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Smaltire le scorie nucleari in sicurezza grazie ai batteri?

I reattori nucleari rimangono una fonte di energia importante ancorché non ottimale in quanto basati sulle reazioni di fissione nucleare che generano residui radioattivi che devono essere lasciati decadere per molti anni in appositi siti. La vera scommessa del futuro è la fusione nucleare che per caratteristiche intrinseche non genera prodotti di scarto radioattivi ed è a prova di esplosione
Nota. Se da un punto di vista teorico le reazioni di fusione nucleare sono fattibili (processo mutuato dalla conoscenza delle reazioni di nucleosintesi stellare), il problema pratico è nell'alta energia di attivazione richiesta. La reazione più "facile", quella deuterio-trizio, avviene spontaneamente nel nucleo stellare (densità e pressione estreme) a temperature pari a diversi milioni di gradi; alle condizioni "terrestri" di pressione, la temperatura necessaria perché la reazione di fusione inizi è di 100 milioni di gradi Kelvin! Dato che non esiste ovviamente materiale in grado di resistere a queste temperature gli ingegneri hanno pensato ad aree di confinamento magnetico dove il plasma rimane in sospensione senza toccare le pareti del "contenitore". Altre strade potenzialmente interessanti sono quelle volte a trovare metodi in grado di abbassare la temperatura di attivazione (vedi il casus "fusione fredda") minimizzando quindi l'energia necessaria per accendere il reattore. Una volta attivata, la reazione è autosufficiente almeno finché c'è "carburante" e soprattutto fintanto che si mantengono le condizioni perché la fusione - evento di per sé molto raro - avvenga (questo il motivo della sicurezza intrinseca in questa reazione).
Dato che le centrali a fusione nucleare sono ancora di là da venire e che l'energia nucleare è un complemento fondamentale per la richiesta di energia attuale (perfino il Giappone ha riattivato le centrali consapevole di non poterne fare a meno) e che in condizioni di sicurezza è di sicuro meno inquinante dei combustibili fossili (se non ci credete fate un giro nelle città cinesi e indiane odierne o leggetevi i resoconti della Londra a carbone di pochi anni fa) il problema che bisogna risolvere è lo stoccaggio in sicurezza dei materiali radioattivi.
Attenzione a non farvi fuorviare da alcune leggende metropolitane. Questi rifiuti non sono solo il prodotto di scarto delle centrali nucleari ma soprattutto nei residui radioattivi di molti processi industriali e della medicina nucleare (terapia e diagnostica). In altre parole, anche paesi senza centrali hanno il problema dei rifiuti radioattivi da smaltire.
Stoccaggio in New Mexico
A seconda dei tempi di decadimento associati si passa da siti di stoccaggio temporanei a siti "permanenti" che devono ovviamente tenere in considerazione parametri geologici e sismici del terreno prescelto in modo che siano ragionevolmente sicuri per centinaia o migliaia di anni. Siti ideali utilizzati finora vanno dalle profondità (chilometri) dei deserti americani nel New Mexico fino ad alcune aree delle Alpi, zona questa scelta dalla Svizzera per stoccare i propri residui (la Svizzera ha centrali nucleari).

Ed è qui che mi allaccio per riassumere i risultati di alcune ricerche che mostrano il potenziale utilizzo di alcuni batteri per minimizzare i rischi dello stoccaggio.
Lo studio, pubblicato su Nature Communications e condotto da un team dell'École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL), è centrato su una comunità microbica che vive a centinaia di metri di profondità nelle aree scelte per lo stoccaggio dei rifiuti nucleari in Svizzera. Lungi dal rappresentare un pericolo per il contenimento delle scorie, questa comunità microbica (costituita da sette specie di batteri) fornisce un aiuto inaspettato per aumentare la sicurezza sul lungo periodo di tali depositi grazie alla loro capacità di consumare l'idrogeno che si accumula sulle pareti dei contenitori di acciaio minimizzando così gli eventi corrosivi.
L'idrogeno (di fatto la summa di protoni ed elettroni emessi dagli isotopi in decadimento) se lasciato accumulare potrebbe compromettere l'integrità della roccia circostante favorendo la diffusione del materiale. Sebbene i contenitori siano stati progettati per resistere sul lungo periodo e la zona prescelta sia geologicamente idonea e sismicamente stabile, è anche vero che i tempi di decadimento previsti sono nell'ordine di 200 mila anni. Ripeto, NON si tratta di rischi di esplosione ma dei rischi (sul lunghissimo periodo) di fuoriuscita di materiale ancora non "decaduto".
Se è vero quindi che i rischi geofisici e ingegneristici sono stati computati in fase di progettazione, la variabile biologica era qualcosa difficilmente valutabile a priori.
I batteri (in senso generico, comprendente sia gli eubatteri che gli archeobatteri) sono i veri padroni del mondo. Li possiamo trovare, oltre che in noi e nell'ambiente quotidiano, nei luoghi più estremi; dalle aree prossimali le bollenti sorgenti sottomarine alle profondità del terreno, nei laghi salati o sotto i ghiacciai. Per vivere si sono adattati a sfruttare ogni fonte di energia disponibile, intesa sia come fonte di elettroni che per ricavare i "mattoni" di costruzione (vedi in tal proposito il metabolismo dei batteri chemiolitotrofi). Per le condizioni in cui vivono questi batteri (non a caso chiamati estremofili) sono vere proprie macchine del tempo che ci mostrano le condizioni di vita nella Terra primordiale e sono un campo di studio ideale per gli esobiologi il cui lavoro è ipotizzare quali forme di vita potrebbero esistere, ad esempio, su Enceladus o su Europa (se non sai cosa cercare, è difficile che tu ne trovi le tracce).
Le nicchie ecologiche che si vengono così a formare, mostrano una catena alimentare chiusa ed autosufficiente che possiamo ragionevolmente paragonare a quella "classica": alla base i batteri autotrofi in grado di ricavare energia da molecole inorganiche (ad esempio l'acido solforico) e sopra quelli che si nutrono di loro e dei loro prodotti e che una volta morti fungono da cibo per altri. Niente di diverso dal ciclo sole-piante-erbivori-carnivori-terreno.
Ultima postilla riguarda il fatto che esistono, ma non sono il tema odierno, batteri capaci di vivere perfino all'interno delle canaline di raffreddamento dei reattori nucleari in condizioni di radiazione di fondo elevate; un esempio è il Deinococcus radiodurans. Chiaramente non si tratta di batteri "immuni" all'azione delle radiazioni ma semplicemente dotati di un sistema di riparazione del DNA molto efficace e di un genoma ridondante (copie multiple) in grado di compensare i danni nei suoi geni con copie di riserva.
I batteri scoperti nei bacini di contenimento dei rifiuti radioattivi sono in gran parte delle novità e, come specie, rappresentano l'anello inferiore della catena alimentare batterica, quella in grado di ricavare l'energia da idrogeno e solfato presenti nella roccia circostante divenendo poi loro stessi il cibo per altri batteri non autotrofi.
Questo avviene in condizioni "naturali". Quando nell'area vengono aggiunte le scorie nucleari la situazione cambia in quanto compare qualcosa di "energicamente e chimicamente" nuovo. Sebbene i rifiuti siano sigillati in contenitori di acciaio circondati da uno spesso strato di bentonite autosigillante, e l'area ricca di argilla opalina (il massimo di isolamento dall'ambiente circostante) la corrosione dei contenitori di acciaio è sul lungo periodo inevitabile e questo porta alla fuoriuscita di idrogeno.

Cinque anni fa i ricercatori hanno cominciato ad effettuare il monitoraggio delle aree di stoccaggio, valutando la variazione dei livelli di idrogeno e campionando il terreno adiacente. Hanno così scoperto che la popolazione batterica locale, una volta consumato l'ossigeno e il ferro, si era modificata favorendo in primis due ceppi capaci di usare quella nuova fonte, l'idrogeno, e cascata gli altri. Il che ha avuto un effetto positivo in quanto la proliferazione della comunità batterica ha contribuito a tenere a bada l'accumulo di gas.

In che modo questi risultati potrebbero essere utilizzati per aumentare la sicurezza dei depositi di scorie nucleari? I ricercatori propongono di aggiungere una nuova barriera ai contenitori di natura porosa e compatibile per lo proliferazione di batteri ambientali capaci di nutrirsi del solfato dalla roccia e dell'idrogeno prodotto dai materiali in decadimento.
C'è un problema però. Dall'analisi genomica si evince che in questa comunità batterica sono presenti alcuni ceppi metanogeni, capaci cioè di trasformare l'idrogeno in metano, il che invece di migliorare il profilo di rischio lo peggiorerebbe. Ad oggi non è stata trovata traccia di reale metanogenesi (si tratta pur sempre di un batteri in competizione tra loro) ma il monitoraggio dovrà continuare a lungo prima di pronunciarsi a tal riguardo.

Video riassuntivo
(credit: EPFL)
Se non vedi il video -->https://www.youtube.com/watch?v=RGZsWeIF5is)


Fonte
- Bacteria can make underground nuclear waste repositories safer
EPFL, news
- Reconstructing a hydrogen-driven microbial metabolic network in Opalinus Clay rock
Alexandre Bagnoud et al, (2016) Nature Communications, 7 (12770)


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