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L'impianto cerebrale che ha permette a un uomo affetto da SLA di tornare a "parlare" (e a cantare)

La notizia risale a prima dell'estate ma vale la pena ripescarla in quanto indicativa delle potenzialità terapeutiche degli impianti cerebrali (trattati in maniera estesa in un precedente articolo)

Un impianto cerebrale permette a un uomo di parlare e di cantare grazie ad un dispositivo che traduce i pensieri e le parole (pensate) in tempo reale. Parlare, ben inteso, con le varie sfumature espressive e non come fosse una sterile voce sintetica. 
Il dispositivo trasmette i cambiamenti di intonazione quando pone domande, enfatizza le parole che sceglie e gli permette di canticchiare una serie di note in tre tonalità.
Lo studio effettuato su una persona affetta da una grave disabilità linguistica, conseguenza della SLA,  ha dimostrato come il sistema sia in grado di decodificare l'attività cerebrale del soggetto e produrre la voce sintetica in soli 10 millisecondi dal momento in cui "nasce" l'attività neurale che indica la volontà di parlare.
In colore la corteccia motoria in cui sono stati impiantati gli elettrodi
(Kateryna Kon/Science Photo Library)
Il sistema, noto come interfaccia cervello-computer (BCI), ha utilizzato l'intelligenza artificiale per decodificare l'attività cerebrale elettrica del partecipante mentre cercava di parlare. Si tratta del primo dispositivo del genere, che non si limita a "esprimere" le parole ma anche caratteristiche del linguaggio naturale come intonazione ed enfasi, caratteristiche fondamentali nella comunicazione interpersonale.
Un miglioramento significativo rispetto ai sistemi precedenti in cui l'intervallo di tempo tra segnale neurale e voce avveniva in circa 3 secondi (o al termine della frase "pensata")
La reazione del paziente alla sua voce sintetica
(Credit: UCD)


Il BCI installato ha richiesto un intervento chirurgico per posizionare 256 elettrodi in silicio, ciascuno lungo 1,5 mm, nell'area cerebrale che controlla il movimento dei muscoli necessari per parlare. Attraverso algoritmi di deep learning il sistema è stato addestrato a catturare i segnali nel suo cervello ogni 10 millisecondi, decodificando i suoni che l'uomo tentava di produrre, anziché le parole che intendeva o i fonemi costituenti (le subunità del linguaggio che formano le parole pronunciate).

Il team ha anche personalizzato la voce sintetica per renderla più simile possibile a quella originale grazie ad algoritmi dedicati che hanno "lavorato" su registrazioni di interviste effettuate prima della comparsa dei sintomi.

Altro elemento di novità, la richiesta al paziente di provare a emettere interiezioni come "aah", "ooh" e "hmm" e di pronunciare parole inventate. Il BCI è riuscito a riprodurre questi suoni, dimostrando di poter generare un discorso senza bisogno di un vocabolario fisso.

Il risultato finale è stata la produzione di parole e la capacità di rispondere a domande aperte, esprimendo ciò che voleva usando anche parole che non facevano parte dei dati usati per addestrare la IA. 
Durante altri test il sistema ha correttamente interpretato la volontà del soggetto, riproducendo in modo corretto la frase come una affermazione o come una domanda, e variare l'accento in parole diverse regolando l'intonazione.

Se non vedi il video clicca --> youtube

Fonte
- An instantaneous voice-synthesis neuroprosthesis
Maitreyee Wairagkar et al, (2025) Nature, 644, pp- 145–152

An Accurate and Rapidly Calibrating Speech Neuroprosthesis
Nicholas S. Card et al, (2024) NEJM 391 (7)


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Per quanto possa sembrare scontato, il modo migliore per sviluppare la memoria e le capacità dei bambini è dare loro giochi manuali invece di tablet et similia. Un classico sempre verde il gioco della Ravensburger 
Immagine e link da Amazon



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Ig-Nobel 2025. Premiato l'articolo italiano sulla cacio e pepe

Ogni anno torniamo agli articoli vincitori degli Ig-Nobel in quanto sempre interessanti. Del resto il premio, nato decenni fa all'università di Harvard, nasce proprio per segnalare una ricerca che "prima fa ridere, poi fa riflettere". 
Se ridere e poi riflettere è il tratto distintivo, quest'anno i partecipanti alla premiazione proveranno anche un certo languorino dato tra le ricerche premiate (categoria "Fisica") c'è quella sul come preparare la salsa perfetta per fare la pasta cacio e pepe, piatto romano per eccellenza.
 I ricercatori, tutti italiani sebbene afferenti a diversi istituti di ricerca in Europa, coordinati da Fabrizio Olmeda, fisico presso l'Istituto di Scienza e Tecnologia Austriaco (ISTA), si sono cimentati in questo compito frustrati dalla variabilità nella riuscita del piatto ogni volta che vi si cimentavano. Di fronte alla variabilità non restava che usare il metodo scientifico per creare una ricetta (in laboratorio lo chiameremmo "protocollo") affidabile.
Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.

Banalità? Non proprio. Preparare un sugo perfetto non significa solo mescolare i pochi ingredienti essenziali (pecorino, acqua di cottura della pasta, pepe), perché il risultato più comune sarà un sugo grumoso, simile alla mozzarella.
L'acqua di cottura della pasta (presente in ogni ricetta della cacio e pepe) serve a fornire l'amido importante per emulsionare e stabilizzare il sugo, ma da solo non è sufficiente. A temperature superiori a 65 gradi le proteine ​​del formaggio si denaturano e si aggregano, causando la disgregazione del composto.
Credit: Physics of Fluids (2025)

Per ottenere un sugo perfetto bisogna aggiungere all'acqua la giusta quantità di amido in polvere (2-3% del peso del formaggio) finché non diventa limpida e si addensa come un gel. A questo punto si mescola il gel con il formaggio a bassa temperatura in modo che l'amido si leghi alle proteine ​​e prevenga la formazione di grumi. Il pepe viene aggiunto alla fine prima di mescolare la pasta con il sugo direttamente nella padella (nel caso si può aggiungere altra acqua di cottura per ottenere la giusta consistenza).

Ricapitolando ecco la ricetta "perfetta"
  • 4 g di amido (di patate o di mais)
  • 40 ml di acqua (per amalgamare l'amido)
  • 160 g di Pecorino Romano
  • 240 g di pasta (preferibilmente tonnarelli)
  • Acqua di cottura della pasta
  • Pepe nero e sale (a piacere)

Effetti collaterali di questo articolo? Avvicinare al metodo scientifico anche chi con esso non ha familiarità.


Tra gli altri vincitori meritano una menzione Tomoki Kojima (cat. Biologia) per aver dimostrato che dipingere le mucche con strisce bianche e nere può impeedire alle mosch di pungerle senza bisogno di pesticidi, o all'olandese per avere osservato che bere alcol, a volte ti permette di migliorare la capacità di parlare lingue straniere (lista completa QUI)


Fonte
Phase behavior of Cacio e Pepe sauce
G. Bartolucci et alPhysics of Fluids 37, 044122 (2025) 
 
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Sul tema scienza e cucina non posso che consigliare gli ottimi volumi tematici di Dario Bressanini. Sempre nella mia libreria a portata di mano (link immagine ad Amazon)







I misteriosi "puntini rossi" visti dal JWST sono "stelle buchi neri"?

Rappresentazione artistica di un BH*
(© MPIA/HdA/T. Müller/A. de Graaff)
Nell'estate del 2022, dopo poco meno di un mese dall'entrata in funzione del telescopio spaziale James Webb (JWST), gli astronomi rilevarono nelle immagini catturate dalle profondità dello spazio dei piccoli puntini rossi la cui luce cadeva nel medio infrarosso, al di là della sensibilità di Hubble, il telescopio migliore fino ad allora disponibile.
Alcuni dei "piccoli puntini rossi" scoperti dal JWST
(Image: wikipedia)
Ulteriori dati mostrarono che questi oggetti erano distanti non meno di 12 miliardi di anni luce, quindi una luce originata circa 1,8 miliardi di anni dopo il Big Bang.
Ok. Nulla di strano se uno pensa che sono stati visti segnali risalenti a poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Tuttavia questi "puntini rossi" non erano catalogabili (per le caratteristiche spettrali) con nessuno dei modelli stellari standard.

Una delle prime interpretazioni fu che i piccoli puntini rossi fossero galassie estremamente ricche di stelle, la cui luce era resa rossa da enormi quantità di polvere circostante.
Nella nostra galassia, la Via Lattea, l'unica regione così densa di stelle è il nucleo centrale, che però contiene solo circa un millesimo delle stelle necessarie per spiegare - secondo il modello proposto - i puntini rossi. Altro problema è che l'elevato numero di stelle necessarie, pari a centinaia di miliardi di masse solari, poneva seri problemi di fattibilità in un universo così giovane.
In contrapposizione a questo modello, altri astronomi erano più dell'idea che i piccoli puntini rossi fossero nuclei galattici attivi oscurati da una ingenti quantità di polvere.
I nuclei galattici attivi sono ciò che vediamo quando un flusso costante di materia cade sul buco nero centrale di una galassia, formando un disco di accrescimento estremamente caldo attorno all'oggetto centrale.

La seconda interpretazione poneva  una serie di limitazioni dovute agli spettri e necessitava, per essere testata, di tempi di osservazione più lungo il che richiedeva occupare più slot di osservazioni tra quelli offerti a chi necessitava sfruttare il JWST. 

Tra i puntini rossi il più interessante (per le caratteristiche spettrali) di tutti era quello proveniente dal "puntino" soprannominato "The Cliff" distante 11,9 miliardi di anni.

The Cliff" prende il nome dalla caratteristica più evidente del suo spettro: un forte picco nello spettro che apparirebbe nella regione appena oltre la soglia del visibile nel violetto. "Apparirebbe" perché il nostro universo è in espansione quindi la lunghezza d'onda si allunga fino a quasi cinque volte il suo valore originale, il che indica spiega perché lo spettro osservato del Cliff non sia nell'ultravioletto ma nell'infrarosso ("redshift cosmologico").
Nessun modello stellare esistente si adattava a The Cliff, che assomigliava più allo spettro di una singola stella che a quello di una galassia con un buco nero.

Era necessario un nuovo modello che ha preso il nome di "stella buco nero" (BH*): un nucleo galattico attivo, ovvero un buco nero supermassiccio e il suo disco di accrescimento, circondato e arrossato non da polvere, ma da uno spesso involucro di idrogeno gassoso.
BH* non è una stella in senso stretto, poiché al suo centro non avviene alcuna reazione di fusione nucleare come al centro di una qualsiasi stella (e che fornisce energia radiante per sostenere gli strati superiori evitando di collassare in un buco nero). Inoltre, il gas nell'involucro deve "turbinare" molto più violentemente rispetto a qualsiasi atmosfera stellare ordinaria.
Fatte queste premesse la fisica di base di un BH* è simile: il nucleo galattico attivo riscalda l'involucro di gas circostante, proprio come il centro di una stella, alimentato dalla fusione nucleare, riscalda gli strati esterni della stella, quindi l'aspetto esterno presenta notevoli somiglianze.

"The Cliff" sarebbe un esempio estremo in cui la BH* centrale domina la luminosità dell'oggetto mentre la luce degli altri puntini rossi sarebbe una mix uniforme della stella buco nero centrale con la luce delle stelle e del gas nelle parti circostanti della galassia.

Se questa ipotesi (BH*) fosse davvero la soluzione, potrebbe avere un altro potenziale vantaggio. 
Sistemi di questo tipo erano stati precedentemente studiati in un contesto puramente teorico, con buchi neri di massa intermedia molto più leggeri. In quel contesto, la configurazione con buco nero centrale e involucro di gas circostante era vista come un modo per far crescere rapidamente la massa dei buchi neri centrali di galassie primordiali. Dato che il JWST ha trovato prove concrete dell'esistenza di buchi neri di grande massa nell'universo primordiale, una configurazione che potrebbe spiegare la crescita ultrarapida della massa dei buchi neri sarebbe un'aggiunta gradita agli attuali modelli di evoluzione delle galassie. 

Come può essersi formata una stella buco nero di questo tipo? Come può l'insolito involucro di gas essere mantenuto a lungo (su scala cosmica) visto che il buco nero divora il gas circostante e serve quindi un meccanismo per "rifornire" l'involucro? 
Per avere risposte serviranno altri dati e forse nuovi modelli

Fonte
A remarkable Ruby: Absorption in dense gas, rather than evolved stars, drives the extreme Balmer break of a Little Red Dot at z=3.5
Astronomy & Astrophysics, 701, A168 (2025)

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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


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Le prime tracce di vita multicellulare sulla Terra. Prove indiziarie da alcuni batteri odierni

L'origine (come, quando) della vita multicellulare sulla Terra è ancora oggetto di dibattito. Il consensus fa risalire l'evento a circa 1,2 miliardi di anni fa o secondo alcuni poche centinaia di milioni di anni prima.
La multicellularità non è una "curiosità" accademica ma è stato il volano che ha trasformato (letteralmente) il nostro pianeta da una luogo deserto in cui la vita germogliava solo in luoghi molto specifici (camini sottomarini) mentre tutto il resto era un deserto di rocce o acqua, in quello odierno. La multicellularità ha innescato una cascata di effetti che non ha portato solo a nuove forme di vita ma  nuove nicchie ecologiche e reti trofiche. Ha cambiato l'atmosfera terrestre, il ciclo del carbonio e la biogeochimica, guidando l'evoluzione. 
Un intervallo di tempo considerevole rispetto alla comparsa della vita sulla Terra, le cui tracce più antiche (e certe) risalgono a 3,7 miliardi di anni fa, visibili nelle stromatoliti trovate in Groenlandia.
Si ipotizza tuttavia che pur in assenza di evidenze fossili la Terra avrebbe potuto ospitare la vita a partire da 4,3 miliardi di anni fa.
Il passaggio tra cellule indipendenti alla multicellularità è verosimilmente transitato attraverso colonie di cellule (batteriche probabilmente) divenute con il tempo sempre più dipendenti dalla vita in gruppo fino a non potere più vivere singolarmente. Una teoria questa che va sotto il nome di Teoria Coloniale e che si basa sui vantaggi evolutivi acquisiti dal vivere a stretto contatto.
Passaggio successivo al vivere in comunità l'unione fisica tra almeno alcune di queste (a formare una sorta di sincizio dove il materiale genetico era tenuto separato pur all'interno di cellule unite, o come possibilità che non esclude la precedente, le singole cellule della colonia iniziarono prima a scambiarsi segnali chimici per poi assumere funzioni specializzate, come ad esempio la cattura del cibo in quelle più esterne. 

Oggi sono noti solo un tipo di batteri (unicellulari) il cui ciclo vitale avviene all'interno di gruppi che  si organizzano come organismi multicellulari. Si tratta dei "batteri magnetotattici multicellulari" (MMB) il cui nome deriva dalla capacità di usare il campo magnetico terrestre per muoversi e orientarsi. Mancano dati definitivi ma l'ipotesi corrente è che questi batteri presentino una multicellularità obbligata, non essendo stati trovati (o coltivati) come entità singole.
Immagine in falso colore MMB
(credit R. Hatzenpichler)
Il problema principale nello studiare i MMB è il non poter essere coltivati (almeno con le tecniche oggi note) in laboratorio, per cui i dati vengono dalla loro osservazione in. condizioni naturali.
Utile per la loro caratterizzazione uno studio appena pubblicato su PLOS Biology che indica come gli MMB siano più complessi di quanto ipotizzato.
Tra i dati emersi quello che le cellule MMB non sono del tutto identiche morfologicamente e che ciascuna possiede un patrimonio genetico leggermente diverso, dato che li differenzia sostanzialmente da altri batteri (chiaramente clonali) capaci di vivere in colonie come ad esempio i cianobatteri che formano le stromatoliti: mentre i cianobatteri possono sopravvivere individualmente, gli MMB no.

Dal sequenziamento del DNA di 22 colonie di MMB, si è dedotta l'esistenza di  8 nuove specie. La quantificazione della diversità genetica all'interno di ciascuna colonia ha rivelato che le cellule all'interno non sono clonali. 
Alcune cellule possiedono funzionalità specifiche che permette la sopravvivenza del gruppo. Colonie (o forse consorzi?) con un metabolismo di tipo solfato-riduttori mixotrofi.

Sappiamo che la multicellularità si è evoluta più volte durante l'evoluzione, come evidente dalla comparazione tra piante, animali e funghi.
Si riconoscono tre fasi generali in questa evoluzione: adesione cellula-cellula, comunicazione cellula-cellula, cooperazione, specializzazione e, almeno in alcuni casi, una transizione dalla multicellularità semplice a una multicellularità più complessa.
Il dibattito sugli MMB rimane aperto. Non tutti i ricercatori in effetti concordano sul fatto che siano veramente organismi multicellulari. Ci sono invero molte sfumature in questa definizione. La maggior parte dei biologi preferisce definirla multicellularità "semplice" o "primitiva". In questo senso, rappresentano un passaggio intermedio tra gli organismi unicellulari e gli organismi veramente multicellulari.
Fonte
Multicellular magnetotactic bacteria are genetically heterogeneous consortia with metabolically differentiated cells
GA Schaible et al, PLOS Biology (2024)

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Svelata la compagna nascosta di Betelgeuse

A meno di un anno di distanza dal precedente articolo sulla possibilità che Betelgeuse fosse in realtà un sistema binario, ecco arrivare l'evidenza visiva della "piccola" compagna che orbita intorno alla supergigante rossa.
Credit: NSF NOIRLab
La difficoltà nella identificazione e visualizzazione è conseguenza della luminosità e dimensioni di Betelgeuse e alla stretta orbita (circa 4 UA) della giovane compagna di massa equivalente al Sole, così giovane da non avere ancora iniziato a "bruciare" idrogeno nel suo nucleo. La variazione di luminosità periodica (6 anni) di Betelgeuse sarebbe la conseguenza del "balletto" del sistema binario.

Un sistema non destinato a durare sia perché si stima che questa verrà inglobata dalla gigante rossa nei prossimi 10 mila anni che per l'imminenza (cosmicamente parlando) dell'esplosione di Betelgeuse.



Fonte
Radial Velocity and Astrometric Evidence for a Close Companion to Betelgeuse
Morgan MacLeod et al, (2025) Astrophysical Journal


Non avrete bisogno di un telescopio per vedere la supernova di Betelgeuse né riuscirete a vedere se è un sistema binario, ma un telescopio dobsoniano è tutto quello che serve per fare astrofotografia dalla Terra.
Telescopio riflettore newtoniano 130EQ


Alla ricerca di Tatooine. Un sistema binario ed un orbita planetaria mai visti

Tra i pianeti immaginati dalla fantascienza moderna, quello di Tatooine è sicuramente quello che più ha fatto presa nell’immaginario dello spettatore grazie al suoi due soli. I recenti progressi nella ricerca di pianeti extrasolari (ad ora quelli confermati sono 5967) hanno rinnovato l’interesse per sistemi stellari che potessero, almeno da un punto di vista teorico, ospitare tramonti con due (o più) soli come visto in Star Wars.
Sistemi simili sono stati scoperti in passato (ad oggi sono 16 i sistemi noti) ma 2M1510 (AB), da poco descritto su Science Advances merita una menzione particolare per tre particolarità: le due stelle del sistema binario sono nane brune (note anche come stelle fallite); l’orbita del pianeta è intorno ad entrambe (negli altri casi il pianeta orbita intorno a stella A che orbita intorno a stella B); l’orbita planetaria è intorno ai poli delle stelle invece di essere sul piano equatoriale.
Rappresentazione artistica dell’insolita orbita dell’esopianeta 2M1510 (AB) b attorno alle sue "stelle"
Credit: Eso/L. Calçada
Tre caratteristiche molto interessanti non c’è che dire.
È ben noto che i sistemi stellari si formano da dischi appiattiti e rotanti di gas e polvere, con la materia che si accumula in pianeti, lune e asteroidi lungo il piano del disco che circonda una stella neonata. Di conseguenza trovare un pianeta orbitare attorno ai poli della sua stella madre è cosa alquanto peculiare perfino più di Nu Octantis b (pianeta che ha orbita retrograda rispetto alle due stelle e la cui orbita è “a sandwich” (vedi gif associata).

Prima ancora che gli astronomi incontrassero questo peculiare pianeta conoscevano già dal 2018 i due corpi attorno ai quali orbita identificati come nane brune distanti da noi circa 120 anni luce e molto giovani (45 milioni di anni). La seconda stranezza che emerse, oltre alla natura dei corpi, fu che le nane brune sembravano muoversi al contrario.
In sistemi binari come questo, l'orbita ellittica di ciascun oggetto nel sistema binario cambia gradualmente il suo orientamento nel tempo, come l'asse di una trottola che traccia un cerchio mentre la trottola oscilla. Questo spostamento orbitale avviene tipicamente nella stessa direzione del moto orbitale dell'oggetto. Tuttavia, le orbite delle nane brune si stavano spostando nella direzione opposta al moto orbitale degli oggetti, il che poteva essere spiegato solo se le nane brune ricevevano spinte gravitazionali da un pianeta in orbita a un angolo di quasi 90° rispetto alla coppia.
Se non vedi il video clicca su https://youtu.be/cYo0IWUwknQ
Rilevare questo moto inverso è possibile solo quando una coppia di nane brune orbita l'una attorno all'altra rapidamente e a distanza molto ravvicinata. Proprio il caso delle due nane brune la cui danza orbitale avviene su un ciclo di 21 giorni e, al loro punto più vicino, i due oggetti si trovano a 5,6 milioni di chilometri l'uno dall'altro, pari a circa 0,04 UA pari ad 1/10 della distanza Sole-Mercurio.
Meno certezze sull’origine dell’orbita polare del pianeta 2M1510 (AB) b sebbene l’ipotesi più probabile è che sia stato “eiettato” in seguito al passaggio di una stella nelle vicinanze del sistema binario
https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adu0627

Fonte
Evidence for a polar circumbinary exoplanet orbiting a pair of eclipsing brown dwarfs
Thomas A. Baycroft et al (2025) Science Advances


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Infezioni respiratorie e rischio attivazione tumori dormienti

Infezioni respiratorie comuni (dall'influenza al Covid19) potrebbero essere in grado di risvegliare le cellule dormienti tumorali favorendo così la comparsa/accelerazione di metastasi.
La conclusione viene da uno studio ottenuto incrociando dati dalla clinica con quelli ottenuti da un modello murino.

Primo tassello dello studio pubblicato su Nature l'analisi dei pazienti oncologici ancora in vita (dati presi dalla UK Biobank) la cui malattia era stata diagnosticata almeno 5 anni prima della pandemia di COVID. L'analisi ha mostrato che coloro che, durante e dopo la pandemia, sono risultati positivi al test del COVID avevano un rischio quasi doppio di morire di cancro rispetto ai pazienti con cancro risultati negativi.
Restringendo il periodo di follow-up al 2021 l'odd ratio (OR) saliva a 8, indicando che l'aumento del rischio di mortalità per cancro è maggiore nei primi mesi dopo l'infezione da SARS-CoV-2.
Secondo tassello l'analisi di 36.845 donne con tumore al seno con il fine di determinare se avessero un rischio aumentato di progressione verso la malattia metastatica nei polmoni dopo l'infezione da COVID. In effetti le sopravvissute che avevano contratto il COVID dopo la diagnosi iniziale di tumore mostravano un hazard ratio  (HR) aggiustato per età, razza ed etnia di 1,44 per la successiva diagnosi di metastasi nei polmoni.
In sintesi i risultati indicano che le persone con una storia di cancro sono tra i primi beneficiari di qualunque precauzione (leggasi vaccinazione) che contrasti l'infezione da virus respiratori. O in parole ancora più semplici sempre meglio evitare le infezioni se possibile.
Questo vale per i virus influenzali e il Sars-CoV-2 (compresi i coronavirus prossimi venturi)
Non una sorpresa se si considerano le precedenti evidenze che suggerivano come lo stato infiammatorio in generale sia in grado di risvegliare le cellule tumorali disseminate (DCC), cellule che si staccano da un tumore primario e si diffondono in organi distanti. E i virus respiratori sono un ottimo esempio di qualcosa in grado di indurre infiammazione.
Evidenze confermate dal terzo e ultimo tassello consistente in test per verificare se le infezioni da virus respiratori possano portare al risveglio di queste cellule tumorali, con conseguente progressione metastatica della malattia. 
Test condotti su un modello murino di carcinoma mammario metastatico, che includeva DCC dormienti nei polmoni e topi successivamente esposti a virus come SARS-CoV-2 o influenza. I risultati sono stati chiarissimi: dopo l'infezione virale si è rilevato un aumento da 100 a 1.000 volte del numero di queste cellule tumorali nell'arco di alcune settimane.
Per comprendere il meccanismo alla base di questo processo i ricercatori hanno condotto un'analisi molecolare che ha dimostrato che il risveglio delle DCC dormienti era guidato (e dipendente) dall'interleuchina-6, una proteina che le cellule immunitarie rilasciano in risposta a lesioni o infezioni.
Il team ha anche scoperto che questo processo è seguito da un ritorno a quiescenza e creazione di nicchie cellulari CD4+ che inibiscono l'eliminazione del DCC, in parte attraverso la soppressione delle cellule CD8+. 
In altre parole, una volta che queste cellule si sono espanse, risultano protette dal sistema immunitario. Invece di eliminare attivamente le cellule tumorali, il sistema immunitario le protegge dall'eliminazione immunitaria.

Pur riconoscendo che le differenze di specie giustificano cautela nell'interpretazione dei dati sui topi, i dati basati sulla popolazione "mostrano che il infezioni polmonari aumentano il rischio di metastasi polmonari nelle pazienti con tumore al seno.

Fonte
Respiratory viral infections awaken metastatic breast cancer cells in lungs
Shi B. Chia et al, (2025) Nature




Amnesia infantile. Perché non ricordiamo nulla della prima infanzia?

Perché non ricordiamo nulla della nostra prima infanzia?

Sebbene i primi anni di vita siano un continuo processo di apprendimento e memorizzazione, tali eventi scivolano nell’oblio tanto che di questa fase gli adulti ricordano eventi (e solo a sprazzi) avvenuti dopo i 4 anni. Un fenomeno noto amnesia infantile. Circa le cause del fenomeno del non conservare memoria di queste esperienze, il consensus è che l’ippocampo, la parte del cervello responsabile della conservazione dei ricordi, si sviluppa tardivamente e raggiunge la maturità solo durante l’adolescenza. Una nuova ricerca pubblicata su Science contraddice in parte questo assunto, conclusione ottenuta dopo avere confrontato le risposte cerebrali di bambini sotto i 2 anni alla visione di immagini, alcune delle quali mostrate più volte. Tanto più l'ippocampo del bambino risultava attivo quando vedeva un'immagine la prima volta, tanto più era probabile che riconoscesse l’immagine quando ripresentata. Una osservazione che se da una parte dimostra che nella prima infanzia i processi mnemonici sono attivi, dall’altra pone il quesito sul perché (e quando) queste memorie vengano cancellate.

Punto critico affrontato dai ricercatori trovare un metodo solido per testare la presenza di ricordi episodici in soggetti che non possono dire “ho già visto questa immagine” (un volto, oggetto o scena). Scelta ricaduta come metodo sull’innocua e affidabile risonanza magnetica funzionale (fMRI) e come procedura sul mostrare ai bambini una serie di immagini mai viste seguite poi da una serie di due immagini appaiate di cui una poteva essere già stata mostrata. Quando i pargoli si trovavano di fronte a qualcosa che avevano già visto, la reazione era di fissarla per più tempo rispetto alla immagine adiacente nuova (un chiaro indizio del riconoscimento di qualcosa di familiare in atto).
Il campione testato è di 26 bambini tra i 10 e 24 mesi
Un momento della preparazione dell'infante al test mnemonico
(credit: YaleNews)
L’area del cervello che si “illuminava” durante il ricordo è quella dell’ippocampo posteriore, ben nota per la fissazione delle memorie e sede negli adulti della memoria episodica; maggiore l’attività nell'ippocampo quando un neonato guardava una nuova immagine, e più a lungo la (ri)fissava quando riappariva durante la presentazione. Sebbene i risultati siano stati confermati su tutto il campione, i risultati più “forti” si sono avuti nei bambini con più di 12 mesi (metà del gruppo campione), dato che coincide con una maggior sviluppo dell’ippocampo.
In verde l'ippocampo (da sinistra a destra la parte anteriore/posteriore)
Credit: Treccani
Dati ottenuti in precedenza dallo stesso team di ricercatori indicavano che l'ippocampo di neonati di appena tre mesi mostrava un diverso tipo di memoria chiamato "apprendimento statistico". Mentre la memoria episodica si occupa di eventi specifici, l'apprendimento statistico riguarda l'estrazione di modelli attraverso gli eventi (ad esempio non il ristorante in cui si va a mangiare ma come appare un ristorante per essere catalogato come tale). Questi due tipi di memoria utilizzano percorsi neuronali diversi nell'ippocampo. Studi condotti sugli animali hanno dimostrato che il percorso di apprendimento statistico, che si trova nella parte più anteriore dell'ippocampo si sviluppa prima di quello della memoria episodica. Ecco il perché della maggiore forza dei risultati prima descritti nei bambini da 12 mesi in su. Nei neonati serve infatti altro: l’apprendimento statistico consiste nell'estrarre la struttura del mondo che ci circonda, fase fondamentale per lo sviluppo del linguaggio, della vista, dei concetti etc. 
L’importanza di questo studio è che dimostra come i ricordi episodici vengano codificati dall'ippocampo prima di quanto finora ipotizzato, molto prima dei primi ricordi che possiamo ricordare da adulti.

Quindi, cosa succede a questi ricordi?
Diverse le possibilità proposte dai ricercatori. Una è che i ricordi potrebbero non essere convertiti in memoria a lungo termine e quindi “persi”. Un'altra, preferita dagli autori dell’articolo, è che i ricordi permangano a lungo dopo la codifica e semplicemente non possiamo accedervi. 
Sono in corso dei test per verificare se infanti e bambini piccoli riescano a ricordare video casalinghi ripresi dalla loro prospettiva di neonati (più piccoli), con risultati pilota provvisori che mostrano che questi ricordi potrebbero persistere fino all'età prescolare prima di svanire.

Paradigm for Memory Testing in Infants
(credit: The Scientist)

Fonte
- Hippocampal encoding of memories in human infants
TS Yates et al, (2025) Science 387(6740) pp. 1316-1320

The ubiquity of episodic-like memory during infancy
L. Behm et al, (2025) Trends in Cognitive Sciences 


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Per quanto possa sembrare scontato, il modo migliore per sviluppare la memoria e le capacità dei bambini è dare loro giochi manuali invece di tablet et similia. Un classico sempre verde il gioco della Ravensburger 
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Una bolla sferica nella Via Lattea

Cosa potrebbe essere quell’area dello spazio che appare così perfettamente sferica tale da essere stata stata chiamata Teleios (“perfezione”)? 
(Filipović et al., arXiv, 2025)
Secondo un articolo apparso su arXiv, si tratterebbe del risultato di una particolare supernova che ha spazzato via in modo simmetrico tutto il materiale circostante.
La scoperta è stata fatta mediante il radiotelescopio Askap (Australian Square Kilometre Array Pathfinder) che annovera tra le precedenti scoperte gli Orcs (Odd Radio Circles di cui ho scritto QUI). Durante lo studio i ricercatori si sono accorti di una debole luminosità (a lunghezze d’onda lunghe quali le onde radio) associata che faceva pensare ai resti di una supernova di tipo Ia. Ricordo che queste supernova si verificano nei sistemi binari costituiti da una nana bianca e altra stella (in genere più grande e meno densa) da cui la nana bianca cattura materia fino a raggiungere la soglia di massa che innesca la supernova.
Quanto dista da noi? Difficile dirlo con certezza ma si stimano distanze 7-25 mila anni luce, una differenza che ovviamente ha implicazioni sulla dimensione e l’età di questa bolla che sarebbe di 46 o 157 anni luce e 1000 o 10.000 anni, rispettivamente. 
Uno dei problemi nella sua caratterizzazione è data dalla mancata rilevazione di raggi X che invece sono prodotti dalla supernove Ia. Una assenza che ne cambia la classificazione da Ia a Iax, che si differenzia per il fatto che la nana bianca presente non sia andata completamente distrutta (generando una stella di neutroni o un buco nero) lasciando come residuo una stella “zombie”. Se questo fosse il caso, la bolla si troverebbe a 3 mila anni luce da noi e avrebbe un diametro di 11 anni luce.

La stranezza della perfetta sfericità è considerato un fenomeno raro ma non impossibile e sarebbe dovuto al fatto che è avvenuta in una regione di spazio con poco gas e polvere interstellare.


Fonte
Teleios (G305.4-2.2), the mystery of a perfectly shaped new Galactic supernova remnant
Miroslav D. Filipovic et al, (2025) arXiv:2505.04041 [astro-ph.HE]

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Un picco di dopamina cancella le memorie legate alla paura

La sindrome di stress post-traumatico (vedi articoli precedenti seguendo il tag PTSD) colpisce sia i militari di ritorno da teatri di guerra che le vittime di aggressioni e abusi, e rappresenta un problema sanitario importante anche perché di lungo periodo e con gravo conseguenze sulla qualità della vita delle persone colpite (e dei loro familiari).
Negli ultimi anni si è scoperto, grazie ai modelli murini, l’importanza della dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione dell'umore, della motivazione e della risposta allo stress. Alcune ricerche suggeriscono che alterazioni nel sistema dopaminergico possano contribuire ai sintomi del PTSD, influenzando la capacità di elaborare le esperienze traumatiche e modulare le risposte emotive.
La PTSD è associata a disfunzioni neurotrasmettitoriali causate da fattori ormonali attivati dallo stress, che possono cronicizzare anche dopo essere venuti meno gli eventi traumatici originali, e con gli episodi acuti riattivati da "triggers" indiretti come ad esempio una porta che sbatte.
Il sistema dopaminergico interagisce con altre componenti neurobiologiche coinvolte nel PTSD, come l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che regola la produzione di cortisolo e la risposta allo stress.

Avere identificato il sistema dopaminergico come parte in causa del problema permette, potenzialmente, di ipotizzare terapie mirate a ristabilire l’equilibrio nel sistema mediante farmaci modulanti i livelli di dopamina.
Tra i farmaci in uso noti per agire (anche) sui livelli di dopamina vale la pena citare antidepressivi come gli SSRI e gli SNRI, utilizzati per migliorare la regolazione dell'umore e ridurre l'ansia, sebbene il loro effetto sulla dopamina sia indiretto. Alcune ricerche stanno esplorando l'uso di antipsicotici e modulatori dopaminergici per trattare specifici sintomi del PTSD, come le risposte emotive eccessive e la difficoltà di elaborazione del trauma.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista PNAS, si riporta la scoperta che quando la dopamina agisce sui neuroni di una specifica area della amigdala**(1) nota come amigdala basolaterale (BLA)(2), si innesca un meccanismo di "sovrascrittura" delle precedenti memorie capaci di innescare paura, capace  di indurre l'estinzione della paura quando il pericolo è passato.
Fenomeno ben visibile in natura negli erbivori. Subito dopo che il carnivoro di turno (leone, etc) ha catturato la sua preda, gli altri componenti della mandria prima impaurita si fermano a brucare come se nulla fosse successo.
I neuroni che producono questa dopamina si trovano in una regione del cervello nota come area tegmentale ventrale (VTA) (3). Sebbene lo studio sia stato condotto su modelli murini è ben ricordare che le stesse aree esistono negli esseri umani, aree evolutivamente conservate essendo finalizzate agli stessi meccanismi comportamentali.
Tale osservazione suggerisce che i neuroni della BLA potrebbero essere un bersaglio per farmaci che aiutano a trattare condizioni legate alla paura come il disturbo post-traumatico da stress.

Fonte
Dopamine induces fear extinction by activating the reward-responding amygdala neurons
X. Zhang et al. (2025) PNAS



  1. L'amigdala, area cerebrale che fa parte del sistema limbico, ha un ruolo chiave nella regolazione delle emozioni, in particolare della paura e della risposta agli stimoli minacciosi, e nel consolidamento dei ricordi emotivi. Quando percepiamo un pericolo, l'amigdala attiva il meccanismo di "attacco o fuga", preparando il corpo a reagire rapidamente. Nei soggetti affetti da PTSD si nota spesso una iperattivazione della amigdala che si traduce in ipervigilanza, ansia intensa e difficoltà nel regolare le emozioni. Inoltre, il PTSD è associato a una ridotta capacità della corteccia prefrontale di modulare l'attività dell'amigdala, rendendo difficile la gestione delle reazioni emotive (un fenomeno ben evidente nei bambini, in cui il circuito che collega corteccia prefrontale e amigdala non è ancora pienamente sviluppato, il che spiega perché eventi "paurosi" (come un film) inducono paure prolungate anche quando i bambini sono consapevoli che si tratta di eventi fittizi.
  2. La BLA è una regione chiave dell'amigdala coinvolta nella regolazione delle emozioni, in particolare nella memoria della paura e nei processi di apprendimento associativo. Questa area riceve informazioni sensoriali dalla corteccia cerebrale e dall'ippocampo, elaborandole per modulare le risposte emotive e comportamentali. Coinvolta in fenomeni come: la memoria della paura (consolidamento dei ricordi legati a esperienze traumatiche); apprendimento associativo (stimoli neutri vengono associati a risposte emotive); regolazione della risposta allo stress; influenza sul comportamento (comunica con il nucleo accumbens e altre strutture per influenzare la motivazione e la presa di decisioni).
  3. La VTA è una delle principali produttrici di dopamina nel cervello ed è centrale nei meccanismi di ricompensa, motivazione e apprendimento emotivo. La VTA invia dopamina alla BLA, modulando la risposta emotiva agli stimoli stressanti e influenzando la memoria della paura. Studi recenti suggeriscono che la dopamina rilasciata dalla VTA nella BLA non solo rafforza i ricordi della paura, ma (la scoperta di cui si è parlato in questo articolo) è anche coinvolta nel processo di estinzione della paura, aiutando il cervello a riconoscere quando un pericolo non è più presente.


Alzheimer. Nuovi bersagli terapeutici negli enzimi astrocitari che producono il GABA

Gli astrociti, cellule cerebrali che un tempo si pensava avessero solo un ruolo di supporto ai neuroni, sono oggi sotto i riflettori data la loro capacità di influenzare attivamente le funzioni cerebrali.
Una funzione (quella di manutentori e ripulitori) che può prendere una direzione non voluta in presenza di placche amiloidi.
Per approfondimenti circa le potenziali cause della malattia (ipotesi amiloide e non solo) vedi l'articolo precedente. QUI invece un approfondimento sui soggetti che non manifestano alcun sintomo pur essendo portatori delle mutazioni causali l'alzheimer precoce. 
Nella malattia di Alzheimer, gli astrociti diventano reattivi in risposta alla presenza di placche di beta-amiloide (Aβ).
Mentre gli astrociti tentano di eliminare queste placche, il processo innesca una reazione a catena che peggiora la sopravvivenza cellulare. Inizialmente, i detriti cellulari e le placche vengono catturati tramite autofagia a cui segue la loro degradazione attraverso il ciclo dell'urea. Tuttavia, tale processo degradativo provoca una sovrapproduzione di GABA (neurotrasmettitore inibitorio), che riduce l'attività cerebrale e porta a disturbi della memoria. Il processo genera anche perossido di idrogeno (H₂O₂), un sottoprodotto tossico che causa ulteriore morte neuronale esitando in processi neurodegenerativi

Un team di ricercatori coreani ha iniziato ad indagare la causa dell'eccessiva produzione di GABA, sperando di trovare un modo per bloccarne selettivamente gli effetti dannosi senza interferire con altre funzioni cerebrali. Utilizzando approcci di analisi molecolare, imaging ed elettrofisiologia, i ricercatori hanno identificato SIRT2 e ALDH1A1 come enzimi critici coinvolti nella sovrapproduzione di GABA negli astrociti dei malati di Alzheimer.
Nello specifico è stato riscontrato (usando un modello murino di Alzheimer) un aumento della proteina SIRT2 negli astrociti, dato confermato (post-mortem) anche nel cervello di pazienti affetti da Alzheimer.

Gli effetti collaterali della rimozione delle placche amiloidi operata dagli astrociti
(credit: Molecular Neurodegeneration)

A conferma del nesso causale, l'effetto positivo sul recupero della memoria ottenuto inibendo SIRT2 (e a cascata minore espressione di GABA) negli astrociti dei topi malati. 
Recupero mnemonico parziale in quanto limitato alla sola memoria a breve termine (memoria di lavoro) senza invece alcun miglioramento nella memoria spaziale.
SIRT2 partecipa all'ultima fase della produzione di GABA, mentre il perossido viene prodotto nella fase iniziale del processo. È quindi possibile che l'H₂O₂ venga prodotta e rilasciata continuamente dalle cellule anche in assenza di SIRT2; in conseguenza la degenerazione neuronale potrebbe continuare anche usando farmaci che riducono la produzione di GABA, da cui il limite intrinseco a questa terapia se usata singolarmente.

Dato importante emerso dallo studio è stata l'identificazione di SIRT2 e ALDH1A1 come bersagli a valle, scoperta che consentirà ai ricercatori di separare tra loro gli effetti (deleteri) causati dall'eccesso di GABA e di H₂O₂, pesando il contributo individuale.



Fonte
SIRT2 and ALDH1A1 as critical enzymes for astrocytic GABA production in Alzheimer’s disease
Mridula Bhalla et al, (2025) Molecular Neurodegeneration volume 20, Article number: 6 


Alzheimer. Placche amiloidi, sistema immunitario o disfunzioni lisosomali?

Il fallimento delle sperimentazioni cliniche delle terapie anti-Alzheimer centrate sulla rimozione delle placche amiloidi ha messo in discussione l'ipotesi amiloide come (unica) responsabile del morbo di Alzheimer. Discussione che ha spinto ad investigare altri potenziali fattori causali primari (inteso come antecedenti la comparsa delle placche) come attacco immunitario, proteine Tau, virus, colesterolo, infiammazione, etc.
Le terapie anti-amiloide testate erano basate su anticorpi finalizzati ad attivare la risposta immunitaria (e la rimozione) contro le placche amiloidi. Tra queste menziono aducanumab, lecanemab e donanemab che hanno dato (modesti) risultati accompagnati però da effetti collaterali (conseguenza quasi scontata ricordando che la loro funzione è attivare una risposta infiammatoria locale). In un prossimo futuro si prevede l'utilizzo di vaccini a RNA invece dei terapia anticorpali.
Per ulteriori informazioni vi rimando al precedente articolo sul tema o al tag "Alzheimer"
Tra le nuove ipotesi è particolarmente interessante quella proposta da Ralph Nixon della NYU, che vede nella disfunzione dei lisosomi cioè gli organuli cellulari deputati alla distruzione dei prodotti di scarto delle cellule, l'evento causale.
Evidenze prodotte in molti laboratori hanno mostrato che sia nei modelli animali che nelle cellule cerebrali dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer (AD), i lisosomi appaiono ingrossati e disfunzionali ancor prima della comparsa delle placche amiloidi. Lo stesso vale per gli endosomi, anch'essi componenti del meccanismo di eliminazione dei prodotti di scarto delle cellule. L'idea è che una minore efficienza nello smaltimento provochi l'accumulo di prodotti di scarto, tra cui la β-amiloide, all'interno delle cellule cerebrali e a cascata morte cellulare e liberazione nello spazio extracellulare di molecole che fungono da centri di aggregazione per placche sempre maggiori, alterando la funzionalità delle cellule cerebrali adiacenti. 
Questo spiegherebbe per quale motivo la rimozione delle placche amiloidi (ottenuta mediante anticorpi) si sia dimostrata di scarsa utilità: sarebbe come rimuovere un irritante che tuttavia continua ad essere prodotto.
La disfunzione lisosomiale sarebbe causata da una alterazione del pH di questi organelli, insufficientemente acidi perché avvenga la degradazione delle molecole di scarto. A conferma di questa ipotesi esperimenti condotti sui topi con farmaci che riacidificano i lisosomi hanno evidenziato una riduzione delle placche di beta-amiloide e una minore morte cellulare.
Nesso causale confermato anche dalla scoperta che le stesse mutazioni geniche associate al rischio Alzheimer (favorendo la produzione di β-amiloide) alterano anche la funzionalità dei lisosomi.
Nello specifico si ritiene che il frammento di APP (proteina precursore della β-amiloide) che rimane nella membrana endosomale dopo l'azione della β-secretasi, noto come APP-βCTF (o C99), interferisca con le pompe che regolano il pH lisosomiale. Ipotesi rinforzata dall'osservazione che mutazioni nel gene APP, responsabile di alcune forme di Alzheimer familiare (FAD), causano una produzione eccessiva di APP-βCTF. 


APP e le secretasi nella genesi degli aggregati amiloidi
(credit: J. Zhao et al)

Altro gene le cui varianti sono associate al rischio FAD è PSEN1, le cui mutazioni sono state correlate alla comparsa di anomalie funzionali nelle pompe che acidificano i suddetti organelli. 

In sintesi mentre il modello standard (anche noto come ipotesi amiloide) presuppone che le placche di β-amiloide si formino e uccidano i neuroni dall'esterno, il lavoro del gruppo di Nixon ha prodotto una quantità crescente di evidenze che suggerisce il contrario, cioè che "la scintilla della malattia" inizi dentro le cellule (nei lisosomi) per poi diffondersi alle cellule adiacenti attraverso l'accumulo di prodotti di scarto liberati dalle cellule morte. Terapie finalizzate alla sola rimozione delle placche porterebbero nel migliore dei casi ad un rallentamento della progressione della malattia senza però rimuovere le cause della malattia.

Sebbene anche i sostenitori irriducibili dell'ipotesi amiloide concordino con il fatto che l'Alzheimer sporadico sia principalmente un problema di mancata eliminazione dei prodotti tossici, ritengono responsabili di tale carenza le cellule della microglia (deputate alla pulizia e difesa del sistema nervoso centrale). Ipotesi contestata da Nixon secondo cui queste cellule entrano in gioco più tardi nel corso della malattia; la microglia elimina l'amiloide extracellulare, ma questo avviene solo dopo che è stata rilasciata dalla cellula morente.

Ref.
- Makin S. Nature 640, S4-S6 (2025)
- van Dyck, C. H. et al. N. Engl. J. Med. 388, 9–21 (2023). 
- Sims, J. R. et al. JAMA 330, 512–527 (2023).
- Malampati, S. et al. Alzheimers Dement. 20, e095538 (2025).
- Lee, J. H. et al. Nature Neurosci. 25, 688–701 (2022).
- Im, E. et al. Sci. Adv. 9, eadg1925 (2023).


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Nuovi indizi sul legame tra Asgard e proto-eucarioti

In un precedente articolo si era parlato degli Asgard, sottogruppo di Archea, come gli organismi più simili alle cellule che avrebbero originato gli eucarioti.
In estrema sintesi l'albero della vita consta di 3 Domini (Archea, Bacteria e Eucarya), il più recente dei quali il nostro (cioè Eucarya) sarebbe originato dalla "fusione" simbiontica tra un Archea e un batterio. 
Maggiori dettagli negli articoli––> "Asgard" e "Alla ricerca di LUCA". 
Da un ramo degli Archea e una "preda" batterica, l'origine degli eucarioti
Graphic: Florian Wollweber / ETH Zurich
Di particolare interesse sul tema la recente caratterizzazione di un membro degli Asgard, Lokiarchaeum ossiferum, la cui analisi proteica ha permesso di identificare proteine analoghe (funzionalmente omologhe) alle "nostre" actina e tubulina così da fare luce su alcuni dei passaggi evolutivi che hanno accompagnato la transizione tra questi Archea e gli eucarioti.
Lokiarchaeum ossiferum
Image T. Rodrigues-Oliveira, University of Wien

Nella prima dello studio, pubblicato 2 anni fa su Nature, i ricercatori descrissero la struttura cellulare del L. ossiferum, scoperto in Slovenia nei sedimenti di un canale di acqua salmastra, evidenziando la presenza di alcune strutture tipiche degli eucarioti, basate su una proteina molto simile alla actina degli eucarioti.
Questa proteina, chiamata Lokiactin (poi trovata in gran parte degli Asgard), forma strutture filamentose abbondanti nelle protrusioni simili a tentacoli che emanano dal corpo cellulare di questi Archea, che sembrano svolgere un ruolo chiave nel mantenere la architettura cellulare (quello che negli eucarioti chiameremmo citoscheletro).
Il citoscheletro degli eucarioti però è basato (anche) sui microtubuli, polimeri lineari in perenne rimaneggiamento il cui mattone fondante è la tubulina. Questi minuscoli tubi sono importanti per i processi di trasporto all'interno di una cellula e la segregazione dei cromosomi durante la divisione cellulare. L'origine (evolutiva) dei microtubuli è ancora oggi poco compresa essendo (apparentemente) assente negli altri Domini. 
Un recente articolo apparso su Cell pare viene in aiuto a questo mistero riportando la scoperta di proteine (funzionalmente) simili alla tubulina negli Asgard. capaci di assemblarsi a formare microtubuli, sebbene più piccoli di quelli presenti negli eucarioti.
Dato curioso, solo poche cellule di Lokiarchaeum producono i microtubuli. Inoltre, a differenza dell'actina, tali proteine (i geni) sono presenti solo in pochissime specie degli Asgard e non sono state rilevate negli altri Archea.
Graphic: Margot Riggi, Max Planck Institute of Biochemistry
Domanda a cui bisognerà rispondere è perché solo alcuni microbi di Lokiarchaea producono queste strutture e che ruolo rivestono nella funzione cellulare. Come prima anticipato, negli eucarioti i microtubuli sono responsabili dei processi di trasporto all'interno della cellula e vi sono delle proteine ​​motrici che "camminano lungo" questi tubi (chinesina e dineina ad esempio), proteine però mai identificate negli Asgard.
Il fatto che anche nei Lokiarchaea tali strutture siano dinamiche (i monomeri di tubulina si aggiungono ad una delle estremità) rafforzan l'idea che queste svolgano (anche) funzioni di trasporto simili ai microtubuli negli eucarioti.

L'opinione comune attuale è che la comparsa di un citoscheletro sia stato uno dei passaggi più importanti tra quelli che hanno portato agli eucarioti. Possibile quindi che i progenitori di questi Asgard abbiano compiuto, sviluppando queste strutture, il primo passo verso la pluricellularità e la differenziazione funzionale, proprio quando hanno sviluppato strumenti come le "appendici" (protrusioni) cellulari guidate da proteine actiniche con le quali avrebbero catturato e inglobato il batterio dalla cui mancata digestione si sarebbe evoluto un profondo rapporto simbiontico di cui i mitocondri e i plastidi sono testimoni.
Nel tempo, la comparsa del nucleo e dei compartimenti cellulari avrebbe sancito la nascita del Dominio Eukarya.

In sintesi, l'identificazione di proteine e strutture tipo il citoscheletro degli eucarioti (assenti sia nei Bacteria che, in parte, negli altri Archea) rafforza l'ipotesi che tra gli antenati degli Asgard ve ne siano stati alcuni che, dotati della capacità di catturare prede mediante estroflessioni cellulari, abbiano infine dato il via alla fusione simbionte con una preda batterica non digerita. 

Vantaggio ulteriore di queste scoperte è che l'isolamento di queste proto-actine/tubuline permetterà di generare anticorpi specifici utili per scandagliare acquitrini o colture microbiche complesse alla ricerca di nuovi Archea.


Fonte
- Microtubules in Asgard archaea
Wollweber F. et al. (2025) Cell 

- Actin cytoskeleton and complex cell architecture in an Asgard archaeon.




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