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Bastano 3 mila passi per rallentare il declino dell'Alzheimer

(Almeno) 10 mila passi al giorno è il traguardo ben noto a cui tanti di noi si focalizzano per mantenere il fisico in condizioni (cardiovascolari) ottimali anche senza andare in palestra.
Con l'età quello che sembra essere una soglia facilmente raggiungibile diventa più complicata da raggiungere specialmente se si soffre di altri problemi con il risultato di scoraggiare chi più ne avrebbe bisogno dal fare un minimo di attività fisica soprattutto pensando al vecchio motto mens sana in corpore sano.
Un nuovo studio dimostra che anche un ridotto (ma costante) numero di passi al giorno è utile per posticipare la comparsa dei sintomi della demenza anche quando nel cervello sono già evidenti tracce molecolari della malattia.

Nello specifico fare anche solo 3000 passi al giorno sembra ritardare di circa 3 anni  il declino mentale nelle persone il cui cervello ha iniziato a mostrare segni molecolari del morbo di Alzheimer, ma che non hanno ancora manifestato alcun sintomo cognitivo, rispetto a coloro che rimangono sedentari.
Aumentando la soglia a 7500 passi al giorno il declino mentale (in media) è posticipato di 7 anni.
Soglie maggiori sembrano invece non fornire rilevanti benefici aggiuntivi.

Dato che non stupisce visto che il primo effetto di mantenersi attivi è un diminuito rischio di malattie cardiovascolari rispetto a chi si muove il minimo indispensabile come passeggiate di pochi minuti. Se proprio non è possibile fare tanti passi al giorno è almeno importante che questi siano raggruppati in passeggiate lunghe.


Fonte
- Physical activity as a modifiable risk factor in preclinical Alzheimer’s disease.
The multifaceted benefits of walking for healthy aging: from Blue Zones to molecular mechanisms


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L'impianto retinico per recuperare (un poco) la vista persa per degenerazione maculare

Un impianto retinico di nuova concezione si è dimostrato utile per migliorare sensibilmente la vista in persone affette da avanzata degenerazione maculare legata all'età (AMD), la forma più comune di cecità incurabile negli anziani.
AMD è la forma più comune di cecità incurabile nelle persone anziane.
Ne esistono due tipi principali: umida (essudativa, meno comune ma più grave) e secca (non essudativa, rimane la visione periferica mentre quella centrale diviene meno acuta). Lo studio oggi descritto ha coinvolto pazienti affetti dalla forma secca la cui forma avanzata colpisce circa cinque milioni di persone in tutto il mondo. 
Ad essere danneggiate sono le cellule fotosensibili (coni e bastoncelli) mentre i neuroni retinici, deputati a convogliare il segnale elettrico alle regioni cerebrali deputate all'elaborazione visiva, non sono toccati. Questo spiega il senso di inserire un impianto per sostituire i sensori della luce e veicolare il segnale ai neuroni.
Impianto per forza di cose invasivo consistente nell'inserimento dello stesso appena sotto la retina dove sono localizzate le cellule fotosensibili danneggiate/morte alla base della malattia. I sensori lì posizionati ricevono le immagini catturate da appositi occhiali dotati di telecamera, e il segnale viene infine convogliato (mediante stimolo elettrico) ai neuroni retinici sopravvissuti.
L'impianto, denominato PRIMA (photovoltaic retina implant microarray), sviluppato da Pixium Vision  (oggi nota come Science Corporation) è wireless ed essendo fotovoltaico, i fotoni che lo attivano forniscono anche la fonte di energia per alimentarsi.
Gli occhiali con telecamera veicolano l'immagine all'impianto retinico sotto forma di un pattern a luce infrarossa
Risultato finale riacquistavano la capacità di distinguere le lettere e leggere parole. Si tratta chiaramente di primi passi nello sviluppo di una tecnologia che dovrebbe, nel futuro, permettere ai pazienti di recuperare una capacità visiva sufficiente per le attività giornaliere ma che per il momento è limitata e necessita di mesi di addestramento ai nuovi input visivi
L'impianto sottoretinico (a destra) misura 2x2 millimetri e ha uno spessore di soli 30 micrometri

I risultati sopra riassunti sono descritti in uno studio clinico, pubblicato sul New England Journal of Medicine, che ha coinvolto 38 persone con AMD avanzata in 5 paesi europei.
I dati mostrano che a distanza di un anno dall'impianto l'80% dei partecipanti mostrava un miglioramento clinicamente significativo della vista. Nonostante alcuni eventi minori correlati all'intervento il rapporto rischio-beneficio si è confermato positivo.


Fonte
- Subretinal Photovoltaic Implant to Restore Vision in Geographic Atrophy Due to AMD
Frank G. Holz et al, (2025) NEJM

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Vaccini contro il Covid e gli effetti (positivi) sulla sopravvivenza al cancro

Uno studio pubblicato su Nature suggerisce che i vaccini a mRNA contro il COVID-19 rendono le terapie antitumorali più efficaci.
Vero che con tutte le fufferie pubblicate oggi un tale risultato risulterebbe quantomeno sospetto ma il risultato non è in sé sorprendente proprio per il meccanismo d'azione del vaccino.
Proprio come il virus del morbillo è pericoloso non per la malattia che causa ma perché agisce spegnendo il sistema immunitario (rendendo l'organismo preda di microbi opportunisti) così i vaccini, e quello a RNA contro il COVID in particolare, agiscono stimolando la risposta immunitaria rendendo "visibili" bersagli prima poco immunogeni. E la immunoterapia antitumorale ne trarrebbe un beneficio indiretto.

Ma andiamo con ordine
Un primo articolo su questo effetto indiretto fu pubblicato dallo stesso team di ricercatori ad inizio 2025, studio basato sull'evidenza sperimentale che l'interferone 1 è in grado di massimizzare la risposta immunitaria e che i vaccini a RNA paiono attivare proprio questo tipo di interferone, evento che rende i tumori più "responsivi" al trattamento.
Il nuovo studio (pubblicato nelle scorse settimane) ha preso in esame i dati retrospettivi della sopravvivenza di pazienti (più di 1000) in terapia durante la pandemia che avevano ricevuto, nello stesso periodo, anche il vaccino, con studi condotti sugli animali di laboratorio per comprendere l''effetto indiretto del vaccino sulla terapia antitumorale.
I dati ottenuti hanno mostrato chiaramente che i pazienti che avevano ricevuto il vaccino a mRNA contro il COVID-19 entro 100 giorni dall'inizio dell'immunoterapia avevano una probabilità più che doppia di essere ancora vivi 3 anni dopo rispetto a coloro che non avevano ricevuto nessuno dei due vaccini (dati ovviamente normalizzati per i soli pazienti che non erano morti di COVID nel frattempo).
Nello specifico il gruppo vaccinato aveva un tasso di sopravvivenza globale a 3 anni del 55,7%, rispetto al 30,8% del gruppo non vaccinato, il che si traduce in una riduzione del 49% del rischio di mortalità associato al cancro.
Altro dato importante da menzionare è la terapia antitumorale di ultima generazione a cui tutti questi pazienti erano stati sottoposti era basata sugli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI), che in termini semplici funzionano inducendo il proprio sistema immunitario a riconoscere e distruggere il tumore.
Uno dei meccanismi che spiega la resilienza dei tumori è che alcuni di questi si "nascondono" (letteralmente) dal sistema immunitario "spegnendo" le cellule immunitarie di pattuglia dando loro un falso messaggio che si traduce in "queste cellule sono ok. Nessun attacco".
Gli inibitori dei checkpoint consentono alle cellule immunitarie, come i linfociti T, di riconoscere ed eliminare le cellule tumorali in modo più efficace. Il problema è che questa terapia avanzata funziona solo per una frazione di pazienti in quanto alcuni tumori continuano a rimanere "invisibili" al sistema immunitario anche quando rafforzato.
I vaccini a mRNA danno una "scossa" al sistema che diventa ancora più efficiente nello scovare qualunque cosa sia anomala (dai microbi alle cellule malate).
Dato confermato dagli studi sugli animali che hanno evidenziato come tra gli effetti di questi vaccini vi sia una impennata nella produzione di interferoni di classe I, in particolare di uno chiamato interferone alfa. Incremento che induce una attivazione del sistema immunitario innato, che facilita il lavoro dei linfociti T nel riconoscere e attaccare gli antigeni associati al tumore. L'azione dei linfociti T in genere provoca una risposta difensiva da parte delle cellule tumorali che iniziano a produrre una molecola che agisce come un freno sul sistema immunitario; freno che però in questo caso viene reso inefficace dalla terapia con inibitori dei checkpoint immunitari.
Bisognerà ora capire come sfruttare questo sistema in modo che sinergizzi con ogni terapia antitumorale.

Fonti
- SARS-CoV-2 mRNA vaccines sensitize tumours to immune checkpoint blockade
Adam J. Grippin et al, (2025) Nature
- Sensitization of tumours to immunotherapy by boosting early type-I interferon responses enables epitope spreading.
Qdaisat S. et al. (2025) Nat. Biomed. Eng

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Dimezzati i casi di allergie (arachidi) nei bambini grazie alla dieta (con arachidi)

Non è una novità che, per motivi tuttora poco compresi, negli ultimi decenni si sia registrata una impennata dei casi di allergie tra i bambini.
Tra le ipotesi credibili vi è la cosiddetta ipotesi dell'igiene che vede come responsabile il fare crescere i bambini in ambienti poveri di allergeni quando il sistema immunitario sta ancora maturando
Tra le procedure preventive dimostratesi efficaci vi è l'esposizione precoce agli allergeni in modo da indurre tolleranza agli stessi. 
Risultati positivi vengono dagli USA dove l'allergia alle arachidi nei bambini sotto i tre anni sono diminuite del 43% dopo l'introduzione di linee guida in cui si raccomandava l'alimentazione con cibi contenenti arachidi dopo lo svezzamento. Linee guida derivate da uno studio in cui un campione di un centinaio di neonati era stati inseriti in studi clinici che prevedevano una dieta priva o contenente arachidi. Raggiunti i 5 anni i bambini che erano stati esposti al cibo con arachidi mostrarono una minore incidenza di allergie (alle arachidi) rispetto ai controlli la cui dieta non conteneva arachidi.

I dati recenti sulla popolazione infantile generale dimostrano l'efficacia delle linee guida

Fonti
Peanut Allergies Have Plummeted in Children, Study Shows

Guidelines for Early Food Introduction and Patterns of Food Allergy
Pediatrics (2025)

Randomized Trial of Peanut Consumption in Infants at Risk for Peanut Allergy
NEJM (2015)

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Approvato in USA nuovo test del sangue per (escludere) l'Alzheimer

La Food and Drug Administration (FDA, ente responsabile per l'approvazione di farmaci e test diagnostici in USA) ha approvato l'utilizzo di un test del sangue nella diagnosi (insieme ad altri parametri clinici) del morbo di Alzheimer.
Credit: Chiara Vercesi (Nature)
Non un primato in assoluto visto che c'è ne è già un altro in uso in clinica ma di utilizzo limitato ai soli addetti ai lavori (vedi anche articolo precedente).
Il nuovo test misura le proteine ​​correlate all'Alzheimer e serve principalmente come parametro negativo  per escludere la malattia in persone con declino cognitivo dovuto ad altre cause.
Il test è stato sviluppato dalla Roche e, secondo quanto affermato dall'azienda, si è rivelato in grado di escludere l'Alzheimer nel 97,9% dei casi di soggetti con declino cognitivo.

Fonte
Faster, cheaper, better: the rise of blood tests for Alzheimer’s
Nature (2025)
- Blood tests are now approved for Alzheimer’s: how accurate are they?
Nature (2025)

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Non solo scienza.
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Almeno nei la forma fisica passa da padre in figlio

Un detto popolare sembra fatto apposta per descrivere anche l'ereditarietà di tratti non prettamente genetici, nel senso di caratteristiche conseguenti all'esperienza e non a quanto codificato dai geni.
Nota. Fenomeno ben noto quello di eventi esterni che dopo avere agito sui genitori, molto prima che diventassero tali, hanno manifestato i loro effetti sulla progenie. Il caso meglio studiato è quello degli effetti sui figli di quelle che erano ancora bambine durante la grave carestia che colpì alcune aree dell'Olanda nel 1944 (--> articolo). Lo studio degli effetti  duraturi sull'espressione genica, senza che vi sia una variazione nell'informazione del gene stesso, va sotto il nome di epigenetica. 
Nello specifico della notizia odierna la scoperta che topi maschi sottoposti ad allenamento costante possono trasmettere la loro forma fisica alla prole maschile.
Credit: Science
I ricercatori hanno scoperto che i topi atletici avevano livelli aumentati di 10 tipi di microRNA nello sperma rispetto ai topi "non palestrati"; i microRNA coinvolti hanno effetti sul metabolismo e la funzione muscolare durante lo sviluppo embrionale. Risultato netto una prole maschile in grado di correre più a lungo su un tapis roulant rispetto a quella originata da padri più sedentari. 
Meccanismi simili potrebbero esistere (ma non è provato) anche negli esseri umani data la scoperta dell'esistenza di aumentati livelli di microRNA simili nello sperma di uomini atletici.


Fonte
Paternal exercise confers endurance capacity to offspring through sperm microRNAs
Xin Yin et al, (2025) Cell Metabolism


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Nanoparticelle per (future) terapie dell'Alzheimer

Terapia sperimentale con nanoparticelle si è dimostrata capace, nei topi, di attenuare (e in parte invertire) la malattia di Alzheimer (AD).
A differenza della nanomedicina tradizionale, che si basa sull'utilizzo di nanoparticelle come vettori per il trasporto in situ di molecole terapeutiche, l'approccio provato in questa sperimentazione è stato usare nanoparticelle bioattive o farmaci supramolecolari (italianizzazione del termine originale). 
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Signal Transduction and Targeted Therapy.

L'approccio terapeutico non aveva come obiettivo i neuroni ma era mirato a ripristinare il corretto funzionamento della barriera emato-encefalica (BBE, vedi nota fondo pagina), la struttura vascolare che regola lo scambio di nutrienti e fornisce protezione all'ambiente cerebrale (condizioni locali e da ingresso di molecole indesiderate o patogeni). In seguito alla riparazione di questa interfaccia è stato osservato un miglioramento dei sintomi principali della malattia in modelli murini per la AD.

Per funzionare al meglio, il cervello (area dell'organismo che consuma molta energia e risorse) necessita di un afflusso costante di sangue che viene regolato finemente nei suoi distretti microscopici in base all'attività locale, dove un singolo capillare si prende cura di uno o pochi neuroni.
L'anatomia del cervello con il suo miliardo di capillari, ben evidenzia il ruolo vitale della vascolarizzazione nel mantenere la funzionalità ottimale, pena malattie fortemente invalidanti come ben evidenziato dalle conseguenze dell'ictus.
In questo ambito di controllo accurato, centrale è il ruolo della BEE, una barriera cellulare e fisiologica che separa il cervello dal flusso sanguigno, proteggendolo da pericoli esterni come patogeni e tossine.

Gli autori dello studio hanno mostrato gli effetti positivi successivi al ripristino dei sistemi che permettono alle "proteine ​​di scarto" prodotte nel cervello di attraversare questa barriera, finendo nel flusso sanguigno e da lì alla loro eliminazione, e i danni che si accumulano quando la "pulizia" viene meno. Nel morbo di Alzheimer, la principale proteina di "scarto" è la beta-amiloide, il cui accumulo compromette il normale funzionamento dei neuroni.
Rimando ad articoli precedenti l'importante e irrisolto dibattito sulla centralità della ipotesi amiloide rispetto ad altre ipotesi sull'origine della malattia. Vedi "amiloide o lisosomi?" e "ruolo del colesterolo nell'AD".
Lo studio si è avvalso di topi geneticamente modificati che producono alti livelli di beta amiloide, condizione che innesca un progressivo declino cognitivo che mima la AD.

Nella malattia di Alzheimer, uno dei problemi principali è che il sistema naturale di eliminazione delle proteine ​​tossiche come la beta-amiloide è poco o nulla efficiente. Nei soggetti sani è la proteina LRP1 a svolgere un ruolo chiave: riconosce e lega la beta amiloide, trasportandola attraverso la BEE nel flusso sanguigno, dove viene veicolata ai centri di eliminazione. Il sistema è però fragile: se LRP1 lega troppa beta amiloide (o il legame è troppo forte), il trasporto si blocca e la proteina LRP1 stessa viene degradata all'interno delle cellule della barriera cerebrale, lasciando meno trasportatori di LRP1 disponibili.
D'altra parte, se si lega troppo poco, il segnale è troppo debole per innescare il trasporto.
Schema del trasporto di LRP1 attraverso le cellule endoteliali cerebrali (a) seguendo il percorso PACSIN2 o Rab5 e la sua relazione con il carico multivalente. Espressione di LPR1 nelle cellule endoteliali cerebrali (b) in funzione della valenza del carico.
(Image credit: Junyang Chen et al)
I topi sintomatici sono stati trattati con le suddette nanoparticelle monitorando nel tempo, rispetto ai controlli non trattati, l'evoluzione della malattia attraverso vari test.
In uno dei test il topo trattato di 12 mesi (equivalente a un essere umano sintomatico di 60 anni) recuperava nel giro di 6 mesi i tratti comportamentali di un topo sano grazie al ripristino della vascolarizzazione cerebrale e alla rimozione della beta-amiloide dal cervello.

Immagini al microscopio a fluorescenza del cervello di topi 12 ore dopo il trattamento (a sinistra, a destra i controlli non trattati) con nanoparticelle. In rosso l'accumulo di placche di beta-amiloide. In verde i vasi della barriera emato-encefalica (image: Junyang Chen et al)


I farmaci supramolecolari sviluppati dai ricercatori agiscono come un interruttore che resetta il sistema. Imitano funzionalmente i ligandi di LRP1, legando il trasportatore riavviando il trasporto attraverso la barriera emato-encefalica ripristinando "l'ingranaggio bloccato"
Nota. La BEE è costituita da una combinazione di cellule (endoteliali, periciti, astrociti) e strutture (membrana basale) che formano un filtro altamente selettivo tra il sangue e il cervello. Anche alle cellule immunitarie è precluso l'ingresso per evitare di innescare infiammazione nel cervello.
Le molecole ad accesso libero (diffusione passiva) sono acqua, ossigeno, CO2 e molecole liposolubili e ormoni steroidei.
Altre molecole importanti necessitano invece di trasportatori specifici (meccanismi attivi). Questo è il caso del glucosio,  aminoacidi essenziali, nucleosidi, alcune vitamine idrosolubili.
Tra i meccanismi che espellono molecole verso il flusso sanguigno il più importante è quello mediato dalla P-glicoproteina

Fonte
Multivalent modulation of endothelial LRP1 induces fast neurovascular amyloid-β clearance and cognitive function improvement in Alzheimer’s disease models
Junyang Chen et al (2025) Signal Transduction and Targeted Therapy


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L'interruttore per bloccare il dolore cronico?

Uno studio condotto sui topi ha dimostrato l'esistenza di un piccolo gruppo di cellule cerebrali centrali per la comparsa del dolore cronico.
Le cellule si trovano in una zona del cervello nota nuclei parabrachiali che si attivano in risposta a uno stimolo doloroso e rimangono attive a lungo anche quando lo stimolo è scomparso. 
Credit: N. Goldstein et al
Nuclei parabrachiali nel topo (credit: wikipedia)
Durante i test i ricercatori hanno bloccato l'attività di questi neuroni, provocando la diminuzione del dolore cronico mentre la risposta a stimoli dolorosi acuti rimaneva intatta.
Non è ancora chiaro se negli umani esista una equivalente via dolorifica ma se venisse confermata diventerebbe un bersaglio perfetto per il trattamento del dolore cronico che, ricordiamolo, è tra le cause principali della epidemia degli oppiacei in USA

Fonte
Brain area linked to chronic pain discovered — offering hope for treatments
Nature (2025)
A parabrachial hub for need-state control of enduring pain
Nitsan Goldstein et al, (2025) Nature


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Nobel per la Fisica 2025 per avere inventato una super spugna

Il Premio Nobel 2025 per la chimica è andato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar Yaghi per aver sviluppato i materiali solidi più porosi al mondo, noti come strutture metallo-organiche (MOF). 

Strutturati come impalcature molecolari, i MOF contengono al loro interno vaste "caverne" vuote in cui può essere intrappolato un gas. Talmente capienti (vedi la legenda della figura sotto) da avere fatto venire in mente a Heiner Linke, presidente del comitato per il Nobel, la "borsa di Hermione in Harry Potter" (o per noi più vecchi le tasche di Eta Beta).
Uno dei MOF più capienti, noto come DUT-60, ha una superficie interna di 7839 metri quadrati per grammo di materiale! (credit: Nature)
Nei 30 anni trascorsi dal loro primo sviluppo, i MOF sono stati impiegati, ad esempio, per catturare il carbonio dall'aria  e rimuovere dall'acqua alcune molecole inquinanti "eterni" dall'acqua.



Fonte
World’s most porous sponges: intricate carbon-trapping powders hit the market
Nature (2025)


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Replica ufficiale (The Noble Collection) della borsa di Hermione Granger
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L'impianto cerebrale che ha permette a un uomo affetto da SLA di tornare a "parlare" (e a cantare)

La notizia risale a prima dell'estate ma vale la pena ripescarla in quanto indicativa delle potenzialità terapeutiche degli impianti cerebrali (trattati in maniera estesa in un precedente articolo)

Un impianto cerebrale permette a un uomo di parlare e di cantare grazie ad un dispositivo che traduce i pensieri e le parole (pensate) in tempo reale. Parlare, ben inteso, con le varie sfumature espressive e non come fosse una sterile voce sintetica. 
Il dispositivo trasmette i cambiamenti di intonazione quando pone domande, enfatizza le parole che sceglie e gli permette di canticchiare una serie di note in tre tonalità.
Lo studio effettuato su una persona affetta da una grave disabilità linguistica, conseguenza della SLA,  ha dimostrato come il sistema sia in grado di decodificare l'attività cerebrale del soggetto e produrre la voce sintetica in soli 10 millisecondi dal momento in cui "nasce" l'attività neurale che indica la volontà di parlare.
In colore la corteccia motoria in cui sono stati impiantati gli elettrodi
(Kateryna Kon/Science Photo Library)
Il sistema, noto come interfaccia cervello-computer (BCI), ha utilizzato l'intelligenza artificiale per decodificare l'attività cerebrale elettrica del partecipante mentre cercava di parlare. Si tratta del primo dispositivo del genere, che non si limita a "esprimere" le parole ma anche caratteristiche del linguaggio naturale come intonazione ed enfasi, caratteristiche fondamentali nella comunicazione interpersonale.
Un miglioramento significativo rispetto ai sistemi precedenti in cui l'intervallo di tempo tra segnale neurale e voce avveniva in circa 3 secondi (o al termine della frase "pensata")
La reazione del paziente alla sua voce sintetica
(Credit: UCD)
Il BCI installato ha richiesto un intervento chirurgico per posizionare 256 elettrodi in silicio, ciascuno lungo 1,5 mm, nell'area cerebrale che controlla il movimento dei muscoli necessari per parlare. Attraverso algoritmi di deep learning il sistema è stato addestrato a catturare i segnali nel suo cervello ogni 10 millisecondi, decodificando i suoni che l'uomo tentava di produrre, anziché le parole che intendeva o i fonemi costituenti (le subunità del linguaggio che formano le parole pronunciate).

Il team ha anche personalizzato la voce sintetica per renderla più simile possibile a quella originale grazie ad algoritmi dedicati che hanno "lavorato" su registrazioni di interviste effettuate prima della comparsa dei sintomi.

Altro elemento di novità, la richiesta al paziente di provare a emettere interiezioni come "aah", "ooh" e "hmm" e di pronunciare parole inventate. Il BCI è riuscito a riprodurre questi suoni, dimostrando di poter generare un discorso senza bisogno di un vocabolario fisso.

Il risultato finale è stata la produzione di parole e la capacità di rispondere a domande aperte, esprimendo ciò che voleva usando anche parole che non facevano parte dei dati usati per addestrare la IA. 
Durante altri test il sistema ha correttamente interpretato la volontà del soggetto, riproducendo in modo corretto la frase come una affermazione o come una domanda, e variare l'accento in parole diverse regolando l'intonazione.

Se non vedi il video clicca --> youtube

Fonte
- An instantaneous voice-synthesis neuroprosthesis

An Accurate and Rapidly Calibrating Speech Neuroprosthesis
Nicholas S. Card et al, (2024) NEJM 391 (7)


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Per quanto possa sembrare scontato, il modo migliore per sviluppare la memoria e le capacità dei bambini è dare loro giochi manuali invece di tablet et similia. Un classico sempre verde il gioco della Ravensburger 
Immagine e link da Amazon



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Ig-Nobel 2025. Premiato l'articolo italiano sulla cacio e pepe

Ogni anno torniamo agli articoli vincitori degli Ig-Nobel in quanto sempre interessanti. Del resto il premio, nato decenni fa all'università di Harvard, nasce proprio per segnalare una ricerca che "prima fa ridere, poi fa riflettere". 
Se ridere e poi riflettere è il tratto distintivo, quest'anno i partecipanti alla premiazione proveranno anche un certo languorino dato tra le ricerche premiate (categoria "Fisica") c'è quella sul come preparare la salsa perfetta per fare la pasta cacio e pepe, piatto romano per eccellenza.
 I ricercatori, tutti italiani sebbene afferenti a diversi istituti di ricerca in Europa, coordinati da Fabrizio Olmeda, fisico presso l'Istituto di Scienza e Tecnologia Austriaco (ISTA), si sono cimentati in questo compito frustrati dalla variabilità nella riuscita del piatto ogni volta che vi si cimentavano. Di fronte alla variabilità non restava che usare il metodo scientifico per creare una ricetta (in laboratorio lo chiameremmo "protocollo") affidabile.
Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.

Banalità? Non proprio. Preparare un sugo perfetto non significa solo mescolare i pochi ingredienti essenziali (pecorino, acqua di cottura della pasta, pepe), perché il risultato più comune sarà un sugo grumoso, simile alla mozzarella.
L'acqua di cottura della pasta (presente in ogni ricetta della cacio e pepe) serve a fornire l'amido importante per emulsionare e stabilizzare il sugo, ma da solo non è sufficiente. A temperature superiori a 65 gradi le proteine ​​del formaggio si denaturano e si aggregano, causando la disgregazione del composto.
Credit: Physics of Fluids (2025)

Per ottenere un sugo perfetto bisogna aggiungere all'acqua la giusta quantità di amido in polvere (2-3% del peso del formaggio) finché non diventa limpida e si addensa come un gel. A questo punto si mescola il gel con il formaggio a bassa temperatura in modo che l'amido si leghi alle proteine ​​e prevenga la formazione di grumi. Il pepe viene aggiunto alla fine prima di mescolare la pasta con il sugo direttamente nella padella (nel caso si può aggiungere altra acqua di cottura per ottenere la giusta consistenza).

Ricapitolando ecco la ricetta "perfetta"
  • 4 g di amido (di patate o di mais)
  • 40 ml di acqua (per amalgamare l'amido)
  • 160 g di Pecorino Romano
  • 240 g di pasta (preferibilmente tonnarelli)
  • Acqua di cottura della pasta
  • Pepe nero e sale (a piacere)

Effetti collaterali di questo articolo? Avvicinare al metodo scientifico anche chi con esso non ha familiarità.


Tra gli altri vincitori meritano una menzione Tomoki Kojima (cat. Biologia) per aver dimostrato che dipingere le mucche con strisce bianche e nere può impeedire alle mosch di pungerle senza bisogno di pesticidi, o all'olandese per avere osservato che bere alcol, a volte ti permette di migliorare la capacità di parlare lingue straniere (lista completa QUI)


Fonte
Phase behavior of Cacio e Pepe sauce
G. Bartolucci et alPhysics of Fluids 37, 044122 (2025) 
 
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Sul tema scienza e cucina non posso che consigliare gli ottimi volumi tematici di Dario Bressanini. Sempre nella mia libreria a portata di mano (link immagine ad Amazon)






Taccuino di fisica - Le 10 leggi che spiegano l'universo (Massimo Temporelli).
Non un libro di testo, né divulgazione. Una via di mezzo riuscita alla perfezione

I misteriosi "puntini rossi" visti dal JWST sono "stelle buchi neri"?

Rappresentazione artistica di un BH*
(© MPIA/HdA/T. Müller/A. de Graaff)
Nell'estate del 2022, dopo poco meno di un mese dall'entrata in funzione del telescopio spaziale James Webb (JWST), gli astronomi rilevarono nelle immagini catturate dalle profondità dello spazio dei piccoli puntini rossi la cui luce cadeva nel medio infrarosso, al di là della sensibilità di Hubble, il telescopio migliore fino ad allora disponibile.
Alcuni dei "piccoli puntini rossi" scoperti dal JWST
(Image: wikipedia)
Ulteriori dati mostrarono che questi oggetti erano distanti non meno di 12 miliardi di anni luce, quindi una luce originata circa 1,8 miliardi di anni dopo il Big Bang.
Ok. Nulla di strano se uno pensa che sono stati visti segnali risalenti a poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Tuttavia questi "puntini rossi" non erano catalogabili (per le caratteristiche spettrali) con nessuno dei modelli stellari standard.

Una delle prime interpretazioni fu che i piccoli puntini rossi fossero galassie estremamente ricche di stelle, la cui luce era resa rossa da enormi quantità di polvere circostante.
Nella nostra galassia, la Via Lattea, l'unica regione così densa di stelle è il nucleo centrale, che però contiene solo circa un millesimo delle stelle necessarie per spiegare - secondo il modello proposto - i puntini rossi. Altro problema è che l'elevato numero di stelle necessarie, pari a centinaia di miliardi di masse solari, poneva seri problemi di fattibilità in un universo così giovane.
In contrapposizione a questo modello, altri astronomi erano più dell'idea che i piccoli puntini rossi fossero nuclei galattici attivi oscurati da una ingenti quantità di polvere.
I nuclei galattici attivi sono ciò che vediamo quando un flusso costante di materia cade sul buco nero centrale di una galassia, formando un disco di accrescimento estremamente caldo attorno all'oggetto centrale.

La seconda interpretazione poneva  una serie di limitazioni dovute agli spettri e necessitava, per essere testata, di tempi di osservazione più lungo il che richiedeva occupare più slot di osservazioni tra quelli offerti a chi necessitava sfruttare il JWST. 

Tra i puntini rossi il più interessante (per le caratteristiche spettrali) di tutti era quello proveniente dal "puntino" soprannominato "The Cliff" distante 11,9 miliardi di anni.

The Cliff" prende il nome dalla caratteristica più evidente del suo spettro: un forte picco nello spettro che apparirebbe nella regione appena oltre la soglia del visibile nel violetto. "Apparirebbe" perché il nostro universo è in espansione quindi la lunghezza d'onda si allunga fino a quasi cinque volte il suo valore originale, il che indica spiega perché lo spettro osservato del Cliff non sia nell'ultravioletto ma nell'infrarosso ("redshift cosmologico").
Nessun modello stellare esistente si adattava a The Cliff, che assomigliava più allo spettro di una singola stella che a quello di una galassia con un buco nero.

Era necessario un nuovo modello che ha preso il nome di "stella buco nero" (BH*): un nucleo galattico attivo, ovvero un buco nero supermassiccio e il suo disco di accrescimento, circondato e arrossato non da polvere, ma da uno spesso involucro di idrogeno gassoso.
BH* non è una stella in senso stretto, poiché al suo centro non avviene alcuna reazione di fusione nucleare come al centro di una qualsiasi stella (e che fornisce energia radiante per sostenere gli strati superiori evitando di collassare in un buco nero). Inoltre, il gas nell'involucro deve "turbinare" molto più violentemente rispetto a qualsiasi atmosfera stellare ordinaria.
Fatte queste premesse la fisica di base di un BH* è simile: il nucleo galattico attivo riscalda l'involucro di gas circostante, proprio come il centro di una stella, alimentato dalla fusione nucleare, riscalda gli strati esterni della stella, quindi l'aspetto esterno presenta notevoli somiglianze.

"The Cliff" sarebbe un esempio estremo in cui la BH* centrale domina la luminosità dell'oggetto mentre la luce degli altri puntini rossi sarebbe una mix uniforme della stella buco nero centrale con la luce delle stelle e del gas nelle parti circostanti della galassia.

Se questa ipotesi (BH*) fosse davvero la soluzione, potrebbe avere un altro potenziale vantaggio. 
Sistemi di questo tipo erano stati precedentemente studiati in un contesto puramente teorico, con buchi neri di massa intermedia molto più leggeri. In quel contesto, la configurazione con buco nero centrale e involucro di gas circostante era vista come un modo per far crescere rapidamente la massa dei buchi neri centrali di galassie primordiali. Dato che il JWST ha trovato prove concrete dell'esistenza di buchi neri di grande massa nell'universo primordiale, una configurazione che potrebbe spiegare la crescita ultrarapida della massa dei buchi neri sarebbe un'aggiunta gradita agli attuali modelli di evoluzione delle galassie. 

Come può essersi formata una stella buco nero di questo tipo? Come può l'insolito involucro di gas essere mantenuto a lungo (su scala cosmica) visto che il buco nero divora il gas circostante e serve quindi un meccanismo per "rifornire" l'involucro? 
Per avere risposte serviranno altri dati e forse nuovi modelli

Fonte
A remarkable Ruby: Absorption in dense gas, rather than evolved stars, drives the extreme Balmer break of a Little Red Dot at z=3.5
Astronomy & Astrophysics, 701, A168 (2025)

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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


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