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La pinguedine dei Labrador spiega anche quella umana

I Labrador retriever sono cani notoriamente di buon carattere ma con una innegabile tendenza ad ingrassare anche in ragione di un appetito mai pago.
Il 40-60% dei cani domestici è sovrappeso o chiaramente obeso, con problemi a cascata sia per la salute che per il carattere. Lo studio nei cani di razza è “facilitato” dalla omogeneità genetica frutto dei continui incroci per fissare e mantenere nel tempo i caratteri distintivi di quel breed
Ricercatori inglesi ne hanno analizzato i geni per tracciare le basi della predisposizione all’obesità con la speranza di sviluppare terapie utili anche per gli umani. Un primo studio del 2024 aveva mostrato il coinvolgimento del gene POMC in cui una mutazione rendeva i cani costantemente affamati pur bruciando a riposo il 25% di calorie in meno di altri cani (vedi dettagli a fondo pagina)

Il nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, hanno individuato nel gene DENND1B (di cui esiste omologo umano) il principale responsabile, gene che codifica per una proteina tipo GEF (Guanine nucleotide Exchange Factor) necessaria per la “ricarica” di enzimi noti come GTPasi 
Il GEF facilita il ricambio GDP/GTP sulla GTPasi eliminando la molecola "scarica" e sostituendola con il GTP "carico".
Il prodotto genico, la proteina DENND1B, svolge un ruolo importante all'interno del sistema di mantenimento dell'equilibrio energetico dell'organismo, noto come circuito leptina-melanocortina (vedi dettagli in calce all'articolo). DEEND1B agisce come un regolatore molecolare, influenzando la trasmissione dei segnali tra la leptina e i recettori melanocortinici nel cervello. Quando il gene DENND1B è alterato, la proteina può compromettere la capacità del corpo di rispondere correttamente ai segnali di sazietà inviati dalla leptina. Questo porta a una sensazione di fame persistente e a un aumento dell'assunzione di cibo.
Oltre a DENND1B sono stati identificati altri quattro geni che però non qui non prenderemo in considerazione essendo coinvolti in processi biologici chiave su cui non è consigliabile interferire.
Come nel caso umano anche l'obesità canina non è attribuibile ad un singolo gene ma al concorso di più geni che determinano una predisposizione.
Tra i geni con varianti a rischio nell'uomo abbiamo FTO (Fat Mass and Obesity Associated Gene), il recettore della melanocortina-4 (MC4R) e il gene della leptina (LEP),
Nei Labrador la variante genica di DENND1B pone un importante fattore di rischio che si traduce in obesità in assenza di una dieta controllata e di attività fisica costante, regola che vale anche per noi. Nello specifico tale variante determina, a parità di dieta e attività fisica, un incremento dell'8% di grasso corporeo.

Confrontando questo dato che le banche dati genetiche umane si è avuta la conferma che lo stesso gene è responsabile negli umani dell’aumento della massa corporea, legata ad un funzionamento anomalo del sistema di controllo dell'appetito.
Leptina. Ormone prodotto principalmente dalle cellule adipose. La leptina agisce sul cervello, in particolare sull'ipotalamo, segnalando la quantità di energia immagazzinata sotto forma di grasso. Quando i livelli di leptina aumentano (indicando un'abbondanza di energia), la sensazione di fame viene spenta e aumentano i processi che portano al consumo di energia. Al contrario, bassi livelli di leptina stimolano l'appetito e riducono il dispendio energetico.
Sistema melanocortinico. Sistema che fa parte dell'ipotalamo e comprende una serie di neuropeptidi e recettori che regolano l'appetito. Un esempio è l'ormone stimolante dei melanociti (α-MSH), che si lega ai recettori melanocortinici (MC3R e MC4R) per inibire l'appetito. La leptina agisce favorendo la produzione di α-MSH, amplificando così il segnale di sazietà.
Il gene POMC codifica per la proopiomelanocortina, una proteina precursore che viene poi suddivisa in vari peptidi (tra cui l'ormone α-MSH) che agiscono sul sistema melanocortinico per controllare l'appetito. Nei Labrador, alcune mutazioni nel gene POMC impediscono la produzione completa di alcuni peptidi regolatori dell'appetito, portando alla sensazione di fame costante 

Fonti
Low resting metabolic rate and increased hunger due to β-MSH and β-endorphin deletion in a canine model.
Marie T. Dittmann et al, (2024) Science Advances 

- Canine genome-wide association study identifies DENND1B as an obesity gene in dogs and humans.
NJ Wallis et al. (2025) Science



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Qualche suggerimento per amanti dei Labrador
Pupazzo di Labrador che "respira" (Amazon)


"Manuale" del Labrador (Amazon)

Identificate 128 "nuove" lune di Saturno

Saturno guadagna 128 nuove lune, portando il totale a 274

La gara tra Giove e Saturno su chi ha più lune si arricchisce di un nuovo sorpasso con la identificazione di 128 nuove lune portando il totale di Saturno a 274.
Giove ha 95 lune (conosciute), Urano 28 e Nettuno 16. Trovate QUI il precedente articolo sulla "gara" tra Giove e Saturno
Beninteso tutti i nuovi membri del club lunare hanno taglie ben inferiori alle lune (saturniane) classiche come Titano (5150 km) o Encelado (550 km), con i loro (probabili) oceani sotterranei e, chissà mai, microbiche forme di vita. 
La Luna per confronto ha un diametro di poco più di 3000 km.
Le nuove lune sono al più catalogabili come megarocce dati i pochi km del loro diametro. (Ex) asteroidi catturati dal campo gravitazionale del pianeta o residui di scontri spaziali i cui detriti sono rimasti intrappolati nell’orbita del pianeta non più tardi di 100 milioni di anni fa.
Del resto la definizione di luna (satellite naturale) è alquanto lassa e definisce come tale oggetti in orbita stabile intorno ad un pianeta. Forse avrebbero dovuto restringere il campo, come fatto in passato per i pianeti, aggiungendo la postilla della sfericità, che presuppone una certa massa. 
La scoperta delle nuove lune, certificata settimane fa dall’Unione Astronomica Internazionale, è frutto delle osservazioni condotte nel 2023  con il telescopio di Mauna Kea nelle Hawaii.

Tutte le nuove lune identificate hanno forma irregolare, il che significa che sono piccole (massa insufficiente perché la gravità le modelli in sfere), hanno una orbita molto inclinata rispetto all'equatore di Saturno e in molti casi tale orbita è retrograda rispetto alle lune principali. Le loro orbite sono distali rispetto a quelle delle lune principali, con distanze che vanno da 10 ​​milioni a 29 milioni di km dal pianeta. 
Per dare una idea della distanza considerate che gli anelli del pianeta si estendono fino a 281 mila km da Saturno e le lune principali sono distanti non più di 3 milioni di km.
Non molte sono le altre informazioni disponibili data la distanza (e dimensioni) che anche i più potenti telescopi terrestri li vedono come deboli punti luminosi.

L'esistenza di così tante lune attorno a Saturno suggerisce un passato di molteplici mega-collisioni avvenute in prossimità del pianeta. La stessa origine degli anelli è ancora oggi oggetto di ipotesi, che vanno dalla distruzione di una antica luna avvicinatasi troppo a Saturno alla cattura di materiale vagante vecchio come il sistema solare che, a causa della posizione, non è riuscito a completare il processo di aggregazione come invece avvenuto per i corpi non disturbati dalla gravità dei pianeti giganti.

Molte delle nuove lune identificate sono state raggruppate, identificando famiglie potenzialmente legate ad una origine comune.
Uno di questi sottogruppi particolarmente interessante è stato chiamato Mundilfari, nome mutuato da una divinità norrena, e include 47 delle 128 nuove lune. Tale sottogruppo potrebbe essere il risultato di una collisione all'interno dell'orbita di Saturno risalente a 100 milioni di anni fa, un battito di ciglia fa su scala cosmica.

"Vecchio" grafico (2019) che mostra le lune allora note raggruppate per tipo di orbita


Un articolo interessante (aggiornato) sulle lune di Saturno lo trovate 

Fonti
Saturn has a whopping 274 moons ― scientists want to know why
Nature 03/2025

- Elenco delle lune di Saturno


Telescopio entry-level ma più che adatto per osservare (anche) Saturno
(credit: Amazon)




Le aziende private (finalmente) sono riuscite a sbarcare sulla Luna

Blue Ghost, un robot "quadrupede" made in Texas, ha raggiunto il 2 marzo la regione Mare Crisium sulla Luna, e fin qui nulla di speciale considerando il numero di missioni dirette sul suolo lunare negli ultimi anno.
A fare la differenza è l'essere il primo veicolo spaziale commerciale a compiere la missione con successo. Il lander costruito da Firefly Aerospace trascorrerà le prossime due settimane sul terreno per compiere esperimenti appaltati dalla NASA, dopo di che arriverà la gelida notte lunare a terminare ogni operazione.
L'ombra proiettata dal lander sul suolo lunare
(Credit: Firefly Aerospace)
Altre aziende avevano tentato prima l'allunaggio ma per un motivo o l'altro tutte le missioni erano fallite; ad esempio, la navicella spaziale Odysseus era riuscita nell'impresa ma aveva impattato il terreno con tale violenza da rompersi una delle "gambe" finendo i suoi giorni ribaltata sul lato.
Le prime immagini inviate dal lander hanno mostrato la sonda in posizione verticale sulla superficie grigia, tra cui un suggestivo scatto della sua ombra e la Terra che brilla sullo sfondo.

Tutti questi tentativi compiuti dalla aziende private hanno il compito principale di togliere carichi economici (e logistici) alla NASA che può quindi concentrarsi su missioni ad alto valore. Servono inoltre, oltre alla già citata delega a compiere esperimenti su commissione, a selezionare il partner commerciale più affidabile nell'ambito del programma Commercial Lunar Payload Services con cui la NASA vuole esternalizzare la consegna di strumenti scientifici e in futuro i "mattoni" per le basi lunari.

Tra gli strumenti trasportati da Blue Ghost ci sono un piccolo trapano e il planetvac" specie di "aspirapolvere" per raccogliere la friabile (e abrasiva) polvere lunare. Tra gli esperimenti in fieri lo studio della viscosità della polvere lunare e test basati sull'attivazione di campi elettrici finalizzati a trovare un modo per tenere libere dalla polvere la superficie delle astronavi.

Esperimenti che devono essere conclusi entro il 16 marzo quando inizierà la notte lunare della durata di 14 giorni in cui non sarà possibile ricaricare le batterie solari e le temperature (circa -133 C) non permetteranno l'operatività.
Due giorni prima della messa in stand-by le telecamere a bordo di Blue Ghost cattureranno un'eclissi totale causata dalla interposizione della Terra.
La rotta di avvicinamento alla Luna seguita da Blue Ghost
(credit: Firefly Aerospace)


Articoli precedenti sul tema Luna (e missioni lunari) sono reperibili cliccando sul tag dedicato


Fonte
Private spacecraft nails Moon landing: first images of Blue Ghost on the lunar surface
Nature 2025


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Gadget e strumenti per chi la Luna la deve osservare da lontano
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La mitica Aquila di Spazio 1999
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Geni protettivi contrastano la predisposizione alle forme ereditarie di Alzheimer

I geni (o più correttamente la combinazione allelica) che costituiscono il nostro genoma contribuiscono a definire il rischio di sviluppare alcune patologie, rischio pesato dalla penetranza genetica.
In alcuni casi essere portatori di un (solo) allele “sbagliato” non avrà alcuna rilevanza sul rischio incrementale di una malattia (ad esempio i portatori di una copia del gene mutato per la fibrosi cistica o per la anemia mediterranea non si ammalano) mentre in altri casi il rischio di sviluppare un tumore aumenterà considerevolmente (una copia del gene BRCA1 mutato conferisce una probabilità del 60% di sviluppare un tumore alla mammella nel corso della vita).
Nel caso delle malattie neurodegenerative, come Parkinson o Alzheimer (da qui in poi AD, Alzheimer's Disease), che in genere si manifestano in tarda età, quindi dopo il periodo riproduttivo e come tale la permanenza degli alleli predisponenti nella popolazione non è controselezionata, i fattori causali sono eterogenei; oltre alla componente genetica vi sono fattori esterni come ambiente e stile di vita, il che rende complicata l’identificazione degli alleli facilitanti, spesso molteplici e ciascuno con impatto minimo ma cumulativo. Diverso il discorso per le forme familiari della malattia (AD familiare o FAD) dove la chiara ereditarietà del tratto si associa ad una precocità dei sintomi, fatto che ha permesso non solo di identificare i geni coinvolti e di validare i fattori di rischio associati ai vari alleli ma anche di testare farmaci sperimentali pensati per prevenire la malattia prima che diventi sintomatica (quando i sintomi compaiono il danno è già irreversibile).
Predisposizione ed alta penetranza equivale a certezza della malattia?
Non necessariamente. Si tratta di fattori di rischio che anche in caso di probabilità dell’80% lasciano un certo margine condizionato da fattori terzi (ambiente e stile di vita). C’è però un altro elemento da mettere sulla bilancia, l'esistenza di fattori genetici protettivi.
Già in un precedente articolo su infezione da HIV e rischio AIDS ho discusso di questi fattori che in quel caso erano varianti geniche che rendevano l’infezione del virus (o la sua replicazione) più difficile e lo “smantellamento” del sistema immunitario, alla base della fase clinica nota come AIDS, limitato.
Fenomeni simili di resistenza ad una infezione associati ad aumentato rischio di altre malattie sono noti per malaria/emoglobinopatie, colera/fibrosi cistica, tubercolosi/sindrome di Tay-Sachs, e resistenza a infezioni fungine/fenilchetonuria. Da un punto di vista evolutivo l'aumentato rischio di malattia, in genere legato alla presenza di due copie del gene alterato, è ampiamente compensata dalla resistenza ad un dato patogeno ad alta mortalità.
In tal senso riporto l'identificazione (in due studi separati) di tre individui appartenenti a famiglie con chiara predisposizione all’AD, che pur essendo portatori delle varianti alleliche  di rischio, rimasti asintomatici per oltre un decennio rispetto all'età media in cui si è sviluppata la malattia nei consanguinei, suggestivo di un aplotipo (combinazioni di alleli) protettivo. Di questi tre individui l’ultimo identificato è quello di maggior interesse data la mole di dati genetici ottenuti e il follow-up decennale. 
L'articolo in cui il soggetto è stato descritto è apparso poche settimane fa su Nature Medicine che riassumo brevemente di seguito.


Nell'ambito dello studio Dominantly Inherited Alzheimer Network (DIAN), iniziato nel 2011, sono stati analizzati e seguiti nel tempo i membri di  una famiglia ad alto rischio (FAD), portatrice di una mutazione nel gene PSEN2, codificante per l'enzima gamma secretasi che ha tra i suoi "bersagli" APP (proteina precorritrice della beta-amiloide) i cui prodotti sono i "mattoni" delle placche amiloidi.
La maggior parte delle mutazioni associate al FAD (almeno 200) sono a carico del gene PSEN1. Le mutazioni nel gene PSEN2 sono più rare, da qui l’interesse per questa famiglia.
La proteina mutata favorisce la produzione di prodotti la cui aggregazione porta alle placche amiloidi, ritenute il passaggio chiave nel processo neurodegenerativo (meccanismo noto come “ipotesi amiloide”, ipotesi che negli ultimi anni ha cominciato a mostrare alcune crepe).
La mutazione è di tipo autosomico dominante che tradotto vuol dire che il gene non si trova su un cromosoma sessuale (quindi ereditarietà non legata al sesso) ed è sufficiente essere portatori di una sola copia del gene mutato per avere la quasi totale certezza di manifestare i sintomi causati dalla mutazione (nel caso FAD sviluppare la malattia intorno ai 50 anni).
Date le premesse grande fu la sorpresa quando si scoprì che un membro della famiglia analizzata, 61 anni e portatore della mutazione, mostrava una piena funzionalità cognitiva a differenza di 11 dei suoi 13 fratelli “portatori” in cui la demenza si era invariabilmente palesata intorno ai 50 anni.
Non bastasse la sorpresa della asintomaticità, la scansione cerebrale mediante PET mostrava un cervello simile a quello di persone con l'Alzheimer, pieno di placche amiloidi ma con una differenza sostanziale: l’assenza di aggregati dovuti alla proteina Tau, minimamente presenti solo nel lobo occipitale, una regione del cervello coinvolta nella percezione visiva solitamente non responsabile dei sintomi di AD. 
Test di memoria e altre valutazioni cognitive diedero punteggi normali e costanti nel tempo (oggi l'uomo è un sano settantenne), alcuni dei quali anzi migliorarono grazie alla pratica.
Quale allora la differenza tra questo individuo sano e i consanguinei malati portatori della stessa mutazione? Le variabili possibili sono quelle ambientali (stile di vita, alimentazione, etc) come pure l’avere ereditato, per pura casualità, una combinazione di alleli “protettivi” in grado di minimizzare l’effetto della mutazione
Alcuni alleli protettivi sono noti da tempo (ad esempio APOE ε2), nessuno di questi però presente nel soggetto in esame dove invece sono state identificati 9 alleli assenti nei fratelli malati. Di queste varianti 6 non erano mai state associate al rischio AD, ma correlabili a processi di neuroinfiammazione e al controllo del corretto ripiegamento (folding) delle proteine.

Tra le ipotesi formulate quella che la presenza di varianti antinfiammatorie insieme a fattori esterni e comportamentali spiegherebbero l'assenza di sintomi pur in presenza di fattori scatenanti come le placche amiloidi (declassate da agenti causali ad agenti facilitanti). 
A supporto di tale ipotesi il ridotto stato infiammatorio delle aree coinvolte nel AD, pur in presenza di placche amiloidi, rispetto a quanto osservato nei soggetti sintomatici; dato che suggerisce una minore reattività del sistema immunitario contro le placche amiloidi 
Ricordo per inciso che in molte malattie i danni maggiori sono causati da una reazione eccessiva o anomala del sistema immunitario contro un  “fattore scatenante” più che al fattore stesso. 
Se sommiamo questi dati con la ridotta presenza di accumuli di proteina Tau diventa lecito ipotizzare che le placche amiloidi siano condizione necessaria ma non sufficiente per la malattia e che (forse) l'innesco definitivo viene da altre alterazioni che facilitano (oppure non impediscono) la formazione di aggregati di Tau, un combinato che favorirebbe la attivazione locale di una infiammazione cronica e a cascata neurotossicità.

Identificare i fattori genetici protettivi potrebbe un giorno portare allo sviluppo di trattamenti farmacologici utilizzabili anche nelle forme sporadiche dell'AD come trattamento preventivo.

Tra gli studi clinici in atto vale la pena segnalare quello basato su lecanemab, un anticorpo che attacca l'amiloide (approvato dalla FDA nel 2023) in combinazione con anticorpi diretti contro la proteina tau.


Fonte
Longitudinal analysis of a dominantly inherited Alzheimer disease mutation carrier protected from dementia
Jorge J. Llibre-Guerra et al, (2025) Nature Medicine


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Modellino anatomico del cervello (Amazon)



Il bambino morto di morbillo in Texas era "prevedibile" (calo di vaccinazioni) e prevenibile

Sono passati quasi 10 anni dall'articolo in cui stigmatizzavo il trend novax (e siamo ben prima del Covid) che aveva portato alla (ri)comparsa di estesi focolai di morbillo a causa del calo delle vaccinazioni. Ridotta protezione che nel caso di infezioni come quella di un virus altamente infettivo come il Paramyxovirus, basta che scenda sotto 85% della popolazione perché rimangano focolai pronti a colpire i più deboli (infanti, anziani o persone con sistema immunitario compromesso).
La soglia di "protetti" (vaccinati o immuni post malattia) necessaria perché non si abbia diffusione in ambienti frequentati da bambini in età prescolare è del 95%
È notizia di pochi giorni che in Texas si è verificato il primo caso (da anni) di un bambino in età scolastica morto per le conseguenze del morbillo, o meglio per le infezioni respiratorie opportuniste che il morbillo facilita spegnendo le difese immunitarie dell'infetto. Delle 124 persone malate (su 9 contee in zone scarsamente popolate), 16 hanno dovuto essere ospedalizzate. Nel 2019 il numero di persone che avevano contratto il morbillo in Texas era di 22.
Il calo del numero di vaccinati in Texas (2025)


Di seguito l'articolo del 2015 che preannunciava il rischio ora verificatosi (per gli articoli successivi usate il tag "morbillo" a fondo pagina)


*** Articolo di febbraio 2015***

Il ritorno del morbillo. La stupidità si paga

Non servivano capacità divinatorie o abilità analitiche degne dei migliori think-tank per prevedere l'epidemia di morbillo che sta imperversando da qualche mese negli USA. Tanto è vero che l'allarme era stato da me rilanciato quasi un anno fa  in articoli tematici (vedi "Vaccinazione morbillo" e "Non abbassare la guardia sul calo delle vaccinazioni").
(wikipedia)
Il punto centrale dell'articolo odierno sottolinea l'impresa (in senso negativo) dell'essere riusciti a trasformare il morbillo, una malattia sotto controllo (in USA e Europa) da più di 15 anni con un numero di casi annuali meno che esiziale, a malattia che si riaffaccia in comunità immunologicamente impreparate  ad affrontarla. 
E questo non perché nel frattempo sia comparso un nuovo ceppo virale particolarmente insidioso o sufficientemente diverso a livello epitopico da rendere meno efficaci le difese immunitarie. La causa è molto più semplice e va ricercata nella sensibile diminuzione delle persone vaccinate (in alcune aree con numeri percentuali a doppia cifra), che si traduce in più persone sensibili all'infezione; maggiore il bacino di infettabili, più probabile è la diffusione dell'epidemia al di fuori del focolaio iniziale. Dato che la vaccinazione contro il morbillo conferisce una protezione pluriennale, ne deriva che i soggetti sensibili per definizione sono i giovani in età scolare o pre-scolare, una età già di suo a maggior rischio a causa della promiscuità sociale a scuola e nei campi gioco.

Paradossalmente il virus del morbillo potrebbe ben figurare come l'esempio da copertina di un virus contro cui il vaccino manifesta una massimizzazione di utilità (durata e grado di protezione) ed efficacia (rapporto rischio-beneficio) proprio per le caratteristiche del virus:
  •  altamente infettivo (valore dell'indice R0 maggiore di 10, tre volte quello dell'influenza). Il virus rimane attivo e contagioso nell'aria o su superfici contaminate per circa due ore dopo che è uscito dal corpo e il periodo infettivo copre l'intervallo compreso tra 4 giorni antecedenti e successivi la comparsa delle macchie cutanee. Sommando questi dati si evince quanto sia facile per un bambino sensibile (cioè privo di anticorpi specifici) essere infettato. Per altre informazioni vedi i dati OMS.
    Malattie infettive a confronto. Morbillo (measles) batte Ebola in quanto a numero di persone infettate da singolo individuo malato
  •  La bassa variabilità virale permette di avere una immunità pluridecennale post-esposizione, dato che il virus è sempre "lo stesso". Confrontate questa "staticità" con l'estrema variabilità del virus influenzale (per cui è necessario ogni anno una nuova vaccinazione); solo questo fatto dovrebbe togliere ogni dubbio sull'importanza del vaccino contro il morbillo
  • Uno dei concetti chiave per comprendere come il rapporto tra soggetti immuni (vaccinati o precedentemente esposti) e sensibili in una data popolazione sia determinante per bloccare sul nascere la nascita di una epidemia, è quello della Herd Immunity (immunità di gregge) Ad ogni malattia infettiva corrisponde un valore diverso di "soglia di immuni" al di sopra della quale il patogeno non riesce a innescare l'epidemia. Come evidenziato dalla figura sotto, il morbillo è tra le malattie infettive comuni quello che è in grado di automantenersi in una popolazione quando la soglia di immuni (vedi sopra) scenda sotto il 90%. Bastano quindi relativamente poche persone (tra quelle sensibili) che decidono di non vaccinarsi per trasformare una popolazione immune in un focolaio epidemico; un fenomeno che, per definizione, favorisce l'insorgere di ceppi virali più aggressivi

    La Comparazione tra l'infettività di malattie comuni (a sinistra) e la copertura sulla popolazione conferita dal vaccino. Per ulteriori dettagli su R0 e concetto di "Herd Immunity" vi invito a rileggere l'articolo precedente sul blog (QUI) e le referenze a fondo pagina. Per una descrizione più semplice di Herd Immunity -->QUI.
     

E qui veniamo al punto dolente. Mai come stavolta si può affermare che più che la ragione potè la credulità popolare, nell'impresa di ridare fiato ad una malattia prevenibile, grazie alle dicerie sul presunto connubio tra vaccinazione e autismo. Un legame totalmente infondato, per vari motivi:
  • eziopatogenesi. L'autismo oltre ad essere una malattia eterogenea e quindi non correlabile ad un singolo e ben identificabile evento (quindi dire che si conosce il nesso causale è un falso), non è nemmeno una malattia che insorge nell'infanzia ma è conseguente a problemi di sviluppo neurologico nella fase embrionale (vedi "Autismo: una patologia geneticamente eterogenea" e articoli successivi per altri dettagli). Un dettaglio non secondario in quanto rende di fatto impossibile teoricamente anche il solo postulare una associazione tra problemi di sviluppo embrionale e vaccinazione infantile: come possa un vaccino avere un effetto retroattivo è un mistero che nessuno dei seguaci di tale ipotesi sembra considerare.
  • Lo studio responsabile di questa credenza venne pubblicato da un medico inglese negli anni '90. Peccato che la teoria formulata, in cui si ipotizzava il legame vaccino/autismo, non solo NON ha mai trovato riscontro in tanti altri studi condotti da allora ma nasce da dati falsi che hanno portato alla ritrattazione dell'articolo da parte dello stesso autore e alla successiva espulsione dello stesso dall'ordine dei medici. ATTENZIONE: non si tratta di un errore di analisi o di dati poi corretti in seguito a migliori tecniche sperimentali (questo è normale e accettabile nella scienza) ma di dati falsificati come appurato da una indagine successiva. Per altri dettagli vedi QUI.
Nonostante queste evidenze, il rifiuto del vaccino è diventato sempre una più una bandiera sotto la quale sono confluite persone e idee anche molto diverse tra loro, in particolare nei paesi anglosassoni. Ne riparlerò in chiusura di articolo.

Non sorprende quindi che dal rischio di epidemie si sia passati alla realtà di epidemie in pochi mesi, come egregiamente riassunto nei due articoli pubblicati oggi sul New York Times (vedi link a fondo pagina).
La conta dei casi di morbillo negli USA secondo i dati ufficiali diffusi dal Center for Disease Control (CDC). Articolo originale QUI.

Risultato simile prendendo in esame il trend in Australia. La freccia rossa indica l'inizio delle vaccinazioni di massa sui bambini
La figura parla chiaro. I casi di morbillo sono saliti l'anno scorso a 644, quasi quanto la somma di casi nell'ultimo decennio. E le prospettive sono negative se si pensa che il numero di casi confermati nel solo gennaio 2015 è già a quota 84, concentrati in solo 14 dei 48 stati continentali degli USA, ad indicare una diffusione ancora nelle prime fasi. Non è nemmeno casuale che uno dei focolai dell'infezione sia stato il parco divertimenti di Disneyland, un luogo "ovvio" in quanto concentra in un'area ristretta e molto affollata quelli che sono i soggetti sensibili per definizione (se non vaccinati): i bambini. Soggetti che al loro rientro a casa e prima della comparsa dei segni rivelatori del morbillo avranno tutte le occasioni per diffondere il virus a scuola o durante le attività ricreative.
Nota. Sebbene possa sembrare ovvio, vale la pena sottolineare che il motivo per cui negli anni passati la frequentazione degli stessi luoghi non abbia alterato sensibilmente il numero di casi di morbillo, a parità di soggetti portatori sempre presenti nella popolazione, era legato al superamento della soglia minima di individui resistenti che rendevano molto difficile al virus trovare "terreni di coltura" adatti. E qui torniamo al concetto di herd immunity che nel caso del morbillo (vedi figura sopra) deve essere superiore al 85-90% dei membri della popolazione in esame. Se prendiamo la popolazione complessiva è probabile che il valore sia (di poco) ancora superiore; se prendiamo però la sottopopolazione degli under-15 (quelli che compongono scuole e campi gioco) tale valore cala drasticamente arrivando al 60%. Una vera "manna" per il virus del morbillo.
Contrarre una malattia così contagiosa come il morbillo ha immediate ripercussioni sulle comunità colpite e i racconti forniti dal New York Times sono emblematici; ne citerò di seguito alcuni.
Le scuole hanno ad esempio cominciato con il vietare la frequentazione ai soggetti non vaccinati (sia perché "a rischio" che per rallentare la diffusione dell'epidemia). Stessa cosa per feste di compleanno e attività sportiva dei ragazzi (attività molto più comuni che da noi).
Un caso emblematico lo si è avuto nella contea di Riverside (a est di Los Angeles), dove in seguito alla malattia di un dipendente della scuola si è deciso per sicurezza di lasciare a casa 40 studenti non vaccinati
A questo si aggiunge una crescente stigmatizzazione verso coloro ora additati come "irresponsabili egoisti" che per una idea personale hanno di fatto messo a rischio l'intera comunità; ricordiamoci infatti che la vaccinazione è SOPRATTUTTO utile per tutelare coloro che per motivi sanitari (anziani, immunodepressi, bambini pre-vaccinazione) non sono o non possono essere vaccinati. Si è quindi passati da una filosofia permissiva nelle piccole comunità basata sul "se non credi nella vaccinazione, sei libero di non farla" ad esplicite accuse ai vicini per "comportamento negligente e criminale che lede la mia sicurezza e non solo la tua".
Molti negozi hanno cominciato ad affiggere avvisi sulle vetrine con inviti alle persone con famigliari malati a indossare mascherine prima di entrare.
Nota. Il problema principale associato al morbillo non è la "malattia in se" ma le complicanze che ad essa possono associarsi. Il fattore rischio aggiuntivo deriva da una capacità peculiare del virus del morbillo che è quella di essere un efficiente immunosoppressore. Minore attività del sistema immunitario si traduce in un aumentato rischio di sviluppare malattie causate da patogeni opportunisti. I numeri sono ancora una volta chiari: 1 bambino su 20 con morbillo contrarrà anche una polmonite (causa principale di decesso nei più giovani); 1 su 1000 si ammalerà di encefalite (causa di convulsioni e potenziale induttore di danni permanenti come sordità o ritardo mentale); ogni 1000 bambini che si ammalano di morbillo, 1-2  ne moriranno.
Numeri assolutamente inconcepibili e inaccettabili essendo il morbillo una malattia prevenibile.
Di fronte al tradursi del morbillo da una minaccia ipotetica ad un evento reale gli stessi attivisti del movimento anti-vaccino americano sono passati da una posizione "militante" compatta ad una divisione tra irriducibili ("preferisco che i miei figli perdano anche un semestre a scuola piuttosto che consentire l'iniezione delle tossine del vaccino" [parole testuali]) e dubbiosi corsi dal medico per una vaccinazione last minute dopo aver soppesato i rischi teorici al morbillo reale. Tendenza in aumento dopo che nuovi focolai di morbillo sono apparsi in Nebraska, Minnesota, New York e in varie contee californiane.
Nota. La corsa dell'ultimo minuto al vaccino è di suo indicativa di una certa ignoranza sui meccanismi di immunizzazione. Una volta ricevuta la vaccinazione sono necessarie circa 3 settimane perché la copertura immunitaria sia evidente (i primi anticorpi cominciano a circolare circa 8 giorni dopo l'esposizione). Non si tratta di una pozione magica o di una medicina che inizia ad esercitare l'effetto subito dopo l'assunzione
La Casa Bianca ha esortato i genitori ad ascoltare la scienza e non le dicerie prive di fondamento. Un simile appello viene dai funzionari della sanità dello stato dell'Arizona che hanno stimato in almeno un migliaio le persone ad immediato rischio di morbillo, esortando chiunque mostrasse i sintomi a contattare il proprio medico e a minimizzare i contatti con altre persone. Un timore sostanziato dal fatto che domenica sera a Phoenix (Arizona) ci sarà l'evento clou della stagione sportiva americana, il Super Bowl; si vuole evitare che l'evento sportivo (aggregatore di pubblico) diventi un nuovo trampolino di lancio per la diffusione del virus in aree ancora non colpite.
Le autorità del New Mexico, stato ancora "libero" da focolai, sono consapevoli di essere a rischio sia per la vicinanza con California e Arizona che per l'alto tasso di bambini non vaccinati, aumentati del 17 per cento nell'ultimo biennio.

Due parole sulle caratteristiche degli appartenenti al movimento anti-vaccino. Si tratta di una compagine alquanto eterogenea per censo, istruzione e motivazioni: andiamo da persone che ancora credono alla validità dell'articolo incriminato di cui sopra a movimenti religiosi che rifiutano pratiche mediche moderne (ad esempio gli Amish) fino alla sottocultura che incorpora idee post-new age e di salutismo assoluto. Una sottocultura molto in voga tra famiglie benestanti e istruite che vivono in quartieri esclusivi di Los Angeles e San Francisco che fanno del motto "all-natural" un modus vivendi per se e i propri figli (le interviste a divi hollywoodiani come Gwyneth Paltrow et similia sono molto indicative).
Una compagine sempre più estesa che lascia sconfortati molti pediatri di base che lamentano di "sentirsi proiettati indietro negli anni '50" data la percentuale di bambini non vaccinati negli asili che oscilla tra il 20 e il 40 per cento. "Le motivazioni addotte dai genitori per non farli vaccinare sono sempre legate a convinzioni personali" continua il medico intervistato "E' molto frustrante vedere un bambino ammalarsi e soffrire per qualcosa del tutto evitabile".
Nota. La protezione fornita dal vaccino trivalente è circa del 95%. Fate voi due calcoli tra la certezza di infezione tra un non vaccinato esposto e un vaccinato. Una differenza molto superiore a 95 volte dato che se nella comunità la soglia dei "resistenti" è superiore al 90% (Herd Immunity) la probabilità di "incontrare il virus" diventa meno che decimale.
Paradossalmente la percentuale di bambini vaccinati è inversamente proporzionale al reddito medio della contea: la classe medio-bassa è più propensa a seguire i consigli dei medici di quelli a reddito elevato. Un caso che mostra come il quoziente intellettivo non va di pari passo con il reddito ...


Un esempio pratico di Herd Immunity. All'aumentare della percentuale di vaccinati nella popolazione varia la velocità di diffusione di un virus. Alcuni valori corrispondono alle percentuali di vaccinati "reali" in alcune contee USA. Facile notare quanto la variazione al di pochi punti percentuali (sotto il valore soglia) abbia un profondo impatto sulla epidemia. La foto è una istantanea di un video flash disponibile sul sito del giornale inglese The Guardian. Clicca --> QUI per vedere la simulazione interattiva.
Se avete dubbi su quanto sia contagioso e pericoloso il morbillo, questo grafico ne evidenzia molto bene le caratteristiche (Credit:NYT)

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Il problema però non riguarda solo il morbillo (ne ho discusso QUI) che pur con le complicazioni associate è meno distruttivo di altre malattie per cui esistono dei vaccini. Un esempio eclatante viene  dal caso della contea di San Geronimo, California, una bella area rurale sita 30 miglia a nord di San Francisco. Qui il 40 per cento degli studenti della locale scuola elementare non sono vaccinati per il morbillo e il 25 per cento non è stato nemmeno vaccinato contro il virus della polio. In totale il 58% dei bambini è carente per almeno una delle vaccinazioni standard.

Chiudo con il citare una chicca tratta sempre dall'articolo del New York Times che esemplifica al massimo il modo di pensare di alcuni che permangono nelle loro convinzioni anti-vaccino.
La signora McMenimen, una delle mamme che si trova con un bambino con il morbillo, risponde così al giornalista che chiede il perché della scelta di non vaccinare il figlio: "Tobias ha sopportato molto bene sia la varicella che la pertosse, e quest'ultima è stata come un comune raffreddore. Ho solo avuto la tentazione di fargli fare una antitetanica dopo che il bambino si era tagliato con il filo di un recinto ma poi ci ho ripensato. Ha un sistema immunitario così forte"
Credo non servano altri commenti

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E l'Italia?
L'Italia è stata richiamata ufficialmente dall'OMS a causa del calo del tasso delle vaccinazioni obbligatorie. Sarebbe interessante confrontare i dati e pesarli in base ad aree geografiche, censo, livello di istruzione e origine delle famiglie inadempienti. Dati essenziali per capire come correggere un trend inammissibile.
Casi per milioni di abitanti: <1 (giallo); <10 (arancione); pois (>20)



(Articolo precedente su morbillo qui)


Fonti ulteriori oltre a quelle già citate nell'articolo
- Dal New York Times

  • Vaccine critics turn defensive over measles (31/1/2015)
  • As Measle Cases Spread in US, So Does Anxiety (31/1/2015)
  • Reckless Rejection of the Measles Vaccine (3/2/2015)
- Istituto Superiore di Sanità e Ministero della Salute
- Centers for Disease Control
- Mayo Clinic
- National Institutes of Health

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Se volete affrontare l'argomento "quanto sono importanti i vaccini e perché" vi consiglio la lettura del libro scritto da Alberto Mantovani, uno che si occupa di scienza 365 giorni all'anno e che rappresenta un fiore all'occhiello della ricerca italiana in ambito internazionale. Il libro è scritto in modo semplice ma rigoroso, pensato apposta per informare e spiegare senza dogmatismi o dietro false ideologie




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La cooperazione funziona meglio tra le formiche che tra gli umani

Chiunque abbia avuto a che fare con le formiche in cucina o durante un picnic sa che le formiche sono creature altamente sociali: non le vedrete mai da sole. Anche gli umani sono creature sociali (con tutte le eccezioni del caso). 
Le formiche e gli umani sono le uniche creature in natura che cooperano durante il trasporto di grandi carichi le cui dimensioni superano di molto quella dei singoli membri.
Un team di ricerca israeliano del Weizmann Institute of Science ha sfruttato questa comune tendenza per condurre un'affascinante gara su chi fosse più bravo a manovrare un carico voluminoso lungo un percorso non lineare in cui la "muta" intelligenza collettiva (da intendersi come cooperazione muta per risolvere il problema) era la chiave per riuscire nell'impresa.

I risultati dell'esperimento comportamentale, pubblicati sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), permettono di chiarire alcune dinamiche dei processi decisionali di gruppo.
Chiaramente umani e formiche per quanto sociali siano non hanno molto in comune per cui era necessario ideare un confronto interspecie non viziato dalle dotazioni fisiche e di comunicazione. A tale scopo i ricercatori hanno creato una versione reale del "rompicapo dei traslocatori di pianoforti", che non è il titolo della celebre scenetta sulla scalinata di Laurel&Hardy ma un classico problema computazionale nel campo della pianificazione del movimento nella robotica, sui possibili modi di spostare un oggetto dalla forma insolita (ad esempio un pianoforte) dal punto A al punto B in un ambiente complesso. Nello specifico i due sfidanti dovevano spostare non un (mini)pianoforte ma un oggetto a forma di T, di dimensione tale che potesse essere spostato da un singolo membro del team solo spingendo/tirando, lungo un percorso diviso in tre camere collegate da due strette fessure. 
Reclutare i partecipanti allo studio è stato più facile nel caso degli umani, che si sono offerti volontari semplicemente perché era stata offerta loro questa possibilità e probabilmente perché gli piaceva l'idea di una competizione.
Le formiche, d'altra parte, sono tutt'altro che competitive. Si sono unite perché sono state indotte a pensare che il carico pesante fosse un boccone succulento da trasportare a casa. Le formiche scelte per competere con l'Homo sapiens sono le Paratrechina longicorni, una specie molto comune a volte definite "formiche pazze" per il movimento  caratteristico restio dal seguire percorsi lineari come invece fanno altre formiche.

Formiche vs. umani (credit: Weizmann)
Sia il team umano che quello formica sono stati suddivisi in sottogruppi composti da un numero diverso di individui in modo da valutare quale fosse la situazione in cui l'intelligenza di gruppo dava il suo meglio.
  • Il team formiche ha affrontato la sfida del labirinto in 3 combinazioni: singola formica; gruppo di 7; gruppo di 80. 
  • Gli umani hanno gestito il compito in 3 modalità: singolo; gruppo di 6 o 9 individui; gruppo di 26. 
Per rendere il confronto il più significativo possibile, in alcuni casi ai gruppi di umani fu chiesto di evitare di comunicare tramite parole o gesti, in alcuni casi indossando maschere chirurgiche e occhiali da sole per nascondere bocca e occhi. Inoltre, ai partecipanti umani fu detto di tenere il carico usando solo le maniglie che simulavano il modo in cui viene le formiche trasportano i pesi. Le maniglie contenevano misuratori che misuravano la forza di trazione applicata da ciascuna persona durante il tentativo.
Ogni combinazione è stata ripetuta varie volte in modo da avere significatività statistica e i vari tentativi sono stati catturati via video e analizzati al computer.

Non sorprenderà sapere che le capacità cognitive (pianificazione e strategia) degli umani siano state determinanti nel fare vincere la prova al team umano nella sfida individuale.
Nella sfida di gruppo, tuttavia, il quadro era completamente diverso, soprattutto per i gruppi più grandi. Non solo i gruppi di formiche hanno ottenuto risultati migliori delle singole formiche, ma in alcuni casi hanno ottenuto risultati migliori degli umani.

I gruppi di formiche agivano insieme in modo calcolato e strategico, esibendo una memoria collettiva che le aiutava sia a persistere in una particolare direzione di movimento che ad evitare di ripetere gli errori. Una sinergia e miglioramento delle prestazioni che pareva mancare agli umani specie nei gruppi più numerosi, in particolare quando la possibilità di comunicazione verbale e "espressiva" tra i membri del gruppo veniva impedita (qui le prestazioni essere inferiori perfino a quelle del singolo individuo a riprova del vecchio detto "meglio soli che male accompagnati").
Il gruppo umano pareva andare sempre verso la soluzione attraenti a breve termine che però si rivelava fallata sul percorso complessivo.

Tra le ragioni biologiche che spiegano la miglior resa di gruppo delle formiche è senza dubbio il loro strettissimo grado di parentela (sono tutte sorelle) con interessi comuni (sopravvivenza del nido e trasmissione dei geni) tanto da avere fatto coniare al celebre biologo Edward O. Wilson il termine superorganismo per descrivere le colonie di formiche (e non solo) come una sorta di corpo vivente composto da più "cellule" che cooperano tra loro; il gruppo è ben superiore alla somma delle singole "parti" che sono sacrificabili esattamente come le cellule della epidermide attivano un programma di differenziamento che le porta alla morte in modo da formare un rivestimento impermeabile per il corpo.
Nel libro "Il gene egoista" Richard Dawkins spiega in termini genetici per quale motivo le api operaie trovino più vantaggioso (in termini genetici) lavorare perché la loro sorella "regina" si occupi della produzione della progenie invece di farlo esse stesse. 
Le formiche che agiscono in gruppo sono più intelligenti, perché per loro il gruppo è maggiore della somma delle sue parti. Al contrario, la formazione di gruppi non ha ampliato le capacità cognitive degli esseri umani. La famosa "saggezza della folla" che è diventata così popolare nell'era dei social network ha dimostrato la sua fallacia in questi esperimenti e la cosa non mi sorprende specie guardando al comportamento degli influencers e degli "influenzati"



Fonte
Comparing cooperative geometric puzzle solving in ants versus humans.





Virus: non solo agenti infettivi ma anche cibo per protozoi

Virus. Non solo distruttori (di cellule) ma anche "integratore alimentare" per alcuni microrganismi.

Pensiamo alle placide acque di uno stagno in cui abbondano insetti e qualche pesce. Nelle sue acque, generalmente poco invitanti dato l'aspetto non cristallino, è in atto una invisibile ma continua disfida tra i virus e gli organismi unicellulari (batteri e protozoi) dove i primi cercano di trovare l'ospite adatto da usare per riprodursi e i secondi, vittime potenziali, a volte si trasformano da preda in predatori usando gli intrusi come fonte di cibo (una scena che evoca la trasformazione di Pac-man e dei fantasmini).
Per correttezza ricordo che i virus sono in genere altamente selettivi nella definizione di ospite "utile" (permissivo). La cellula bersaglio deve possedere sia recettori adeguati che un macchinario replicativo compatibile con le necessità riproduttive del virus. Ecco perché ad esempio un virus dell'influenza non è in grado di infettare le cellule muscolari dello stesso ospite (quindi geneticamente identiche) o cellule di organismi diversi da quelli abituali. Un batteriofago (virus dei batteri) non potrà fare nulla contro una cellula eucariote e sarà per questa inerte come un granello di sabbia.
Indizi di questa possibile alternanza di ruoli preda-predatore sono stati forniti da John DeLong, ricercatore presso l'università del Nebraska, a cui si deve la scoperta che alcune specie di Halteria, microorganismi ciliati che popolano le acque dolci in tutto il mondo, si nutrono dei clorovirus (virus che infettano le alghe verdi) che condividono il loro habitat acquatico. Una dieta questa per cui è stato coniato il nome virovoria/virivoria, rivelatasi sufficiente, in test di laboratorio, non solo a sostentare il microbo in assenza di altro cibo ma anche a permettergli di riprodursi.
Halteria (credit: Don Loarie)
L'utilizzo del virus come fonte di cibo può essere visto come una soluzione ecologica per rimettere in circolo parte del carbonio "intrappolato" nelle molecole organiche perse dalle cellule infettate quando "esplodono" durante la fase di rilascio della progenie virale.
Un riciclo non indifferente se si pensa a quanti virus ci sono nelle acque (circa 10 milioni in ogni goccia di acqua marina) e a quanti microbi tipo l'Halteria  esistono, senza contare quelli con simili capacità non ancora rilevati. Un tassello nel ciclo del carbonio fino ad oggi misconosciuto.

Non pura serendipità la scoperta di DeLong ma il proseguimento di studi iniziati nel 2016 per cercare di comprendere come riuscissero i clorovirus ad entrare in contatto ed infettare le zooclorelle (alghe verdi) che vivono a centinaia in perfetta simbiosi dentro protozoi ciliati come i parameci.
La relazione simbiontica tra un paramecio e le zooclorelle (alghe verdi)
(Credit: wikipedia)
La spiegazione più semplice era che l'infezione delle zooclorelle avvenisse prima del loro ingresso nei parameci oppure durante l'ingestione del cibo (in genere funghi unicellulari) da parte del protozoo.
In alternativa c'erano indizi in letteratura scientifica che indicavano la capacità di alcuni protozoi di rimuovere i virus dalle acque reflue, indicativi di una cattura diretta per quanto mai osservata.

Nessuna informazione era però disponibile sulla ragione di questa attività di cattura di virus e tanto meno sul ruolo negli ecosistemi microbici.
I virus sono fatti di cose buone come gli acidi nucleici, ovvero molto azoto e fosforo. Difficile credere che una sì preziosa fonte di materiale fosse stata dimenticata durante l'evoluzione. "Qualcosa" avrebbe usato questa nicchia dimenticata come fonte di cibo a buon mercato (altamente disponibile).
L'idea venne messa alla prova raccogliendo campioni da uno stagno in modo che ciascuna goccia campione contenesse almeno uno dei tanti microrganismi, fino a rappresentarli in modo più ampio possibile. A ciascun campione vennero poi aggiunte generose "porzioni" di clorovirus (come detto, questi virus sono in grado di infettare solo le alghe verdi e sono innocue per tutti gli altri microbi).
Dopo una incubazione di 24/48 ore si cercarono indizi nelle gocce se (e quali) specie microbi si fossero avvantaggiati della presenza dei virus come degli utile snack: ad esempio monitorando il loro stato vitale e riproduttivi.
Indizio trovato nelle gocce in cui era presente l'Halteria. Qui il numero di clorovirus era diminuito di 100 volte in soli due giorni e le cellule di Halteria (prive di ogni altra fonte di cibo) era cresciuta di 15 volte. Le Halteria nelle gocce di controllo (a cui non erano stati forniti clorovirus) non mostravano alcun aumento.
Indizi suggestivi ma serviva una prova definitiva che indicasse che il virus veniva usato come cibo dai protozoi. A questo scopo il DNA del clorovirus venne marcato con un colorante verde fluorescente prima di essere aggiunto al liquido contenente l'Halteria; poche ore dopo l'aggiunta il vacuolo (l'equivalente ciliato di uno stomaco) divenne verde brillante.
Il dato era ora inequivocabile: non solo i ciliati stavano mangiando il virus ma questi erano una fonte nutritiva sufficiente a sostentarli. 
L'analisi della dinamica predatore-preda (declino del clorovirus rispetto alla crescita di Halteria) mostrava che Halteria convertiva il 17% della massa di clorovirus consumata in nuova massa propria; percentuali simili  a quelle osservate quando i Parameci si nutrono di batteri o i piccoli crostacei mangiano le alghe.

Quanto sia diffusa la virovoria in natura o se sia essa un escamotage nutritivo da usare in tempi grami è una risposta ancora inevasa ma di importanza fondamentale per comprendere la resilienza delle reti alimentari.

Fonte
- The consumption of viruses returns energy to food chains
JP DeLong, (2022) Proceedings of the National Academy of Sciences 



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