Uno studio appena pubblicato riporta la (probabile) scoperta del primo pianeta al di fuori della Via Lattea.
Image credit: NASA/CXC/A.Jubett via bigthink.com |
L’importanza della notizia non è nella scoperta dell'esistenza di pianeti in altre galassie (fatto dato per scontato dopo averne trovati migliaia nelle nostre "vicinanze") ma nell’essere riusciti a sviluppare un sistema per poterli individuare.
Negli ultimi 20 anni la ricerca di esopianeti è passata da mera ipotesi accademica a pratica che potremmo definire routinaria (ad oggi il numero di esopianeti confermati è 4551).
All’inizio ad essere rilevati erano i pianeti più grossi e prossimi alla stella analizzata. Da qui l’abbondanza nei cataloghi dei cosiddetti pianeti gioviani caldi (Hot Jupiters) rispetto ai pianeti rocciosi; un rapporto totalmente opposto a quello nel sistema solare dove i pianeti gassosi sono la minoranza e localizzati verso la periferia del sistema. Uno sbilanciamento che aveva fatto sorgere la domanda se era il nostro sistema ad essere un caso particolare oppure se il catalogo non poteva essere rappresentativo in quanto viziato dai limiti intrinseci dei metodi analitici in uso che "selezionava" gli esopianeti più facili da vedere, per l’appunto quelli grandi e vicini alla stella.
Oggi che i metodi si sono affinati (vedi la ➡️ postilla metodologica per una descrizione sommaria delle tecniche in uso) il rapporto ha cominciato ad equilibrarsi grazie all'osservazione dei pianeti rocciosi, sebbene del tipo Super-Terra, alcuni dei quali in orbite coerenti con la zona di abitabilità.
La ricerca si è invero focalizzata alla nostra galassia, meglio se nelle nostre vicinanze e in aree "guidate" a seconda della tecnica utilizzata.
Image credit: NASA |
La precedente immagine schematizza la posizione in cui sono stati mappati gli esopianeti della nostra galassia. Il cono rosso indica la posizione di quelli (e sono la gran parte) identificati mediante il metodo dei transiti, mentre in giallo sono riportati alcuni di quelli trovati con il più raffinato, ma non sempre utilizzabile, metodo del microlensing. Il più lontano è il gigante gassoso OGLE-2014-BLG-0124L, a circa 13 mila anni luce (kyl) da noi; OGLE-2016-BLG-1190Lb, distante ben 25 kyl (“quasi” al centro galattico) ha in verità una identità incerta; per alcuni potrebbe essere una nana bruna.
Date le premesse se qualcuno mi avesse detto che stava cercando di identificare pianeti in altre galassie, avrei pensato alla trama di un fantasioso libro di SF, dato che le mini galassie appartenenti al gruppo locale, sono a 100 kyl mentre Andromeda si trova già a 2 milioni yl.
Eppure, è notizia di poche settimane fa, grazie ai dati ottenuti con il telescopio Chandra X-ray, si è rilevato un pianeta nella galassia Messier 51, distante 28 milioni di anni luce.
Image credit: NASA |
Il risultato è frutto di una modifica della tecnica (standard) dei transiti in cui invece del visibile sono state usate le lunghezze d’onda dei raggi X per cercare il periodico “oscuramento” del segnale stellare, indice di un corpo transitato di fronte alla sorgente luminosa.
Un approccio non utilizzabile per le stelle classiche in quanto, come ci insegna la fisica della radiazione del corpo nero, la componente a raggi X emessa dalle stelle è meno che minimale rispetto alle lunghezze d'onda del visibile e ultravioletto.
Image credit: hyperphysics.phy-astr.gsu.edu |
Quindi non vanno bene né le stelle solari o di massa inferiore né le stelle supergiganti. Per trovare fonti di radiazione X degne di nota bisogna cercare sistemi binari ultra massicci, in cui almeno un membro è una stella di neutroni o un buco nero e la compagna una stella "normale" di massa (e temperatura) sufficiente ad emettere radiazione nel visibile. Il sistema studiato è M51-ULS-1, rilevabile sia con telescopi ottici che a raggi X.
Image credit: NASA |
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(Credit: NASA/CXC/M. Weiss) |
La presenza di entrambi i segnali indica infatti che una delle due stelle è ancora "viva" (non collassata) e sta cedendo parte della propria materia al compagno “invisibile” ma di massa molto maggiore, provocando così il surriscaldamento del gas e con questo l’emissione di raggi X.
Poiché la regione che produce i raggi X brillanti è piccola, un ipotetico pianeta associato a questo sistema binario che transitasse tra la sorgente e noi, causerebbe un calo nel segnale rilevato dal telescopio. Il suo transito di fronte alla stella “normale” non sarebbe invece rilevabile a quelle distanze sia per la maggior dimensione relativa della stella (una stella di neutroni ha un diametro anche solo di 20 km) che per la scarsa risoluzione (e facilità alle interferenze) della luce visibile.
Pur non avendo informazioni chiare sulla natura della stella invisibile (neutroni o buco nero) l’altro membro del sistema binario è stato identificato in una stella di massa circa 20 volte quella del Sole.
Il calo del segnale, durante il quale l'emissione di raggi X (cioè quella giunta a noi) si è azzerata è durato circa 3 ore Sulla base di questa e di altre informazioni, gli astronomi stimano che il pianeta candidato avrebbe dimensioni simili a quelle di Saturno con una orbita distante dalla stella collassata circa il doppio a quella Saturno-Sole.
Il che pone un problema nella validazione dei dati: a tale distanza il prossimo transito avverrà tra circa 70 anni, escludendo così nuove misure su questo sistema (a meno che nel frattempo non si scopra un altro pianeta in quel sistema).
Video credit: sciencedaily
Esistono altre spiegazioni del fenomeno? Gli stessi ricercatori dicono che da un punto di vista teorico il calo del segnale potrebbe essere stato prodotto dal passaggio di una “nuvola” di gas e polvere proprio di fronte alla sorgente a raggi X. Una ipotesi scartata perché i dati raccolti non sono coerenti con tale possibilità.
Forse superfluo sottolineare che gli stessi ricercatori avvertono che dovranno essere raccolti molti altri dati per avere conferme indirette della loro interpretazione (vedi anche la cautela espressa nell'articolo di Ethan Siegel).
Nessuno dei nuovi telescopi (tra cui il James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il prossimo 21 dicembre) non saranno di aiuto in tale ricerca perché costruiti per rilevare infrarossi e visibile.
Lo studio ha doppia valenza di interesse.
In primis è il primo nel suo genere riguardo l'esplorazione extragalattica. In subordine, essendo questi sistemi binari alquanto comuni (su scala galattica), lo strumento potrà essere utilizzato per mappare esopianeti altrove..
Alcuni di questi sistemi sono, tra l’altro così brillanti ai raggi X, da permettere di misurare le loro curve di luce.
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Ben poche possibilità di rilevare segnali "intelligenti" in quella zona.
Pur ammettendo la presenza anche di pianeti rocciosi a noi invisibili, la zona non è un posto ideale in cui trovarsi data la quantità di radiazioni emesse durante il "pasto" del buco nero/stella di neutroni.
La suggestione con il pianeta Gargantua del film Interstellar rimane, ma per renderlo plausibile il Nobel Kip Thorne (indimenticabile ospite anche in The Big Bang Theory) dovette all'epoca suggerire al regista di usare un buco nero supermassiccio quiescente: quiescente perché non intento a ingurgitare stelle troppo vicine; supermassiccio perché come la fisica insegna questi sono gli unici buchi neri in cui non si rischia una spaghettificazione, data l’enorme superficie, anche approssimandosi all'orizzonte degli eventi). Per qualche dettaglio in più sul perché il buco nero sia rappresentato in questo modo vi rimando al precedente articolo sul tema o al libro The Science of Interstellar.
Rivisitazione grafica della clip dal film Interstellar, ad opera di BlackRainbow (All credit to the author) |
Fonte
- A possible planet candidate in an external galaxy detected through X-ray transit
Rosanne Di Stefano et al, (2021) Nature Astronomy
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