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La via tortuosa dei nuovi farmaci contro l'Alzheimer

[Articolo aggiornato e ampliato]
L'innalzamento dell'età media della popolazione pone il problema, tra i tanti legati alla non sostenibilità del welfare e di riduzione del PIL, l'aumento percentuale delle patologie di tipo cognitivo e neurodegenerativo tra cui spicca il morbo di Alzheimer, una delle forme di demenza progressiva e incurabile più note, anche se non necessariamente la più frequente.

Alla domanda crescente di trattamenti, ad oggi solo sintomatici e non terapeutici, la risposta delle aziende farmaceutiche è stata pronta, non fosse altro per l'enorme mercato potenziale che vedrà nei prossimi anni nuovi "clienti" dai popolosi, e sempre più longevi, paesi come Cina e India.

Negli ultimi decenni molti farmaci sviluppati allo scopo si sono persi per strada, nella stragrande maggioranza senza nemmeno essere arrivati alla richiesta di approvazione, per assenza di efficacia. Non si tratta però di fallimenti legati ad una ricerca fatta male ma di limiti intrinseci alle malattie che si vorrebbe curare. Il nostro cervello ha una enorme plasticità neuronale ed è in grado di adattarsi in caso di "corto-circuiti" locali finché non è troppo tardi e questo fa sì che quando il sintomo compare è già troppo tardi.
Un esempio può meglio rendere l'idea: i sintomi legati al morbo di Parkinson compaiono quando oramai più del 80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree chiave del cervello sono morti. Perché una terapia possa funzionare deve avere un substrato su cui agire, cosa assente in questi pazienti in cui, al più si può ambire, ad un trattamento che rallenti la perdita dei neuroni rimanenti ma di sicuro NON ad un miglioramento e tanto meno alla cura.
La sperimentazione clinica per farmaci veramente preventivi dovrebbe avvenire su soggetti pre-sintomatici ma "malati", cosa questa molto difficile ancora oggi. Fino a non molti anni fa anche i soggetti con chiare manifestazioni della malattia ricevevano la diagnosi - nel senso QUALE tipo di demenza fosse la causa - solo dopo il decesso.
Prendiamo il caso del compianto Robin Williams.
I medici, e lui stesso ne era molto consapevole, avevano rilevato una patologia neurodegenerativa in atto e l'ipotesi più probabile era che si trattasse di Parkinson. Solo dopo il suo decesso l'autopsia rivelò la causa nella ben più devastante demenza a corpi di Lewy arrivata ad un punto talmente avanzato che solo l'incredibile plasticità neuronale di un artista improvvisatore come Williams era riuscita a compensare.
Quanto scritto permette di riassumere le cause per cui farmaci che apparivano promettenti nelle prime fasi dello sviluppo naufragano non appena si arriva alla clinica: i soggetti sintomatici hanno danni neuronali troppo avanzati perché sia possibile una cura; anche in caso di diagnosi perfetta del tipo di malattia, le cause sottese sono spesso molteplici a causa della eterogeneità della malattia. In assenza di un campione omogeneo e "curabile" (alias con danni non estesi) di soggetti reclutati durante i test clinici, anche il miglior farmaco non supererebbe i test di efficacia.
A volte si ha la "fortuna" di avere soggetti con la forma familiare della malattia (trasmissione ereditaria) e questo consente di attivare studi clinici su soggetti a rischio (per età e genetica) ma ancora asintomatici. La familiarità è nota in alcune forme di Parkinson e Alzheimer ma si tratta sempre di un numero esiguo rispetto al totale dei pazienti e i risultati ottenuti su questi sono spesso non esportabili su altri pazienti in quanto la eziopatogenesi della malattia può differire nei punti chiave rispetto al mare magnum delle forme sporadiche.
C'è poi un secondo problema, propriamente legato alla eziopatogenesi del morbo di Alzheimer. Tra le caratteristiche istologiche classiche (note da anni) rilevate durante l'autopsia vi è l'accumulo extracellulare di ammassi proteici noti come placche amiloidi che portarono alla formulazione della cosiddetta ipotesi amiloide. In questo contesto il tutto nasce da una anomalia della proteina costituente che per varie ragioni (genetiche o ambientali) assume una conformazione anomale che la predispone alla "precipitazione" formando ammassi non funzionali e tossici. Negli ultimi anni alcuni ricercatori hanno sollevato dubbi, ipotizzando che questo evento sia in realtà un epifenomeno che può contribuire alla malattia ma non la causa prima. In effetti in alcuni casi il declino cognitivo precede la formazione delle placche amiloidi.
Alcune delle ipotesi causali formulate nel tempo sono: Tau; vascolare; variazioni isoprenoidi; infiammatoria; etc.
Per una riassunto delle probabili cause che hanno fatto fallire gli studi clinici di farmaci disegnati in accordo con l'ipotesi amiloide vi rimando ad una review pubblicata nel 2019 sulla rivista Biomedicines. Vedi nota a fondo pagina per altre criticità riguardo questa ipotesi.
Arriviamo dunque ai nuovi farmaci la cui sperimentazione, influenzata dai precedenti fallimenti, potrebbe ricevere un semaforo verde dopo il controverso caso aducanumab prodotto dall'azienda Biogen.
Lo scorso giugno la FDA ha preso una decisione che ha sollevato parecchie controversie tra i ricercatori biomedici. Tutto nasce dall'avere dato il semaforo verde alla procedura accelerata dell'anticorpo aducanumab nonostante il voto negativo quasi unanime da parte di un comitato consultivo indipendente (a cui la FDA non è vincolata ma che rispetta quasi sempre) che riteneva i risultati della sperimentazione clinica troppo deboli e controversi.
Secondo alcuni questa decisione ha il merito di dare una spinta allo sviluppo di nuovi farmaci in un'area terapeutica che fatica a trovare farmaci innovativi, mentre altri vedono questa decisione come una macchia sull'integrità della FDA più prona ai desiderata di Big Pharma che al rigore scientifico, e come tale un ostacolo al progresso. La FDA ha concesso l'approvazione temporanea a patto che Biogen conducesse uno studio di conferma (non ancora partito), i cui risultati dovranno essere presentati entro i prossimi 9 anni. Tempo troppo alto secondo molti anche considerando il costo del trattamento per chi volesse usufruirne ora. 
Altro problema che l'applicazione di queste nuove linee guida comporta è l'esposizione dei soggetti trattati agli effetti collaterali (intrinseci in qualunque farmaco) per poche o nessuna possibilità di beneficio. Tra questi il rischio di "gonfiore cerebrale" pur asintomatico nelle conseguenze ma che impone scansioni cerebrali periodiche (costo aggiuntivo) per monitorare possibili complicazioni. 

La FDA, affermano gli scienziati, dovrebbe garantire che l'utilizzo nel mondo reale di qualsiasi farmaco sottoposto ad approvazione accelerata (diverso è il discorso nel caso di pandemie dove il rischio in assenza di terapie è immediato) rimanga allineato ai classici criteri selettivi della sperimentazione clinica.
Il caso si ripropone ora con l'azienda Eli Lilly in procinto di richiedere la valutazione del suo farmaco (donanemab, anche questo un anticorpo) mediante la procedura accelerata.
Il donanemab ha meccanismo di azione simile all'anticorpo della Biogen e una capacità di abbassare i livelli della proteina β-amiloide (il maggior costituente delle placche amiloidi) di quasi l'80%.
La decisione della FDA è  prevista prima della metà del 2022.
In casa Biogen si sta nel frattempo premendo sull'acceleratore per attivare la procedura di approvazione per un altro anticipo, noto come lecanemab.
Il vero problema, come scritto sopra, è se l'ipotesi amiloide come agente causale del morbo di Alzheimer sia il vero motore della malattia e non solo una componente o peggio ancora un epifenomeno. In questi ultimi due casi qualunque farmaco che abbia passato con successo il processo di selezione (ogni studio clinico deve avere un obiettivo predefinito che in molti casi non è la malattia in sé - troppo complicata da misurare - ma un suo biomarcatore predittivo) sarebbe funzionalmente perfetto ma con efficacia terapeutica irrilevante.
Gran parte, se non tutti, gli studi clinici condotti finora miranti a ridurre le placche amiloidi non hanno mostrato significativi miglioramenti nel declino mnemonico e cognitivo. Ma il problema potrebbe essere a monte, cioè in un vizio di partenza del campione usato (soggetti sintomatici), in cui la malattia era -  a causa dei danni accumulati - di fatto irreversibile.
Il che pone due problemi: "cestinare" un trattamento che magari funzionerebbe se solo fosse utilizzato sui soggetti presintomatici (difficili da identificare); caricare il sistema sanitario di un costo per trattamenti "inutili" pari a circa 56 mila USD all'anno (costo del trattamento per l'aducanumab).

La speranza è che il nuovo trattamento della Ely-Lilly riesca a dare prove di benefici tangibili anche grazie alla migliore selezione dei soggetti reclutati per lo studio. Uno di questi studi di fase II durato 18  mesi ha mostrato che le capacità cognitive delle persone trattate diminuivano più lentamente di quelle trattate con il placebo (3,20 punti su una scala di 144 punti).
Non sono così convinti in tal senso altri ricercatori per i quali questo trattamento è battuto da un molto più economico farmaco generico, donepezil (in giro da 25 anni), che agisce sui sintomi senza "toccare" le placche amiloidi.
Lo studio di fase III (su soggetti nella primissima fase sintomatica) è previsto per la prima metà del 2023, quindi DOPO l'eventuale approvazione dell'anticorpo basata "solo" sui risultati nella riduzione delle placche amiloidi.

Alla fine del 2021 la FDA ha dato il semaforo verde anche agli anticorpi gantenerumab (Genentech–Roche), lecanemab (Biogen–Eisai) e donanemab (Eli Lilly)

Fonte
Nature 599, 544-545 (2021)

La formazione delle placche amiloidi, i punti critici e i farmaci in fase di test
(image credit: Nature)

***

Aggiornamento 03/2022
In base a quanto prima scritto la via maestra per comprendere se i farmaci (anticorpi inclusi) anti-amiloide sono utili a scopo preventivo, impone che gli studi clinici siano fatti su soggetti a rischio (per familiarità) malattia ma ancora asintomatici. Il ché vuol dire fare studi prospettici della durata di anni su quarantenni.
La notizia è che questi test sono iniziati su una persona a cui verrà iniettato ogni 2 settimane l'anticorpo gantenerumab. A questo si associano visite mensili per eseguire scansioni cerebrali per monitorare (eventuale) sanguinamento e, una volta all'anno, 4 giorni di test clinici e cognitivi per tenere traccia del suo stato di salute. Se questo vi sembra tanto da chiedere ad un volontario, va ricordato in primis che si tratta di un volontario di 43 anni e che, dato il suo quadro genetico, ha una certezza quasi assoluta di sviluppare l'AD nel giro di pochi anni; questo spiega la sua determinazione a contribuire alla ricerca e magari trarne i benefici se non per lui per i suoi figli.

Nei prossimi mesi, il consorzio DIAN (Dominantly Inherited Alzheimer Network) prevede di iniziare a reclutare 160 portatori di mutazioni, alcuni di appena 18 anni, che non dovrebbero sviluppare sintomi per altri 11-25 anni. Lo studio clinico prevede un gruppo trattato con il farmaco e un gruppo di controllo (trattato con placebo) e durerà quattro anni; in questo periodo verrò monitorato il carico amiloide a intervalli regolari. Passata questa fase i due gruppi verranno uniti e si passerà ad uno studio "aperto"m vale a dire in cui tutti i partecipanti riceveranno il farmaco e si cominceranno a misurare anche altri parametri, tra cui quelli cognitivi.
Nota. La ragione della prima fase è duplice. Monitorare la presenza di eventi avversi legati al farmaco e nel contempo verificare la sua efficacia nelle primissime fasi del trattamento.
È chiaro che non sarebbe pratico condurre lo studio per i decenni necessari affinché tutti i soggetti (a rischio reale) sviluppino i sintomi. Molto meglio monitorare il cambiamento dei biomarcatori che per definizione sono dei parametri legati alla malattia ma che la quantificano in anticipo. Tipico esempio di questi marcatori sono la proteina β-amiloide e la proteina tau.

Il consorzio DIAN non è l'unico impegnato in quesi studi per l'Alzheimer ad esordio precoce. Ad esempio coinvolgendo persone i cui esami hanno rilevato già la presenza di placche amiloidi pur in assenza di sintomi. Ad esempio il farmaco crenezumab della Genentech-Roche è n fase di test sugli individui di una numerosa famiglia colombiana, metà dei quali è portatore di una mutazione nel gene che codifica uno degli enzimi (noti come secretasi) responsabili del taglio della APP. Si stanno anche approntando test sulle persone con sindrome di Down che come noto vanno incontro ad un rapido deterioramento cognitivo (e altro) intorno ai 40 anni (ricordo che il gene APP si trova sul cromosoma 21 e la loro trisomia 21 spiega la loro suscettibilità a questi deterioramenti).

Un altro approccio da citare riguarda l'identificazione nella popolazione generale di coloro che sono ad alto rischio di sviluppare l'Alzheimer "normale" (quello negli anziani). Tra i vari studi cito quello dell'International Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative (presso la UCSF) il cui scopo è registrare la variazione dei biomarcatori dell'Alzheimer tra le centinaia di persone che hanno aderito e seguirne le variazioni durante il normale processo di invecchiamento e (nel caso) in tutte le fasi della malattia. I dati mostrano che circa un terzo delle persone cognitivamente normali di età superiore ai 65 anni ha placche amiloidi nel cervello e che oltre l'85% di loro svilupperà sintomi di Alzheimer entro 10 anni. All'interno di questa iniziativa vi sono almeno tre grandi studi clinici (ciascuno centrato su diverso farmaco/anticorpo e gruppo placebo) ciascuno dei quali coinvolge più di 1000 persone, cognitivamente normali ma con placche cerebrali rilevate mediante PET. In questo caso lo studio durerà 4 anni, periodo sufficiente perché le persone con placche amiloidi comincino a manifestare i sintomi; se i farmaci funzionano si spera di osservare un rallentamento della progressione della malattia.


 
Articoli precedenti sul tema -->Alzheimer 



Aggiornamento Agosto 2022
Oltre ai dubbi sopra esposti circa la validità (nel senso causa-effetto vs. epifenomeno) della teoria amiloide, arriva ora uno studio che mette in dubbio la validità scientifica di alcuni pilastri di questa teoria. I
Il caso è deflagrato poche settimane fa (luglio 2021) con un articolo su Science che riporta pesanti livelli di manipolazione dei dati su uno studio su Nature del 2006 che ha indirizzato il campo versa la suddetta teoria.
L’articolo indicava Aβ*56, oligomero tossico della beta-amiloide, come uno dei mattoni responsabili della formazione nel cervello delle placche amiloidi, tipiche della malattia di Alzheimer (e non solo).

Ad aumentare la gravità del caso, ad essere coinvolti in questa opera di manipolazione non ci sarebbe solo Sylvain Lesné, principale autore, ma la pharma Cassava, che aveva investito nello sviluppo di farmaci contro la formazione delle placche,

Nell’articolo di Science non si parla in modo esplicito di manipolazione ma di dubbi (“expression of concern”) sulla validità dei dati sperimentali. Lo studio si basava sull’iniezione intracerebrale in giovani topi di grosse quantità del suddetto oligomero e nella successiva constazione di deterioramento delle loro capacità mnemoniche. Un test che per loro (e per gli editori) era la prova che la beta amiloide non era una conseguenza della malattia ma la causa.
Fu quello il momento in cui tale ipotesi prevalse sulle altre e la ricerca si spostò verso la prevenzione della formazione delle placche. Approcci che nel corso degli anni si rivelarono infruttuosi se non controproducenti (alcuni farmaci capaci di contrastare la loro formazione sembravano peggiorare la malattia, rafforzando l’idea opposta che le placche fossero invece un modo con cui l’organismo cercava di rimuovere l’eccesso di proteine alterate, neutralizzandole).

L’articolo su Nature è ora sotto riesame

Maggiori informazioni su retractionwatch.



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