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L'aspetto dell'Homo denisova ricostruito grazie all'analisi dello stato di metilazione del DNA fossile

Tra le molte domande ancora aperte sull'Homo denisova, "cugini" estinti scoperti una decina di anni fa, una delle più intriganti riguarda il loro aspetto. Un quesito a cui le recenti analisi del DNA cominciano a dare una risposta.
Ricostruzione artistica di una giovane denisoviana in base alle caratteristiche craniche ricostruite grazie al DNA fossile.
Credit: Maayan Harel
Un problema non di semplice soluzione fin dalla identificazione dei reperti ossei, all'interno di una grotta siberiana ricca di resti di Neanderthal. Fu l'occhio esperto degli antropologi ha notare che alcuni mini residui ossei dovevano appartenere ad un Homo diverso dai ben studiati Neanderthal, intuizione poi confermata dalle analisi genetiche condotte in laboratorio.
La domanda non è di poco conto perché non si tratta semplicemente di un ramo parallelo dell'evoluzione umana ma di un progenitore, almeno per quanto riguarda alcune popolazioni umane attuali.
Non a caso ho sopra virgolettato la parola specie. Da un punto di vista biologico la speciazione presuppone un processo di isolamento riproduttivo tra due popolazioni, in altre parole due specie NON possono riprodursi tra loro e nella migliore delle ipotesi NON generano progenie fertile. L'esempio classico è quello del cavallo e dell'asino. Per cui dato che è oramai provato che le unioni sapiens-neanderthal e sapiens-denisova hanno dato origine ad una ampia (nel primo caso) discendenza, il processo di speciazione  del genere Homo non era ancora stato completato al momento in cui avvenne l'incrocio. Il periodo può essere solo inferito in modo approssimativo confrontando la datazione dei resti denisoviani nella grotta (50-180 mila anni fa) e le prime migrazioni che dall'eurasia portarono verso sud-est in direzione Indonesia-Australia (tra un minimo di 50 e 100 mila anni fa).
Il genoma conserva tracce indiscutibili di questa unione in tutti i membri delle popolazioni sapiens non-africane (nel caso dei neanderthal-sapiens, vedi per dettagli -->"Una unione non priva di problemi") e in alcune ristrette popolazioni asiatiche (rimaste isolate per millenni) nel caso dei sapiens-denisova (ne ho scritto in passato in articoli dedicati --> "Un nuovo membro della famiglia Homo").
In questo senso possiamo identificare una differenza di parentela sostanziale tra i due cugini e noi europei. Mentre l'eredità neanderthaliana in noi sapiens non africani è certa, la componente denisova è assente, limitata unicamente ai discendenti dei sapiens che dopo l'approdo in Eurasia (dove avevano incontrato i Neanderthal) si era poi diretta verso l'estremo oriente. Una parte di questi migratori avrebbe incontrato i Denisova portandone traccia nel loro genoma nelle popolazioni tibetane e in alcune ristrette popolazioni aborigene di Filippine (l'etnia dei Negritos), Nuova Guinea ed Australia (con valori di DNA denisoviano fino al 6%).
Una eredità quantitativamente inferiore quella denisoviana, retaggio di incroci molto limitati, forse dovuti alla minore diffusione geografica o minor numero residuo di Homo denisova al momento dell'incontro con i sapiens diretti verso l'Asia sud orientale.
Nondimeno, una eredità interessante perché, come nel caso dell'incrocio europeo con i Neanderthal, avrebbe fornito geni utili per la sopravvivenza in particolari condizioni ambientali. Nel caso denisoviano sembra che l'adattamento dei tibetani all'alta quota debba molto a questi antenati (-->"Tibetani e geni denisoviani").
Se nel caso dei Neanderthal la mole di reperti ossei disponibili, da molti dei quali è stato possibile ricavare DNA ben conservato, ha permesso da anni di ricavare informazioni molto dettagliate su aspetto e caratteristiche genetiche, nel caso dei denisoviani il lavoro si è presentato da subito arduo se non ai limiti del fattibile.
Una simpatica immagine di una statua rappresentante un Neanderthal a confronto con una "discendente" reale. Foto tratta dal bellissimo Neanderthal Museum in Germania.

Il primo reperto, quello da cui è nato tutto, era un piccolo osso della falange a cui solo in seguito se ne sono aggiunti altri, tra cui denti e, dall'altopiano tibetano, una mandibola. Quest'ultima sufficiente per estrarre nuovo DNA ma di sicuro non sufficiente per ricostruire i dettagli anatomici.
Ricostruzione virtuale della mandibola trovata in Tibet dopo avere rimosso una incrostazione che la ricopriva.
Credit:Jean-Jacques Hublin, MPI-EVA, Lipsia

Parziale soluzione a questo limite oggettivo è venuto dall'affinamento delle tecniche di analisi genetica mirante a rilevare le alterazioni epigenetiche (modificazioni chimiche reversibili della sequenza nucleotidica) che sommata alla potenza di calcolo usata dai biologi computazionali e infine incrociata con le informazioni genetiche degli umani moderni, in primis di quelle popolazioni in cui maggiore è l'eredità denisoviana, ha permesso di ricostruire i tratti anatomici essenziali di un Homo Denisova.

Le modifiche epigenetiche al DNA hanno una profonda influenza sulla maggior parte dei tratti biologici. Da un punto di vista analitico possono anche permettere di identificare la cellula o tessuto di origine da cui è stato prelevato il campione. Uno dei cambiamenti epigenetici meglio studiati è l'aggiunta a una base nucleotidica di un gruppo metilico, una modifica che può alterare l'espressione genica. Tuttavia, poiché il gruppo metilico si degrada dopo la morte, quando si analizza un DNA "fossile" o datato questa informazione viene persa.
I ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme, hanno però trovato il modo per identificare parti del DNA fossile che erano metilate, usando come approccio metodologico la rilevazione dei danni chimici che si accumulano nel DNA con il passare del tempo.
Un metodo da loro già usato nel 2014 per mappare e comparare lo stato di metilazione tra i genomi di Neanderthal e Denisova e da questo inferire l'espressione di un gene coinvolto nello sviluppo degli arti, trovando così differenze rispetto ai Sapiens attuali.
Il nuovo studio pubblicato sulla rivista Cell ha ampliato, nell'ordine di migliaia, le regioni analizzate, confrontando poi i risultati con quanto si conosce sullo stato epigenetico di regioni equivalenti negli umani moderni. Il passo finale, necessario per inferire i tratti anatomici dei denisovani, si è ottenuto usando come riferimento un altro database in cui è catalogato l'effetto fisico di mutazioni genetiche in persone affette da rare  anomalie.
Il procedimento analitico usato. Per maggiori dettagli e immagine HD vi rimando all'articolo su Cell (D. Gokhman et al)

Il test di affidabilità dell'approccio (proof of concept) è stato usare questi dati per prevedere le caratteristiche di un Neanderthal, per poi confrontarle con le ricostruzioni anatomiche e morfologiche disponibili da anni. Test, è bene precisare, di tipo qualitativo e e comparativo nel senso che i dati ottenuti permettono, ad esempio, di prevedere dita più lunghe rispetto ad un sapiens, non la lunghezza assoluta al millimetro.
Al termine della validazione, 33 sono stati i tratti Neanderthal risultati prevedibili dallo stato di metilazione, 29 dei quali in modo abbastanza accurato. Tra questi la presenza di facce più ampie o teste più piatte rispetto ad un umano moderno.
Su altri parametri l'affidabilità si è rivelata insufficiente, come ad esempio la previsione dei punti di fusione delle ossa del cranio, note come suture.
Fatta la validazione i ricercatori hanno applicato la tecnica sul DNA denisoviano.
Il risultato in estrema sintesi suggerisce che questi possedessero molti tratti in comune con i Neanderthal, come la fronte bassa e l'ampia gabbia toracica, ma anche alcune differenze, tra cui mascelle e teschi più larghi.
Per maggiori dettagli e immagine HD vi rimando all'articolo originale su Cell (David Gokhman et al)

L'assenza di reperti completi, tipo uno scheletro conservato, rende impossibile dire quanto l'immagine ottenuta sia precisa, ma al momento questo è sia il massimo, ed è già moltissimo, ottenibile.

A conferma della bontà dell'analisi il confronto con l'osso mandibolare vecchio di 160 mila anni proveniente dal Plateau tibetano, coincide con le previsioni per 3 tratti su 4. Altra conferma da un pezzo di cranio trovato nella grotta di Denisova che suggerisce che questi Homo possedessero effettivamente teste larghe, come previsto dalla ricostruzione epigenetica.

In futuro, gli scienziati potrebbero usare l'epigenetica per ricostruire l'anatomia degli ominidi noti da fossili frammentari o forse perfino anche da DNA degli sterchi fossili. Un approccio che potrebbe anche permettere di prevedere aspetti comportamentali, cosa impossibile anche in un reperto scheletrico perfettamente conservato.

Articolo successivo sui denisovani --> DNA denisovano in una grotta tibetana

Altri articoli su questo argomento --> Antropologia Evolutiva

Fonte
- Reconstructing Denisovan Anatomy Using DNA Methylation Maps
David Gokhman et al,  Cell. 2019, 179(1):180-192

- First portrait of mysterious Denisovans drawn from DNA
Nature / news 

- Denisovan Jawbone Discovered in a Cave in Tibet

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