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Viaggiare nello spazio vuol dire immobilità prolungata. Lo studio dell'ESA

Ho una profonda invidia per chi dopo anni di sacrifici ottiene l'idoneità a partecipare a missioni spaziali. Meno per i problemi che la permanenza prolungata in un ambiente innaturale per l'uomo induce. 
Molti e vari sono stati gli studi condotti negli ultimi 50 anni sulle conseguenze psicofisiche a breve e a lungo termine dell'assenza di gravità e dello stress da isolamento. Da quelli direttamente condotti sugli astronauti durante e al rientro dalla missione (in condizioni quindi di assenza di gravità, limitazione sensoriale, esposizione a radiazioni, affollamento, etc) agli studi che si sono avvalsi di volontari costretti in condizioni specifiche (in grotte, sott'acqua, etc). Ognuno di questi studi ha mostrato che, ovviamente, missioni prolungate hanno profonde conseguenze, in genere reversibili, sul corpo umano.
Pianificare viaggi lunghi (dove lungo vuol dire anche solo di una decina di mesi) impone, se non si vuole che il viaggio sia di sola andata, di sviluppare contromisure idonee atte a preservare, tra tante, la massa muscolare e la sanità mentale dell'astronauta.

L'ultimo studio in ordine di tempo, coordinato dalla ESA (Agenzia Spaziale Europea), si è concentrato sulla sperimentazione di tecniche motorie da utilizzare "in volo" allo scopo di prevenire  i guasti dell'immobilità forzata. Tra questi il più evidente è la incapacità dell'astronauta a reggersi in piedi autonomamente per diversi giorni dopo il rientro dalla missione. 
Credit: ESA
La ricerca, condotta nei laboratori di Tolosa, ha usato come "cavie" dei giovani volontari in ottima forma fisica che si sono sottoposti a tre sessioni di 21 giorni ciascuno di permanenza a letto. Un periodo già molto lungo per un malato (che però ha poca scelta non essendo in grado di fare altro) figuriamoci per dei giovani carichi di energia.
Ogni giorno per 21 giorni! (Credit: ESA)
La monotonia, la dieta controllata, l'impossibilità di respirare aria fresca e la stessa immobilità sono tutti elementi stressogeni importanti. Facile immaginare i problemi incontrati dai volontari durante e dopo ciascuna sessione, quando rimettere i piedi sul pavimento era difficile quanto reimparare a camminare. "I primi giorni di ogni sessione erano i peggiori", ha affermato uno dei volontari. " Il corpo ha bisogno di adattarsi e in tutto il tempo ho sofferto di emicranie e mal di schiena".

Lo studio BEDREST (questo il nome) non è stato solo "osservazionale" ma prevedeva un certo numero di attività diverse, compatibili tuttavia con l'immobilità a letto, finalizzate a testare la miglior contromisura a questo stato. Tra le condizioni testate, una dieta iperproteica, piastre vibranti sulla schiena e sugli arti e sedute di squat mediante appositi supporti (vedi foto).
Alcuni degli esercizi (credit:ESA)
Sebbene il test abbia messo a dura prova i giovani, non è stato psicologicamente estremo come quello un lungo viaggio in uno spazio ridotto avrebbe comportato. Ricordiamoci che non stiamo parlando degli spazi immaginati per l'astronave Enterprise ma di un qualcosa piu' simile ad un sommergibile. Dalle foto disponibili sul sito della ESA una delle cose che mi ha colpito è la presenza di finestre nelle camere in cui i volontari erano alloggiati. Sebbene comprensibile dati i fini dello studio (stress da immobilità e non da limitazione sensoriale), bisogna ricordarsi che tale benefit manca all'astronauta in viaggio verso Marte. Fuori solo lo spazio infinito ravvivato dalle stelle, sicuramente affascinante i primi giorni ma poi ... incredibilmente "vuoto".

Quindi sebbene i limiti intrinseci, sarà interessante poter leggere, quando verranno diffusi, le conclusioni della sperimentazione.

(Articoli successivi sul tema viaggi spaziali: Luca Parmitano; i rischi per la salute dei viaggi spaziali)

Fonte 
- ESA/Bedrest study
 http://www.esa.int

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