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Insulina e diabete. In un prossimo futuro un cerotto sostituirà l'ago

Ricercatori cinesi hanno sviluppato una crema basata su un polimero permeabile alla pelle in grado di rilasciare insulina nell'organismo, che potrebbe un giorno rappresentare un'alternativa alle iniezioni per la gestione del diabete.

Nei test di laboratorio condotti su modelli animali, l'insulina legata al polimero riesce a penetrare attraverso gli strati cutanei senza causare danni e a ridurre i livelli di glucosio nel sangue a una velocità paragonabile a quella dell'insulina iniettata.


Fonti
- Insulin cream offers needle-free option for diabetes
Nature (2025)

A skin-permeable polymer for non-invasive transdermal insulin delivery
Qiuyu Wei et al, (2025) Nature









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Letargo e migrazione sono comportamenti innescati da un gene

Le giornate si accorciano sempre più, specie qui al nord, e gli animali (umani compresi) rispondono alla diminuzione delle ore di luce variando metabolismo e comportamento (come preparazione al letargo o alla migrazione). 
Un riccio in letargo (credit: University of Glasgow)
Sebbene sia ben noto il legame tra stimoli ambientali per scandire gli eventi fenologici, lo studio di oggi (pubblicato sulla rivista eLife) è il primo che dimostra il meccanismo genico intrinseco di questi comportamenti stagionali nei mammiferi, che, fino ad ora, era rimasto sfuggente.

Studi precedenti avevano già mostrato le correlazioni tra variazioni ambientali e l'espressione genica; questo studio è però il primo che dimostra che è il gene Dio3** ad essere fondamentale per impostare l'orologio stagionale interno dei mammiferi; gene che deve essere attivo perché si inneschi il letargo invernale.

Il gene è presente in pressoché tutti i vertebrati (mammiferi, pesci, uccelli e rettili) con un grado di conservazione che indica un ruolo importante, per quanto le azioni indotte possano essere diverse nei diversi animali anche appartenenti alla stessa Classe. Semmai un criterio importante nella "forza" della risposta è data dalla latitudine in cui il particolare animale si è adattato; a latitudini corrispondenti a climi temperati (ad es. Europa) il gene è più attivo rispetto a quelli che vivono nella fascia delimitata dai Tropici spiegabile con la minore variabilità inter-stagionale in queste aree delle ore di luce e quindi alla minore (o nulla) necessità di attivare comportamenti preventivi.

I risultati sono stati ottenuti mediante l'analisi del trascrittoma fatta sul criceto Djungarian con campionamento periodico e monitoraggio comportamentali.
All'accorciarsi delle giornate (o più correttamente all'aumentare delle ore di buio) il gene Dio3 diviene sempre più attivo, il che a cascata attiva una sorta di orologio semestrale in cui avviene il letargo. Una volta terminata la fase di attività del gene (periodo che corrisponde alla primavera) i criceti tornano spontaneamente (cioè senza bisogno di altri stimoli) alla vita "estiva".

Capire come e quando i geni sono attivi durante la stagione fornisce una migliore conoscenza del meccanismo alla base della salute annuale e, soprattutto, delle potenziali cause di malattie acute o croniche che in alcuni individui (sensibili al buio invernale) risultano più frequenti.

Fonte
Hypothalamic deiodinase type-3 establishes the period of circannual interval timing in mammals


** Il gene Dio3 (Deiodinasi di tipo 3) innesca effetti metabolici principalmente attraverso l'inattivazione degli ormoni tiroidei, fungendo da "guardiano" che riduce la loro attività ad esempio disattivando la tiroxina (T4) in triiodotironina inversa (rT3) e la triiodotironina (T3) in 3,3'-diiodotironina (T2). Sia rT3 che T2 sono forme inattive.


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Il legame tra i neuroni GABAergici e la schizofrenia

La schizofrenia deriva da uno sviluppo cerebrale anomalo che inizia già in fase embrionale ma i cui sintomi si manifestano decenni dopo la nascita.
Secondo i ricercatori è come se il cervello riuscisse per molto tempo a compensare gli errori dello sviluppo così da mantenere una funzionalità relativamente normale fino a quando (in genere con l'adolescenza) i cambiamenti accumulatisi sarebbero  così ampi da non poter essere più compensati. Da qui la comparsa dei sintomi, tradizionalmente associati ad una eccessiva neurotrasmissione dopaminergica nel cervello e nel sistema nervoso centrale.

Bando alle ciance e torniamo al lavoro odierno.
Per caratterizzare le anomalie dei segnali che si accumulano dopo la nascita, i ricercatori hanno usato come modelli dei topi modificati, portatori di una specifica mutazione genetica nota come "sindrome da microdelezione 15q13.3".
Negli esseri umani, questa sindrome è associata a epilessia, schizofrenia, autismo e altri disturbi del neurosviluppo.
Poiché il sonno è uno dei parametri più spesso alterati nelle persone con disturbi psichiatrici, e data la difficoltà nell'identificare un marcatore interspecie affidabile, i ricercatori decisero di utilizzare proprio il sonno come marcatore comportamentale nei topi, oltre all'analisi della funzionalità di specifici tipi di neuroni.
Dallo studio comparativo dei topi mutati vs. i controlli nelle diverse fasi di sviluppo, si è potuto così identificare il coinvolgimento di una popolazione di neuroni alquanto minoritaria** nota come neuroni corticali di proiezione glutammatergica (usano come neurotrasmettitore l'acido γ-amminobutirrico). 
Controprova a dimostrazione della scoperta, il ripristino alla normalità del sonno nei topi in cui l'attività di questi neuroni veniva ridotta.
Image credit: Andrea Asenjo-Martinez et al, (2025) Neuron
**Fino a pochi anni fa un "dogma" delle neuroscienze prevedeva l'esistenza di solo due tipi di neuroni corticali: neuroni di proiezione glutammatergiche (che inviano segnali eccitatori attraverso il cervello) e interneuroni GABAergici (che forniscono inibizione locale all'interno di un microcircuito). La scoperta dei neuroni di proiezione GABAergici corticali infransero il dogma; si tratta di una piccola popolazione (ma funzionalmente potente) di neuroni inibitori che inviano assoni a lungo raggio verso regioni cerebrali distanti.
Un risultato ancora lontano da ogni ipotesi terapeutica ma che mostra un possibile bersaglio di intervento su quei pazienti non responsivi alle odierne (limitate) terapie.

Fonte
Dysfunction of cortical GABAergic projection neurons as a major hallmark in a model of neuropsychiatric syndrome

- Una eccellente panoramica dei neurofisiologia della schizofrenia la trovate QUI (in inglese)
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Il legame tra microbioma intestinale e autismo non è supportato dalla scienza!

Punto di partenza. Come dovrebbe essere emerso dai precedenti articoli apparsi su questo blog le cause dell'autismo sono ancora oggi poco comprese e la ragione è semplice e duplice:
  1. non esiste una singola malattia chiamata autismo ma uno spettro di manifestazioni anche molto diverse tra loro (da cui il termine corretto Autism Spectrum Disorder, ASD) che possono anche essere clinicamente evidenti.
  2. Vi è di sicuro una componente genetica ma data l'intrinseca eterogeneità dell'ASD è meno che improbabile che i geni coinvolti siano gli stessi per tutti pur ipotizzando (e di sicuro NON è così) che le mutazioni abbiano penetranza completa. Molto più probabile che vi siano molte concause (ambientali, sviluppo fetale, genetica, età genitori, etc) che in particolari combinazioni sinergizzano causando la (o meglio una delle forme della) malattia. 
L'unica ipotesi da escludere (perché non sostanziata da fatti, non per ragioni ideologiche) è quella del legame con il vaccino morbillo proposta qualche decade fa dal famigerato Wakefield che tanti danni ha fatto (vedi le recenti epidemie di morbillo in USA) anche una volta che si è dimostrato essere uno studio falsificato ritrattato dallo stesso autore anni dopo (radiato dall'ordine dei medici poi) 
L'ipotesi di cui si parla oggi è quella del legame tra il microbiota (insieme di organismi mentre l'abusato termine microbioma si riferisce al pool genetico di questi microbi) intestinale e l'ASD. In termini semplici (e per nulla banali) l'idea che alterazioni della flora intestinale in momenti critici dello sviluppo dell'infante possano avere un effetto sul cervello in formazione.
Ipotesi assolutamente non banale perché è noto il profondo effetto del microbiota non solo sulla nostra salute generale ma anche sull'insorgere di malattie che non sono localizzate nell'intestino. La definizione "intestino come secondo cervello" non è peregrina e si basa sul fatto che il microbiota agisce direttamente sul livello di serotonina nel corpo (il 90% della quale è prodotta nell'intestino) e come tale influenza la "mente" 
Il legame (anche se parziale) tra autismo e microbioma intestinale deriva dal fatto che molte persone con ASD soffrono di sintomi gastrointestinali. Inoltre, il recente aumento delle diagnosi di autismo ha portato alcuni a credere che tra le concause ci siano cambiamenti ambientali o comportamentali, sebbene le prove in tal senso siano poco solide e i dati relativi all'incremento delle diagnosi più il frutto di una maggiore consapevolezza e un ampliamento dei criteri diagnostici.

Ciò nonostante, molti studi hanno investigato questo legame confrontando i microbiomi intestinali di persone con e senza autismo, studiando modelli murini di autismo e conducendo studi clinici che coinvolgono persone con autismo. Studi contestati dagli autori di una nuova ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Neuron secondo i quali i metodi e i modelli usati per sostenere tale ipotesi erano imperfetti e poco convincenti.
Tra le critiche quella che gli studi in cui si confrontavano i microbiomi intestinali il numero di individui analizzati oscillava tra 7 e 43 individui per gruppo, quando le raccomandazioni statistiche richiedono campioni di migliaia di individui tranne nei casi di eventi rari (e l'ASD non lo è, per cui non c'era motivo di condurre studi con solo 20-40 partecipanti).
Al netto della povera forza statistica, c'è anche il problema dei diversi metodi usati nei vari studi per caratterizzare la composizione del microbioma, che rende difficile la comparazione dei risultati. Sebbene alcuni studi abbiano riscontrato differenze tra i microbiomi delle persone con autismo e quelli dei controlli, i risultati erano spesso contraddittori: ad esempio, alcuni studi riscontrarono una minore diversità microbica nell'intestino delle persone con ASD, mentre altri trovarono l'opposto. 
Consideriamo poi che alcune di tali differenze scomparivano una volta normalizzati per variabili chiave come la dieta, o confrontando il microbioma dei bambini ASD con quello dei loro fratelli o sorelle non malati.
La nuova metanalisi evidenzia non solo che non ci sono prove (ad oggi) del legame microbi intestinali-ASD ma, paradossalmente, ci sono prove più solide di un effetto causale inverso, in quanto l'autismo può influenzare la dieta di una persona, che a sua volta può influenzare il suo microbioma. 

Altro problema con i modelli murini di autismo in cui erano state trovate evidenze del suddetto legame. Tra i problemi principali, le differenze sostanziali di tipo comportamentale, cognitive e fisiologiche tra esseri umani e topi. Oltre a questo anche qui paiono esservi stati problemi nei metodi e nella statistica utilizzata per trarre le conclusioni a supporto del legame microbiota-ASD. 

Vero che vari studi clinici negli umani hanno testato l'ipotesi microbioma-autismo eseguendo trapianti fecali o somministrando terapie probiotiche a persone con ASD e monitorando poi i cambiamenti nelle loro caratteristiche (nota. Approcci rivelatisi utili per il trattamento di patologie come il colon irritabile ad esempio). Tuttavia anche qui il campione statistico è stato definito dagli autori come inadeguato e lo stesso vale per l'assenza in alcuni studi di controlli chiave o nell'assenza di randomizzazione.

In soldoni, la conclusione tratta dagli autori dell'articolo su Neuron è che non ci sono evidenze scientifiche a supporto del legame microbiota-ASD, nemmeno come concausa

Fonte
Conceptual and methodological flaws undermine claims of a link between the gut microbiome and autism
KJ Mitchell et al, (2025) Neuron


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Bastano 3 mila passi per rallentare il declino dell'Alzheimer

(Almeno) 10 mila passi al giorno è il traguardo ben noto a cui tanti di noi si focalizzano per mantenere il fisico in condizioni (cardiovascolari) ottimali anche senza andare in palestra.
Con l'età quello che sembra essere una soglia facilmente raggiungibile diventa più complicata da raggiungere specialmente se si soffre di altri problemi con il risultato di scoraggiare chi più ne avrebbe bisogno dal fare un minimo di attività fisica soprattutto pensando al vecchio motto mens sana in corpore sano.
Un nuovo studio dimostra che anche un ridotto (ma costante) numero di passi al giorno è utile per posticipare la comparsa dei sintomi della demenza anche quando nel cervello sono già evidenti tracce molecolari della malattia.

Nello specifico fare anche solo 3000 passi al giorno sembra ritardare di circa 3 anni  il declino mentale nelle persone il cui cervello ha iniziato a mostrare segni molecolari del morbo di Alzheimer, ma che non hanno ancora manifestato alcun sintomo cognitivo, rispetto a coloro che rimangono sedentari.
Aumentando la soglia a 7500 passi al giorno il declino mentale (in media) è posticipato di 7 anni.
Soglie maggiori sembrano invece non fornire rilevanti benefici aggiuntivi.

Dato che non stupisce visto che il primo effetto di mantenersi attivi è un diminuito rischio di malattie cardiovascolari rispetto a chi si muove il minimo indispensabile come passeggiate di pochi minuti. Se proprio non è possibile fare tanti passi al giorno è almeno importante che questi siano raggruppati in passeggiate lunghe.


Fonte
- Physical activity as a modifiable risk factor in preclinical Alzheimer’s disease.
The multifaceted benefits of walking for healthy aging: from Blue Zones to molecular mechanisms


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L'impianto retinico per recuperare (un poco) la vista persa per degenerazione maculare

Un impianto retinico di nuova concezione si è dimostrato utile per migliorare sensibilmente la vista in persone affette da avanzata degenerazione maculare legata all'età (AMD), la forma più comune di cecità incurabile negli anziani.
AMD è la forma più comune di cecità incurabile nelle persone anziane.
Ne esistono due tipi principali: umida (essudativa, meno comune ma più grave) e secca (non essudativa, rimane la visione periferica mentre quella centrale diviene meno acuta). Lo studio oggi descritto ha coinvolto pazienti affetti dalla forma secca la cui forma avanzata colpisce circa cinque milioni di persone in tutto il mondo. 
Ad essere danneggiate sono le cellule fotosensibili (coni e bastoncelli) mentre i neuroni retinici, deputati a convogliare il segnale elettrico alle regioni cerebrali deputate all'elaborazione visiva, non sono toccati. Questo spiega il senso di inserire un impianto per sostituire i sensori della luce e veicolare il segnale ai neuroni.
Impianto per forza di cose invasivo consistente nell'inserimento dello stesso appena sotto la retina dove sono localizzate le cellule fotosensibili danneggiate/morte alla base della malattia. I sensori lì posizionati ricevono le immagini catturate da appositi occhiali dotati di telecamera, e il segnale viene infine convogliato (mediante stimolo elettrico) ai neuroni retinici sopravvissuti.
L'impianto, denominato PRIMA (photovoltaic retina implant microarray), sviluppato da Pixium Vision  (oggi nota come Science Corporation) è wireless ed essendo fotovoltaico, i fotoni che lo attivano forniscono anche la fonte di energia per alimentarsi.
Gli occhiali con telecamera veicolano l'immagine all'impianto retinico sotto forma di un pattern a luce infrarossa
Risultato finale riacquistavano la capacità di distinguere le lettere e leggere parole. Si tratta chiaramente di primi passi nello sviluppo di una tecnologia che dovrebbe, nel futuro, permettere ai pazienti di recuperare una capacità visiva sufficiente per le attività giornaliere ma che per il momento è limitata e necessita di mesi di addestramento ai nuovi input visivi
L'impianto sottoretinico (a destra) misura 2x2 millimetri e ha uno spessore di soli 30 micrometri

I risultati sopra riassunti sono descritti in uno studio clinico, pubblicato sul New England Journal of Medicine, che ha coinvolto 38 persone con AMD avanzata in 5 paesi europei.
I dati mostrano che a distanza di un anno dall'impianto l'80% dei partecipanti mostrava un miglioramento clinicamente significativo della vista. Nonostante alcuni eventi minori correlati all'intervento il rapporto rischio-beneficio si è confermato positivo.


Fonte
- Subretinal Photovoltaic Implant to Restore Vision in Geographic Atrophy Due to AMD
Frank G. Holz et al, (2025) NEJM

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Vaccini contro il Covid e gli effetti (positivi) sulla sopravvivenza al cancro

Uno studio pubblicato su Nature suggerisce che i vaccini a mRNA contro il COVID-19 rendono le terapie antitumorali più efficaci.
Vero che con tutte le fufferie pubblicate oggi un tale risultato risulterebbe quantomeno sospetto ma il risultato non è in sé sorprendente proprio per il meccanismo d'azione del vaccino.
Proprio come il virus del morbillo è pericoloso non per la malattia che causa ma perché agisce spegnendo il sistema immunitario (rendendo l'organismo preda di microbi opportunisti) così i vaccini, e quello a RNA contro il COVID in particolare, agiscono stimolando la risposta immunitaria rendendo "visibili" bersagli prima poco immunogeni. E la immunoterapia antitumorale ne trarrebbe un beneficio indiretto.

Ma andiamo con ordine
Un primo articolo su questo effetto indiretto fu pubblicato dallo stesso team di ricercatori ad inizio 2025, studio basato sull'evidenza sperimentale che l'interferone 1 è in grado di massimizzare la risposta immunitaria e che i vaccini a RNA paiono attivare proprio questo tipo di interferone, evento che rende i tumori più "responsivi" al trattamento.
Il nuovo studio (pubblicato nelle scorse settimane) ha preso in esame i dati retrospettivi della sopravvivenza di pazienti (più di 1000) in terapia durante la pandemia che avevano ricevuto, nello stesso periodo, anche il vaccino, con studi condotti sugli animali di laboratorio per comprendere l''effetto indiretto del vaccino sulla terapia antitumorale.
I dati ottenuti hanno mostrato chiaramente che i pazienti che avevano ricevuto il vaccino a mRNA contro il COVID-19 entro 100 giorni dall'inizio dell'immunoterapia avevano una probabilità più che doppia di essere ancora vivi 3 anni dopo rispetto a coloro che non avevano ricevuto nessuno dei due vaccini (dati ovviamente normalizzati per i soli pazienti che non erano morti di COVID nel frattempo).
Nello specifico il gruppo vaccinato aveva un tasso di sopravvivenza globale a 3 anni del 55,7%, rispetto al 30,8% del gruppo non vaccinato, il che si traduce in una riduzione del 49% del rischio di mortalità associato al cancro.
Altro dato importante da menzionare è la terapia antitumorale di ultima generazione a cui tutti questi pazienti erano stati sottoposti era basata sugli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI), che in termini semplici funzionano inducendo il proprio sistema immunitario a riconoscere e distruggere il tumore.
Uno dei meccanismi che spiega la resilienza dei tumori è che alcuni di questi si "nascondono" (letteralmente) dal sistema immunitario "spegnendo" le cellule immunitarie di pattuglia dando loro un falso messaggio che si traduce in "queste cellule sono ok. Nessun attacco".
Gli inibitori dei checkpoint consentono alle cellule immunitarie, come i linfociti T, di riconoscere ed eliminare le cellule tumorali in modo più efficace. Il problema è che questa terapia avanzata funziona solo per una frazione di pazienti in quanto alcuni tumori continuano a rimanere "invisibili" al sistema immunitario anche quando rafforzato.
I vaccini a mRNA danno una "scossa" al sistema che diventa ancora più efficiente nello scovare qualunque cosa sia anomala (dai microbi alle cellule malate).
Dato confermato dagli studi sugli animali che hanno evidenziato come tra gli effetti di questi vaccini vi sia una impennata nella produzione di interferoni di classe I, in particolare di uno chiamato interferone alfa. Incremento che induce una attivazione del sistema immunitario innato, che facilita il lavoro dei linfociti T nel riconoscere e attaccare gli antigeni associati al tumore. L'azione dei linfociti T in genere provoca una risposta difensiva da parte delle cellule tumorali che iniziano a produrre una molecola che agisce come un freno sul sistema immunitario; freno che però in questo caso viene reso inefficace dalla terapia con inibitori dei checkpoint immunitari.
Bisognerà ora capire come sfruttare questo sistema in modo che sinergizzi con ogni terapia antitumorale.

Fonti
- SARS-CoV-2 mRNA vaccines sensitize tumours to immune checkpoint blockade
Adam J. Grippin et al, (2025) Nature
- Sensitization of tumours to immunotherapy by boosting early type-I interferon responses enables epitope spreading.
Qdaisat S. et al. (2025) Nat. Biomed. Eng

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Dimezzati i casi di allergie (arachidi) nei bambini grazie alla dieta (con arachidi)

Non è una novità che, per motivi tuttora poco compresi, negli ultimi decenni si sia registrata una impennata dei casi di allergie tra i bambini.
Tra le ipotesi credibili vi è la cosiddetta ipotesi dell'igiene che vede come responsabile il fare crescere i bambini in ambienti poveri di allergeni quando il sistema immunitario sta ancora maturando
Tra le procedure preventive dimostratesi efficaci vi è l'esposizione precoce agli allergeni in modo da indurre tolleranza agli stessi. 
Risultati positivi vengono dagli USA dove l'allergia alle arachidi nei bambini sotto i tre anni sono diminuite del 43% dopo l'introduzione di linee guida in cui si raccomandava l'alimentazione con cibi contenenti arachidi dopo lo svezzamento. Linee guida derivate da uno studio in cui un campione di un centinaio di neonati era stati inseriti in studi clinici che prevedevano una dieta priva o contenente arachidi. Raggiunti i 5 anni i bambini che erano stati esposti al cibo con arachidi mostrarono una minore incidenza di allergie (alle arachidi) rispetto ai controlli la cui dieta non conteneva arachidi.

I dati recenti sulla popolazione infantile generale dimostrano l'efficacia delle linee guida

Fonti
Peanut Allergies Have Plummeted in Children, Study Shows

Guidelines for Early Food Introduction and Patterns of Food Allergy
Pediatrics (2025)

Randomized Trial of Peanut Consumption in Infants at Risk for Peanut Allergy
NEJM (2015)

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Approvato in USA nuovo test del sangue per (escludere) l'Alzheimer

La Food and Drug Administration (FDA, ente responsabile per l'approvazione di farmaci e test diagnostici in USA) ha approvato l'utilizzo di un test del sangue nella diagnosi (insieme ad altri parametri clinici) del morbo di Alzheimer.
Credit: Chiara Vercesi (Nature)
Non un primato in assoluto visto che c'è ne è già un altro in uso in clinica ma di utilizzo limitato ai soli addetti ai lavori (vedi anche articolo precedente).
Il nuovo test misura le proteine ​​correlate all'Alzheimer e serve principalmente come parametro negativo  per escludere la malattia in persone con declino cognitivo dovuto ad altre cause.
Il test è stato sviluppato dalla Roche e, secondo quanto affermato dall'azienda, si è rivelato in grado di escludere l'Alzheimer nel 97,9% dei casi di soggetti con declino cognitivo.

Fonte
Faster, cheaper, better: the rise of blood tests for Alzheimer’s
Nature (2025)
- Blood tests are now approved for Alzheimer’s: how accurate are they?
Nature (2025)

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Non solo scienza.
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Almeno nei la forma fisica passa da padre in figlio

Un detto popolare sembra fatto apposta per descrivere anche l'ereditarietà di tratti non prettamente genetici, nel senso di caratteristiche conseguenti all'esperienza e non a quanto codificato dai geni.
Nota. Fenomeno ben noto quello di eventi esterni che dopo avere agito sui genitori, molto prima che diventassero tali, hanno manifestato i loro effetti sulla progenie. Il caso meglio studiato è quello degli effetti sui figli di quelle che erano ancora bambine durante la grave carestia che colpì alcune aree dell'Olanda nel 1944 (--> articolo). Lo studio degli effetti  duraturi sull'espressione genica, senza che vi sia una variazione nell'informazione del gene stesso, va sotto il nome di epigenetica. 
Nello specifico della notizia odierna la scoperta che topi maschi sottoposti ad allenamento costante possono trasmettere la loro forma fisica alla prole maschile.
Credit: Science
I ricercatori hanno scoperto che i topi atletici avevano livelli aumentati di 10 tipi di microRNA nello sperma rispetto ai topi "non palestrati"; i microRNA coinvolti hanno effetti sul metabolismo e la funzione muscolare durante lo sviluppo embrionale. Risultato netto una prole maschile in grado di correre più a lungo su un tapis roulant rispetto a quella originata da padri più sedentari. 
Meccanismi simili potrebbero esistere (ma non è provato) anche negli esseri umani data la scoperta dell'esistenza di aumentati livelli di microRNA simili nello sperma di uomini atletici.


Fonte
Paternal exercise confers endurance capacity to offspring through sperm microRNAs
Xin Yin et al, (2025) Cell Metabolism


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Nanoparticelle per (future) terapie dell'Alzheimer

Terapia sperimentale con nanoparticelle si è dimostrata capace, nei topi, di attenuare (e in parte invertire) la malattia di Alzheimer (AD).
A differenza della nanomedicina tradizionale, che si basa sull'utilizzo di nanoparticelle come vettori per il trasporto in situ di molecole terapeutiche, l'approccio provato in questa sperimentazione è stato usare nanoparticelle bioattive o farmaci supramolecolari (italianizzazione del termine originale). 
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Signal Transduction and Targeted Therapy.

L'approccio terapeutico non aveva come obiettivo i neuroni ma era mirato a ripristinare il corretto funzionamento della barriera emato-encefalica (BBE, vedi nota fondo pagina), la struttura vascolare che regola lo scambio di nutrienti e fornisce protezione all'ambiente cerebrale (condizioni locali e da ingresso di molecole indesiderate o patogeni). In seguito alla riparazione di questa interfaccia è stato osservato un miglioramento dei sintomi principali della malattia in modelli murini per la AD.

Per funzionare al meglio, il cervello (area dell'organismo che consuma molta energia e risorse) necessita di un afflusso costante di sangue che viene regolato finemente nei suoi distretti microscopici in base all'attività locale, dove un singolo capillare si prende cura di uno o pochi neuroni.
L'anatomia del cervello con il suo miliardo di capillari, ben evidenzia il ruolo vitale della vascolarizzazione nel mantenere la funzionalità ottimale, pena malattie fortemente invalidanti come ben evidenziato dalle conseguenze dell'ictus.
In questo ambito di controllo accurato, centrale è il ruolo della BEE, una barriera cellulare e fisiologica che separa il cervello dal flusso sanguigno, proteggendolo da pericoli esterni come patogeni e tossine.

Gli autori dello studio hanno mostrato gli effetti positivi successivi al ripristino dei sistemi che permettono alle "proteine ​​di scarto" prodotte nel cervello di attraversare questa barriera, finendo nel flusso sanguigno e da lì alla loro eliminazione, e i danni che si accumulano quando la "pulizia" viene meno. Nel morbo di Alzheimer, la principale proteina di "scarto" è la beta-amiloide, il cui accumulo compromette il normale funzionamento dei neuroni.
Rimando ad articoli precedenti l'importante e irrisolto dibattito sulla centralità della ipotesi amiloide rispetto ad altre ipotesi sull'origine della malattia. Vedi "amiloide o lisosomi?" e "ruolo del colesterolo nell'AD".
Lo studio si è avvalso di topi geneticamente modificati che producono alti livelli di beta amiloide, condizione che innesca un progressivo declino cognitivo che mima la AD.

Nella malattia di Alzheimer, uno dei problemi principali è che il sistema naturale di eliminazione delle proteine ​​tossiche come la beta-amiloide è poco o nulla efficiente. Nei soggetti sani è la proteina LRP1 a svolgere un ruolo chiave: riconosce e lega la beta amiloide, trasportandola attraverso la BEE nel flusso sanguigno, dove viene veicolata ai centri di eliminazione. Il sistema è però fragile: se LRP1 lega troppa beta amiloide (o il legame è troppo forte), il trasporto si blocca e la proteina LRP1 stessa viene degradata all'interno delle cellule della barriera cerebrale, lasciando meno trasportatori di LRP1 disponibili.
D'altra parte, se si lega troppo poco, il segnale è troppo debole per innescare il trasporto.
Schema del trasporto di LRP1 attraverso le cellule endoteliali cerebrali (a) seguendo il percorso PACSIN2 o Rab5 e la sua relazione con il carico multivalente. Espressione di LPR1 nelle cellule endoteliali cerebrali (b) in funzione della valenza del carico.
(Image credit: Junyang Chen et al)
I topi sintomatici sono stati trattati con le suddette nanoparticelle monitorando nel tempo, rispetto ai controlli non trattati, l'evoluzione della malattia attraverso vari test.
In uno dei test il topo trattato di 12 mesi (equivalente a un essere umano sintomatico di 60 anni) recuperava nel giro di 6 mesi i tratti comportamentali di un topo sano grazie al ripristino della vascolarizzazione cerebrale e alla rimozione della beta-amiloide dal cervello.

Immagini al microscopio a fluorescenza del cervello di topi 12 ore dopo il trattamento (a sinistra, a destra i controlli non trattati) con nanoparticelle. In rosso l'accumulo di placche di beta-amiloide. In verde i vasi della barriera emato-encefalica (image: Junyang Chen et al)


I farmaci supramolecolari sviluppati dai ricercatori agiscono come un interruttore che resetta il sistema. Imitano funzionalmente i ligandi di LRP1, legando il trasportatore riavviando il trasporto attraverso la barriera emato-encefalica ripristinando "l'ingranaggio bloccato"
Nota. La BEE è costituita da una combinazione di cellule (endoteliali, periciti, astrociti) e strutture (membrana basale) che formano un filtro altamente selettivo tra il sangue e il cervello. Anche alle cellule immunitarie è precluso l'ingresso per evitare di innescare infiammazione nel cervello.
Le molecole ad accesso libero (diffusione passiva) sono acqua, ossigeno, CO2 e molecole liposolubili e ormoni steroidei.
Altre molecole importanti necessitano invece di trasportatori specifici (meccanismi attivi). Questo è il caso del glucosio,  aminoacidi essenziali, nucleosidi, alcune vitamine idrosolubili.
Tra i meccanismi che espellono molecole verso il flusso sanguigno il più importante è quello mediato dalla P-glicoproteina

Fonte
Multivalent modulation of endothelial LRP1 induces fast neurovascular amyloid-β clearance and cognitive function improvement in Alzheimer’s disease models
Junyang Chen et al (2025) Signal Transduction and Targeted Therapy


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L'interruttore per bloccare il dolore cronico?

Uno studio condotto sui topi ha dimostrato l'esistenza di un piccolo gruppo di cellule cerebrali centrali per la comparsa del dolore cronico.
Le cellule si trovano in una zona del cervello nota nuclei parabrachiali che si attivano in risposta a uno stimolo doloroso e rimangono attive a lungo anche quando lo stimolo è scomparso. 
Credit: N. Goldstein et al
Nuclei parabrachiali nel topo (credit: wikipedia)
Durante i test i ricercatori hanno bloccato l'attività di questi neuroni, provocando la diminuzione del dolore cronico mentre la risposta a stimoli dolorosi acuti rimaneva intatta.
Non è ancora chiaro se negli umani esista una equivalente via dolorifica ma se venisse confermata diventerebbe un bersaglio perfetto per il trattamento del dolore cronico che, ricordiamolo, è tra le cause principali della epidemia degli oppiacei in USA

Fonte
Brain area linked to chronic pain discovered — offering hope for treatments
Nature (2025)
A parabrachial hub for need-state control of enduring pain
Nitsan Goldstein et al, (2025) Nature


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Nobel per la Fisica 2025 per avere inventato una super spugna

Il Premio Nobel 2025 per la chimica è andato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar Yaghi per aver sviluppato i materiali solidi più porosi al mondo, noti come strutture metallo-organiche (MOF). 

Strutturati come impalcature molecolari, i MOF contengono al loro interno vaste "caverne" vuote in cui può essere intrappolato un gas. Talmente capienti (vedi la legenda della figura sotto) da avere fatto venire in mente a Heiner Linke, presidente del comitato per il Nobel, la "borsa di Hermione in Harry Potter" (o per noi più vecchi le tasche di Eta Beta).
Uno dei MOF più capienti, noto come DUT-60, ha una superficie interna di 7839 metri quadrati per grammo di materiale! (credit: Nature)
Nei 30 anni trascorsi dal loro primo sviluppo, i MOF sono stati impiegati, ad esempio, per catturare il carbonio dall'aria  e rimuovere dall'acqua alcune molecole inquinanti "eterni" dall'acqua.



Fonte
World’s most porous sponges: intricate carbon-trapping powders hit the market
Nature (2025)


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Replica ufficiale (The Noble Collection) della borsa di Hermione Granger
(link Amazon)


L'impianto cerebrale che ha permette a un uomo affetto da SLA di tornare a "parlare" (e a cantare)

La notizia risale a prima dell'estate ma vale la pena ripescarla in quanto indicativa delle potenzialità terapeutiche degli impianti cerebrali (trattati in maniera estesa in un precedente articolo)

Un impianto cerebrale permette a un uomo di parlare e di cantare grazie ad un dispositivo che traduce i pensieri e le parole (pensate) in tempo reale. Parlare, ben inteso, con le varie sfumature espressive e non come fosse una sterile voce sintetica. 
Il dispositivo trasmette i cambiamenti di intonazione quando pone domande, enfatizza le parole che sceglie e gli permette di canticchiare una serie di note in tre tonalità.
Lo studio effettuato su una persona affetta da una grave disabilità linguistica, conseguenza della SLA,  ha dimostrato come il sistema sia in grado di decodificare l'attività cerebrale del soggetto e produrre la voce sintetica in soli 10 millisecondi dal momento in cui "nasce" l'attività neurale che indica la volontà di parlare.
In colore la corteccia motoria in cui sono stati impiantati gli elettrodi
(Kateryna Kon/Science Photo Library)
Il sistema, noto come interfaccia cervello-computer (BCI), ha utilizzato l'intelligenza artificiale per decodificare l'attività cerebrale elettrica del partecipante mentre cercava di parlare. Si tratta del primo dispositivo del genere, che non si limita a "esprimere" le parole ma anche caratteristiche del linguaggio naturale come intonazione ed enfasi, caratteristiche fondamentali nella comunicazione interpersonale.
Un miglioramento significativo rispetto ai sistemi precedenti in cui l'intervallo di tempo tra segnale neurale e voce avveniva in circa 3 secondi (o al termine della frase "pensata")
La reazione del paziente alla sua voce sintetica
(Credit: UCD)
Il BCI installato ha richiesto un intervento chirurgico per posizionare 256 elettrodi in silicio, ciascuno lungo 1,5 mm, nell'area cerebrale che controlla il movimento dei muscoli necessari per parlare. Attraverso algoritmi di deep learning il sistema è stato addestrato a catturare i segnali nel suo cervello ogni 10 millisecondi, decodificando i suoni che l'uomo tentava di produrre, anziché le parole che intendeva o i fonemi costituenti (le subunità del linguaggio che formano le parole pronunciate).

Il team ha anche personalizzato la voce sintetica per renderla più simile possibile a quella originale grazie ad algoritmi dedicati che hanno "lavorato" su registrazioni di interviste effettuate prima della comparsa dei sintomi.

Altro elemento di novità, la richiesta al paziente di provare a emettere interiezioni come "aah", "ooh" e "hmm" e di pronunciare parole inventate. Il BCI è riuscito a riprodurre questi suoni, dimostrando di poter generare un discorso senza bisogno di un vocabolario fisso.

Il risultato finale è stata la produzione di parole e la capacità di rispondere a domande aperte, esprimendo ciò che voleva usando anche parole che non facevano parte dei dati usati per addestrare la IA. 
Durante altri test il sistema ha correttamente interpretato la volontà del soggetto, riproducendo in modo corretto la frase come una affermazione o come una domanda, e variare l'accento in parole diverse regolando l'intonazione.

Se non vedi il video clicca --> youtube

Fonte
- An instantaneous voice-synthesis neuroprosthesis

An Accurate and Rapidly Calibrating Speech Neuroprosthesis
Nicholas S. Card et al, (2024) NEJM 391 (7)


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Per quanto possa sembrare scontato, il modo migliore per sviluppare la memoria e le capacità dei bambini è dare loro giochi manuali invece di tablet et similia. Un classico sempre verde il gioco della Ravensburger 
Immagine e link da Amazon



Giocare imparando (amazon link)

 

Ig-Nobel 2025. Premiato l'articolo italiano sulla cacio e pepe

Ogni anno torniamo agli articoli vincitori degli Ig-Nobel in quanto sempre interessanti. Del resto il premio, nato decenni fa all'università di Harvard, nasce proprio per segnalare una ricerca che "prima fa ridere, poi fa riflettere". 
Se ridere e poi riflettere è il tratto distintivo, quest'anno i partecipanti alla premiazione proveranno anche un certo languorino dato tra le ricerche premiate (categoria "Fisica") c'è quella sul come preparare la salsa perfetta per fare la pasta cacio e pepe, piatto romano per eccellenza.
 I ricercatori, tutti italiani sebbene afferenti a diversi istituti di ricerca in Europa, coordinati da Fabrizio Olmeda, fisico presso l'Istituto di Scienza e Tecnologia Austriaco (ISTA), si sono cimentati in questo compito frustrati dalla variabilità nella riuscita del piatto ogni volta che vi si cimentavano. Di fronte alla variabilità non restava che usare il metodo scientifico per creare una ricetta (in laboratorio lo chiameremmo "protocollo") affidabile.
Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.

Banalità? Non proprio. Preparare un sugo perfetto non significa solo mescolare i pochi ingredienti essenziali (pecorino, acqua di cottura della pasta, pepe), perché il risultato più comune sarà un sugo grumoso, simile alla mozzarella.
L'acqua di cottura della pasta (presente in ogni ricetta della cacio e pepe) serve a fornire l'amido importante per emulsionare e stabilizzare il sugo, ma da solo non è sufficiente. A temperature superiori a 65 gradi le proteine ​​del formaggio si denaturano e si aggregano, causando la disgregazione del composto.
Credit: Physics of Fluids (2025)

Per ottenere un sugo perfetto bisogna aggiungere all'acqua la giusta quantità di amido in polvere (2-3% del peso del formaggio) finché non diventa limpida e si addensa come un gel. A questo punto si mescola il gel con il formaggio a bassa temperatura in modo che l'amido si leghi alle proteine ​​e prevenga la formazione di grumi. Il pepe viene aggiunto alla fine prima di mescolare la pasta con il sugo direttamente nella padella (nel caso si può aggiungere altra acqua di cottura per ottenere la giusta consistenza).

Ricapitolando ecco la ricetta "perfetta"
  • 4 g di amido (di patate o di mais)
  • 40 ml di acqua (per amalgamare l'amido)
  • 160 g di Pecorino Romano
  • 240 g di pasta (preferibilmente tonnarelli)
  • Acqua di cottura della pasta
  • Pepe nero e sale (a piacere)

Effetti collaterali di questo articolo? Avvicinare al metodo scientifico anche chi con esso non ha familiarità.


Tra gli altri vincitori meritano una menzione Tomoki Kojima (cat. Biologia) per aver dimostrato che dipingere le mucche con strisce bianche e nere può impeedire alle mosch di pungerle senza bisogno di pesticidi, o all'olandese per avere osservato che bere alcol, a volte ti permette di migliorare la capacità di parlare lingue straniere (lista completa QUI)


Fonte
Phase behavior of Cacio e Pepe sauce
G. Bartolucci et alPhysics of Fluids 37, 044122 (2025) 
 
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Sul tema scienza e cucina non posso che consigliare gli ottimi volumi tematici di Dario Bressanini. Sempre nella mia libreria a portata di mano (link immagine ad Amazon)






Taccuino di fisica - Le 10 leggi che spiegano l'universo (Massimo Temporelli).
Non un libro di testo, né divulgazione. Una via di mezzo riuscita alla perfezione
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