voglio segnalare la ricerca appena iniziata all'università di Lund in Svezia dal titolo esplicativo "Melodia nella comunicazione umani-gatti". Lo studio condotto da Susanne Schötz si è posto l'obbiettivo di scoprire fino a che punto la risposta dei gatti domestici è influenzata dalla lingua o dialetto che gli esseri umani usano per comunicare con loro e cercare conferme al dato che anche le risposte dei felini sono "dialettali".
Lo studio effettuerà una dettagliata analisi fonetica di gatti provenienti da Lund e Stoccolma, due aree dialettali diverse. Ciascun gruppo utilizzerà i vocalizzi di una cinquantina di gatti captati nelle più diverse situazioni sociali, ad esempio quando vogliono avere accesso alla loro zona, sono amichevoli, felici, affamati, infastiditi o irritati, pesando poi i risultati per la tipologia tonale dei loro coinquilini umani.
Il progetto della durata di cinque anni si concluderà nel 2021.

I gatti sono molto popolari come animali domestici, e sono sempre più utilizzati insieme ai cani come adiuvanti nella terapia dei lungo degenti di tutte le età, sia negli ospedali che nelle case di riposo. Questa la ragione che ha spinto i pragmatici scandinavi a porsi la domanda se non fosse il caso di ottimizzare questa utile interazione facilitando la comprensione reciproca; troppo spesso le reazioni violente di animali da compagnia sono innescate da umani ignari che non riescono a cogliere il disagio di un animale e il suo invito "non provare a toccarmi!"
Un esempio concreto di questa incomprensione è l'abitudine umana di abbracciare i cani, cosa per loro molto fastidiosa visto che nella "socialità canina" la cosa più simile ad un abbraccio è l'attitudine del capo-branco di mettere schiena a terra i sottoposti impedendo loro di muoversi. Capite quindi la sensazione di impotenza che un cane sperimenta quando viene abbracciato.

A differenza dei cani il processo di domesticazione dei gatti è iniziato più tardi (circa 10 mila anni fa) e non ha raggiunto un pari livello di integrazione, anche a causa della differente struttura sociale degli antenati selvatici. Nonostante tutto i gatti hanno imparato a comunicare con gli esseri umani sia mediante interazioni visive che vocali. Alcune razze, come i siamesi e i brimani sono più loquaci rispetto ad altri, ad indicare che nel processo di adattamento e di selezione delle razze si è avuta la sedimentazione di alcuni tratti "utili" per la comunicazione.
Come ben dimostrano gli studi sull'evoluzione genetica dei cani e gli esperimenti di domesticazione accelerata su lupi e volpi (questi ultimi fatti da Dmitry Konstantinovich Belyaev), il processo porta alla selezione di adulti con caratteri infantili, osservabili nella maggiore "dipendenza" dalla figura di riferimento. Di fatto i cani domestici accentuano i comportamenti dei lupi selvatici in posizione gerarchica medio o bassa (omega); se i primi sono soliti leccare il muso dei "superiori" (un comportamento che noi equivochiamo come baci) e tengono testa, coda e orecchie più basse dei capi, il lupo omega è quello che, non avendo alcuna voce in capitolo, promuove il momento del gioco e seda gli animi in caso di conflitti. In pratica il cane domestico.
Il miagolare è di fatto un segno del processo di domesticazione ed adattamento ambientale (non troppo diverso dall'uggiolare dei cani) dato che i gatti selvatici e i felini in genere non miagolano dopo che sono diventati adulti e la loro madre li ha espulsi dalla sua "sfera di influenza". I gatti domestici invece continuano imperterriti a miagolare e questo è il loro modo per comunicare o catturare l'attenzione degli esseri umani dai quali ricevono la fonte di sostentamento anche quando vivono in "semilibertà".
Manca tuttavia una comprensione totale del repertorio vocale dei gatti e delle differenze tonali adattatesi nei diversi contesti linguistici. Come nel caso dei cani, i gatti non "capiscono" il senso di una parola ma imparano ad associarla (in media 160 parole con un record di circa 1000 in un border collie) ad una azione; più che semantica è la prosodia (tono) a comunicare il senso di un richiamo. Questo spiega per quale motivo la lingua (e quindi la tonalità e vocalizzazione) usata dagli umani nel loro interagire con i gatti sia un aspetto che merita di essere meglio compreso.
Lo studio ci permetterà magari anche di capire se i gatti preferiscono più il parlare infantile che usano gli umani con i loro coinquilini o un linguaggio adulto ma conciso.
Tra qualche anno, quando lo studio svedese sarà terminato, avremo forse delle risposte più precise su queste tematiche. 

L'autrice dello studio spiega la sua ricerca


***
Confesso che pur essendo un amante degli animali ho sempre trovato alquanto illogico voler vedere in organismi diversi da noi delle peculiarità tipiche del genere Homo; peculiarità, per inciso, la cui presenza nei nostri cugini Neanderthal è ancora oggi oggetto di discussione pur essendo evolutivamente i nostri parenti più prossimi (e di sicuro più prossimi rispetto ai primati oggi viventi). L'attitudine antropizzante è in effetti "offensiva" nei confronti degli altri animali in quanto frutto di una visione antropocentrica che non ha ragione biologica alcuna. Negare ad un cane/gatto la sua vita (e bisogni) naturali è quanto di più "innaturale" possiamo fare.  Un errore comune è quello di autocollocarci in cima alla piramide evolutiva; una piramide che in biologia non esiste (--> questa immagine mostra come va costruito un albero evolutivo). Non siamo gli organismi evolutivamente migliori in quanto in biologia tale accezione ha senso solo nel contesto di miglior adattamento all'ambiente. Ben più adatti di noi sono gli squali rimasti sostanzialmente identici per centinaia di milioni di anni, capaci di superare "indenni" le ultime due estinzioni di massa mentre noi, in soli 50 mila anni dalla comparsa del sapiens, abbiamo corso il rischio di annientarci con armi di potenza inusitata e stiamo modificando l'ambiente rendendolo sempre più inospitale.


Articoli simili cliccando sul tag --> "animali".
Se invece siete più interessati all'evoluzione umana vi suggerisco la lettura di articoli precedenti su questo blog (ad es -->"Grande cervello= grande potenza?" o cliccando sui tag --> "antropologia evolutva" e "antropologia")


Fonte
- Do you understand what your cat is saying? 
   Lund University, news

- Does your cat speak a dialect?
   Linköping University, news

- Melody in human–cat communication (sito web dello studio)
  http://vr.humlab.lu.se/projects/meowsic/

Stimolazione transcranica per combattere l'anoressia

L'anoressia è una disfunzione di tipo neurologico che getta le sue basi, spesso, con la banale decisione di perdere i chili di troppo (veri o presunti che siano) ma che può degenerare in disturbi comportamentali fobici nei confronti del cibo in generale insieme alla dissociazione percettiva tra la realtà della propria forma fisica e quella "vista" allo specchio; in altre parole il soggetto anche quando chiaramente sottopeso vedrà una immagine distorta di sé come se si osservasse attraverso uno specchio deformato.
Il fatto che sui milioni di persone attenti alla dieta vi sia solo una percentuale decimale di soggetti affetti da un disturbo alimentare compulsivo, è indice che non si tratta solo della conseguenza di una moda ma che ci sono soggetti più a rischio di altri (per età, cultura, sesso e condizione psicologica) di ammalarsi. Le fasce più a rischio sono le ragazze tra i 15 e 25 anni, a causa sia dei cambiamenti fisiologici del corpo durante l'adolescenza che delle aspettative (proprie o altrui) di conformità ad uno standard creato dai media.
Il percorso di recupero non è breve né esiste un approccio universalmente valido. Perché abbia successo è necessaria sia la collaborazione fattiva del malato che un approccio multidisciplinare gestito da professionisti diversi tra cui psicologi, nutrizionisti e medici; gli approcci fai da te sono fortemente sconsigliati per il semplice motivo che l'anoressia è una malattia e non un "capriccio" e come tale va trattata in modo clinico.
Il tasso di mortalità "prematuro" riconducibile alle disfunzioni organiche indotte dall'anoressia è superiore al 20 per cento. Un numero che però sottostima le complicanze di lunga durata (sia mediche che sociali) che l'anoressia inevitabilmente produce; dall'osteoporosi ai danni a denti e gengive, dall'interruzione del ciclo agli scompensi cardiaci fino alla estesa gamma dei problemi sociali e, perché no, di efficienza sul lavoro o nello studio.

Un aiuto alla terapia comportamentale potrebbe venire dalla modulazione di specifici circuiti cerebrali in modo assolutamente non-invasivo, grazie alla stimolazione magnetica transcranica (TMS). Il metodo in sé è stato approvato dalla FDA americana in diverse situazioni in cui la chimica farmaceutica o altri approcci non si siano dimostrati risolutivi. Il concetto è semplice e si basa sulla capacità di un campo magnetico di indurre una corrente elettrica locale; dato che i circuiti neuronali si basano sulla trasduzione del segnale con un susseguirsi di chimica (neurotrasmettitori) e corrente elettrica (potenziali di azione), la possibilità di fare un reset o di rimodulare circuiti neurali con attività anomala è apparsa da subito come un approccio molto interessante in disturbi neurologici resistenti ai trattamenti chimici (ad esempio la depressione).
Il metodo è assolutamente non invasivo. Attorno alla testa del paziente viene posta una bobina di ceramica all'interno della quale viene fatta circolare della corrente che crea un campo magnetico il quale influenzerà l'attività elettrica dei neuroni bersaglio. Il trattamento dura in genere 10' e il paziente non percepirà nulla, se non in alcuni casi un arrossamento della cute. Il numero di sedute complessive è variabile (7-10 nel caso della depressione resistente ai farmaci). L'accuratezza della zona trattata viene facilitata dal monitoraggio mediante risonanza magnetica. Diversa cosa è la stimolazione cerebrale profonda (elettrica) che necessita di posizionare un elettrodo all'interno del cervello, condizione questa necessaria in quelle patologie in cui le regioni coinvolte sono troppo in profondità (esempio di utilizzo --> Parkinson)
 I potenziali vantaggi della TMS nel trattamento dell'anoressia nervosa sono stati illustrati in un articolo pubblicato sulla rivista PLoS ONE da un gruppo del King's College di Londra. Si tratta del primo studio randomizzato per valutare i rischi-benefici della TMS nella terapia dell'anoressia.
La zona bersaglio della stimolazione è la corteccia prefrontale dorsolaterale, l'area alla base della pianificazione e organizzazione dei comportamenti complessi e delle capacità cognitive superiori.

I risultati mostrano che una singola sessione di TMS induce un rilassamento della "urgenza" di limitare l'assunzione di cibo e un minor senso di sazietà, della percezione di "grassezza" e delle fobie correlate, facilitando nel contempo un processo decisionale "logico" che incoraggia la paziente a continuare le terapie ricostituenti.
L'effetto "percettivo" è stato testato in due tempi, 20' e 24h dopo il trattamento, esponendo le pazienti a stimoli visivi di cibi appetitosi e chiedendo loro di valutare sia l'aspetto percettivo (sapore, odore e aspetto) che la voglia di mangiarli.
La capacità decisionale è stata anche valutata in senso più esteso monitorando l'intensità dei comportamenti prudenti e di lungo periodo rispetto a quelli di gratificazione istantanea. Anche qui si è osservato che rispetto al placebo le scelte erano spostate verso quella di lungo periodo, ad indicare una maggiore attività del controllo prefrontale.
I risultati sono da considerarsi preliminari in quanto il numero di soggetti testati è troppo basso perché si possa ricavare una statistica affidabile.
E' tuttavia un passo in avanti nello sviluppo di terapie adatte ad una piaga sempre più diffusa nelle ragazze e giovani donne.

Video riassuntivo dello studio (by King's College London)



Fonte
- A Randomised Controlled Trial of Neuronavigated Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) in Anorexia Nervosa 
Jessica McClelland et al,  PLoS ONE, (2016) 23;11(3)

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