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Si parlava sopra di gusti percepiti. Sono sicuro che chiedendo all'uomo della strada di elencarli si alzerebbe un coro. stupito da tale domanda e declamante "dolce, salato, acido e amaro".
Quattro "sensazioni" abbondantemente studiate sia a livello fisiologico che di popolazione. Non uso il termine "sensazioni" a caso. La percezione, in particolare, del sapore amaro mostra una certa variabilità non solo all'interno di una data popolazione ma anche nel confronto fra popolazioni diverse. Anche solo campionando la popolazione caucasica e testandola con sostanze tester per il sapore amaro come il feniltiocarbamide (PTC) o il 6-n-propiltiouracile (PROP), si evidenzierà la presenta di 30% di non-tasters, 50% di tasters e 20% di super-tasters, categorie che come è facile immaginare si riferiscono alla sensibilità per il gusto amaro.
Non solo. Prendendo e comparando fra loro popolazioni diverse emergono ulteriori differenze nelle percentuali: gli aborigeni australiani guidano la classifica con circa il 50% di non-tasters mentre i nativi del centro-America la chiudono con poco meno del 10%. Se questa diversa composizione sia stata favorita (selezione positiva) da particolari condizioni ambientali, e quindi alimentari, o se sia un risultato casuale conseguente a fenomeni di deriva genetica, e' oggetto di speculazione.
Tuttavia pur in presenze di questa variabilità, le quattro sensazioni gustative non paiono in grado di racchiudere il panorama gustativo reale e soprattutto la capacità anche inconscia nelle "preferenze" alimentari. Doveva mancare qualche cosa.
Un primo contributo viene dal consensus oramai diffuso che considera l'umami, termine giapponese traducibile come "saporito", il quinto gusto la cui base molecolare risiederebbe nella percezione del glutammato monosodico, di cui - detto per inciso - il Parmigiano è ricco. Studi relativamente recenti ne hanno individuato i recettori prima ed i polimorfismi ad essi associati, responsabili della ereditarietà nella percezione del gusto umami, poi. Di interesse ricordare come questo gusto venne identificato già all'inizio del secolo da un ricercatore giapponese, Kikunae Ikeda, mentre cercava di definire le basi del forte sapore proprio del brodo di alghe.
Un secondo tassello venne dall'equipe di Russell Keast, professore a Melbourne, che indica il "grasso" come potenziale nuovo (sesto?) gusto.
Le preferenze invece generiche per un particolare cibo sembrano invece più "contestuali". Genitori e figli che pure condividono il 50% del patrimonio genetico mostrano concordanza nei gusti simile a quella fra i novelli sposi, in genere geneticamente distanti. Questo dato indicherebbe quindi un minor contributo della genetica genetico rispetto alle variabili anagrafiche, culturale e sociali.
E' anche vero che essendo la genetica dei fattori complessi caratterizzata da molteplici contribuiti minimi, l'isolamento dei fattori di disturbo e' di particolare importanza. Allo scopo di identificare le cause genetiche nascoste dalle numerose variabili in gioco, Breen e collaboratori hanno pubblicato nel 2006 uno studio imponente condotto su 428 giovani gemelli omozigoti (quindi con esperienza limitata di vita divergente e stesso patrimonio genetico) che testati su un ampio numero di alimenti hanno mostrato 4 categorie di preferenze: bassa ereditabilità di preferenze per cibi dolci (0,20) e verdura (0,37), moderata ereditabilità per preferenze nella frutta (0,51) ed alta ereditabilità per cibi proteici (0,78).
Questi dati, da confermare, indicano in ogni caso come la genetica non spieghi completamente le preferenze culinarie.
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Non solo. Prendendo e comparando fra loro popolazioni diverse emergono ulteriori differenze nelle percentuali: gli aborigeni australiani guidano la classifica con circa il 50% di non-tasters mentre i nativi del centro-America la chiudono con poco meno del 10%. Se questa diversa composizione sia stata favorita (selezione positiva) da particolari condizioni ambientali, e quindi alimentari, o se sia un risultato casuale conseguente a fenomeni di deriva genetica, e' oggetto di speculazione.
Tuttavia pur in presenze di questa variabilità, le quattro sensazioni gustative non paiono in grado di racchiudere il panorama gustativo reale e soprattutto la capacità anche inconscia nelle "preferenze" alimentari. Doveva mancare qualche cosa.
Un primo contributo viene dal consensus oramai diffuso che considera l'umami, termine giapponese traducibile come "saporito", il quinto gusto la cui base molecolare risiederebbe nella percezione del glutammato monosodico, di cui - detto per inciso - il Parmigiano è ricco. Studi relativamente recenti ne hanno individuato i recettori prima ed i polimorfismi ad essi associati, responsabili della ereditarietà nella percezione del gusto umami, poi. Di interesse ricordare come questo gusto venne identificato già all'inizio del secolo da un ricercatore giapponese, Kikunae Ikeda, mentre cercava di definire le basi del forte sapore proprio del brodo di alghe.
Un secondo tassello venne dall'equipe di Russell Keast, professore a Melbourne, che indica il "grasso" come potenziale nuovo (sesto?) gusto.
Alcuni dettagli tecnici sulla percezione del gusto umami. La distribuzione dei recettori è in realtà più uniformemente distribuita rispetto a quanto mostrato nella precedente figura (valido invece per gli altri tipi di gusto). Tra i recettori coinvolti vi sono varianti troncate dei recettori mGluR4 e mGluR1, oltre all'eterodimero T1R1/T1R3. I recettori mGluR1 e mGluR4 sono specifici per il glutammato mentre T1R1 + T1R3 sono responsabili della sinergia percettiva che si ottiene quando il glutammato è in presenza di ribonucleotidi. La loro attivazione provoca il rilascio di calcio dai depositi intracellulari, il che provoca a cascata l'attivazione del canale di membrana TrpM5 e la successiva depolarizzazione della membrana con rilascio di neurotrasmettitori tra cui spicca la serotonina. Le cellule che rispondono agli stimoli propri del gusto umami non possiedono le classiche sinapsi ma è l'ATP a dare il via al segnale lungo i nervi del gusto. Il cervello poi interpreterà, identificando, la tipologia di gusto "percepita".La genetica delle preferenze nel cibo e' stata oggetto di numerosi studi, molti dei quali privi però di potenza statistica adeguata per essere generalizzabili. I dati certi sono quelli riferiti ad i polimorfismi dei recettori per l'amaro e per l'umami, di cui abbiamo accennato sopra.
Le preferenze invece generiche per un particolare cibo sembrano invece più "contestuali". Genitori e figli che pure condividono il 50% del patrimonio genetico mostrano concordanza nei gusti simile a quella fra i novelli sposi, in genere geneticamente distanti. Questo dato indicherebbe quindi un minor contributo della genetica genetico rispetto alle variabili anagrafiche, culturale e sociali.
E' anche vero che essendo la genetica dei fattori complessi caratterizzata da molteplici contribuiti minimi, l'isolamento dei fattori di disturbo e' di particolare importanza. Allo scopo di identificare le cause genetiche nascoste dalle numerose variabili in gioco, Breen e collaboratori hanno pubblicato nel 2006 uno studio imponente condotto su 428 giovani gemelli omozigoti (quindi con esperienza limitata di vita divergente e stesso patrimonio genetico) che testati su un ampio numero di alimenti hanno mostrato 4 categorie di preferenze: bassa ereditabilità di preferenze per cibi dolci (0,20) e verdura (0,37), moderata ereditabilità per preferenze nella frutta (0,51) ed alta ereditabilità per cibi proteici (0,78).
Questi dati, da confermare, indicano in ogni caso come la genetica non spieghi completamente le preferenze culinarie.
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