Amici, familiari, colleghi, conoscenti, ... innumerevoli combinazioni di tratti somatici che definiscono un volto e che devono essere elaborati dal cervello affinché avvenga il processo di riconoscimento. Una elaborazione quasi istantanea presente anche negli infanti (almeno dal momento in cui gli occhi imparano a mettere a fuoco) che non può non sorprendere per la sua efficienza tanto più che funziona anche in assenza di ovvie (inteso come appariscenti) alterazioni del visus rispetto allo "standard".
Credit: Tsao lab |
Come faccia il cervello a ricostruire l'informazione giuntagli come dato grezzo dalla retina (completo come "flusso" ma privo di una informazione intrinseca), rappresenta uno degli aspetti più affascinanti delle neuroscienze (vedi articoli precedenti --> "Identificata area del cervello che riconosce i bordi" e "13 msec per catturare un immagine").
Un importante tassello alle nostre conoscenze viene dal lavoro del team di Doris Tsao della UCLA, pubblicato sulla rivista Cell. Volendo condensare i risultati in una frase, si tratta della caratterizzazione di quanto pochi siano i neuroni coinvolti nel processo di riconoscimento facciale; un numero tuttavia sufficiente affinché, grazie alle molteplici combinazioni tra attivazioni differenziali degli stessi, l'infinita gamma di volti "riconoscibili" risulti coperta.
I risultati ci permettono di prefigurare un futuro prossimo in cui sarà possibile ricostruire in esterni il volto percepito da un qualunque soggetto, semplicemente mediante una scansione cerebrale (vedi anche --> "Lettura del pensiero mediante scansione cerebrale").
Andiamo per gradi.
Elemento centrale del lavoro è che, anche se esiste un numero infinito di volti potenziali, il nostro cervello necessita solo di circa 200 neuroni per codificare l'informazione che definisce in modo univoco un volto. Chiaramente non avrebbe senso ipotizzare che questi neuroni riconoscano "una tipologia di volti"; molto più sensato ipotizzare che ciascuno di essi contribuisca al processo decodificando una dimensione specifica o asse di variabilità del viso. Per fare una similitudine con la visualizzazione delle gamma dei colori, così come la luce rossa, blu e verde (e i rispettivi fotorecettori) si combinano per creare ogni possibile colore dello spettro, questi 200 neuroni sommano le rispettive informazioni definendo uno spettro di volti.
Alcuni di questi neuroni rilevano (da intendere con "si attivano in presenza di quel tratto") tratti come la morfologia del viso, ad esempio la distanza tra gli occhi, la forma della linea dei capelli o la larghezza del viso. Altri identificano caratteristiche del volto indipendenti dalla forma, come la carnagione, la muscolatura/tonicità del viso o il colore degli occhi e dei capelli.
La risposta dei neuroni è proporzionale alla "intensità" di queste caratteristiche. Per esempio, un neurone potrebbe attivarsi in modo proporzionale alla distanza interoculare, definendo così una gamma di segnali indicativi di un tratto del viso.
Bisogna però sottolineare come i singoli neuroni di questa popolazione (noti come "face cells") non identificano caratteristiche specifiche facilmente visualizzabili (ad esempio "gobba sul naso") quanto invece una più astratta direzione nella zona del viso che unisce diverse caratteristiche elementari. La somma di queste informazioni permette al cervello di percepire il volto, passaggio preliminare per associazioni superiori come il chi è (legato alla memoria) e cosa suscita in noi quel volto (mediato da corteccia premotoria ventrale, amigdala e dall’insula).
Questo il motivo per cui volti solo vagamente familiari (appartenenti a soggetti sconosciuti) possono indurre in noi, in modo imprevedibile e non conscio, emozioni di vario tipo; si tratta di un "errore" di identificazione, sufficiente però a cortocircuitare associazioni emotive.
Il lavoro di Doris Tsao rappresenta il culmine di quasi vent'anni di studi sul "codice" del riconoscimento dei volti. Passaggio fondamentale in questa ricerca fu nel 2003 la scoperta che alcune regioni del cervello delle scimmie si attivavano in modo specifico durante l'osservazione di un volto (--> Tsao DY et al). Tali regioni furono chiamate face patches e i neuroni al loro interno face cells (cellule del viso). Negli anni successivi si scoprì che ciascuna cellula di questa regione rispondeva a particolari caratteristiche del viso. Sebbene interessanti, i risultati erano però insoddisfacenti in quanto fornivano solo un'ombra di quello che ciascuna cellula stava veramente "catturando". Ad esempio variando la forma degli occhi in un volto disegnato si potrebbe facilmente osservare quali cellule rispondono a tale modifica; la spiegazione potrebbe però troppo generica in quanto tali cellule potrebbero in realtà rispondere a tratti sottesi alla nuova forma e/o attivarsi anche in seguito ad altre modifiche del visus, apparentemente non correlate.
Un problema risolto con l'elaborazione dei volti generati al computer che permette di controllare nel dettaglio gli "input" e le risposte neuronali.
Un problema risolto con l'elaborazione dei volti generati al computer che permette di controllare nel dettaglio gli "input" e le risposte neuronali.
La comprensione dei meccanismi di decodifica è avvenuta attraverso due passaggi chiave. In primo luogo una volta compreso sperimentalmente quale fosse l'asse rilevato da ciascuna cellula, divenne possibile sviluppare un algoritmo in grado di prevedere quali volti fossero capaci di attivare quella particolare cellula. In altre parole divenne possibile dedurre dalla semplice misurazione della attività elettrica nelle face cells di una scimmia, quale fosse il volto (tra i tanti del campionario) che lei stava osservando in quel momento.
Il secondo passaggio fu la formulazione dell'ipotesi che se ogni cellula era effettivamente responsabile della "rilevazione" su un singolo asse dell'area del viso, questa cellula doveva essere capace di rispondere esattamente allo stesso modo ad un numero infinito di volti diversi ma con in comune un pattern assiale compatibile. Una ipotesi confermata sperimentalmente dalla Tsao.
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I risultati smantellano le teorie secondo le quali il ruolo delle face cells è quello di decodificare le identità facciali. Il loro lavoro è molto più semplice e proprio per questo in grado di coprire una gamma pressoché infinita di volti. Potremmo definirle "semplici" macchine in grado di rilevare proiezioni lineari; ogni cellula cattura una parte dell'immagine in arrivo e ne definisce la parte unidimensionale. E' l'integrazione di queste attivazioni unidimensionali a fornire l'informazione per "ricostruire" un volto.
Fonte
- The Code for Facial Identity in the Primate Brain
Chang L & Tsao DY Cell ( 2017); 169(6) pp1013-1028
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