(...continua da /1)
La prospettiva che vorrei qui considerare e' viziata dall'essere io un genetista molecolare, più attento alla causa prima che agli eventi a valle.
L'evoluzione del resto ha svolto il ruolo del nutrizionista selezionando comportamenti alimentari più' efficaci per una nostra migliore "funzionalità". Quali sono gli aspetti predominanti nella scelta istintiva di un particolare alimento? Sono dominanti gli aspetti culturali o sono un semplice corollario di condizionamenti innati ? Quanta parte ha la genetica nelle preferenze alimentari e quanta ne ha nella ricerca di alimenti base?
In altri termini, come possiamo spiegare una frase apparentemente contraddittoria evolutivamente come "mi piace anche se so che non e' salutare" ?
Durante i miei innumerevoli giri intorno al mondo mi sono confrontato con cibi di dubbia appetibilità per l'italiano medio. Come non ricordare il gustoso e croccante mix di insetti abbrustoliti nel Laos, le tarantole fritte in Cambogia, il serpente in salmì vietnamita, il panino con le frattaglie al mercato di Palermo, il potenzialmente mortale - se non pulito con cura - pesce palla (Fugu) della cucina giapponese, l'escargot francese, per arrivare infine, sempre che non siate già fuggiti disgustati, al coniglio il cui aroma affiora, delizioso, con i ricordi della mia infanzia nella campagna bresciana ma che, scoprii in seguito, e' in grado di generare autentico disgusto in un australiano? Si certo avete letto bene. I nostri amici "aussie" considerano il coniglio infatti ne più ne meno di un topo. Potete quindi figurarvi la mimica facciale nel vedersi offrire un succulento arrosto di … "pantegana". Eppure di fronte a tante amenità culinarie sperimentate, solo un banale gelato preso in un aeroporto europeo prima di imbarcarmi alla volta dell'Uzbekistan fu in grado di stendermi. Il calvario successivo nel comunicare con farmacisti locali, le cui conoscenze linguistiche si fermavano al russo, e l'interpretazione del bugiardino del farmaco scritto in cirillico, ve li risparmio.
Ma torniamo a noi. Sebbene alcuni dei cibi qui sopra riportati necessitino di essere preparati accuratamente perché potenzialmente nocivi o solo perché da noi aborriti, il loro potenziale "fare male" e' un aspetto del tutto secondario rispetto alla loro caratterizzazione culturale e, quindi, geografico-ambientale. Quindi, se vogliamo, sono aspetti alieni, dal nostro interesse primario.
Un recente report pubblicato su EMBO da Jane Wardle e Lucy J. Cooke ha il pregio di condensare e di analizzare in modo esaustivo lo stato dell'arte delle conoscenze del campo. Ne attingerò a piene mani nel cercare di trasmettere quelli che sono a mio giudizio (di cultore e curioso della scienza) gli elementi più interessanti attinenti la domanda iniziale.
Cominceremo con lo scindere il "piacere" dal "non fare male". In seconda istanza il "non fare male" potrà essere scisso in "a breve termine" e "a lungo termine".
continua
In altri termini, come possiamo spiegare una frase apparentemente contraddittoria evolutivamente come "mi piace anche se so che non e' salutare" ?
Durante i miei innumerevoli giri intorno al mondo mi sono confrontato con cibi di dubbia appetibilità per l'italiano medio. Come non ricordare il gustoso e croccante mix di insetti abbrustoliti nel Laos, le tarantole fritte in Cambogia, il serpente in salmì vietnamita, il panino con le frattaglie al mercato di Palermo, il potenzialmente mortale - se non pulito con cura - pesce palla (Fugu) della cucina giapponese, l'escargot francese, per arrivare infine, sempre che non siate già fuggiti disgustati, al coniglio il cui aroma affiora, delizioso, con i ricordi della mia infanzia nella campagna bresciana ma che, scoprii in seguito, e' in grado di generare autentico disgusto in un australiano? Si certo avete letto bene. I nostri amici "aussie" considerano il coniglio infatti ne più ne meno di un topo. Potete quindi figurarvi la mimica facciale nel vedersi offrire un succulento arrosto di … "pantegana". Eppure di fronte a tante amenità culinarie sperimentate, solo un banale gelato preso in un aeroporto europeo prima di imbarcarmi alla volta dell'Uzbekistan fu in grado di stendermi. Il calvario successivo nel comunicare con farmacisti locali, le cui conoscenze linguistiche si fermavano al russo, e l'interpretazione del bugiardino del farmaco scritto in cirillico, ve li risparmio.
Ma torniamo a noi. Sebbene alcuni dei cibi qui sopra riportati necessitino di essere preparati accuratamente perché potenzialmente nocivi o solo perché da noi aborriti, il loro potenziale "fare male" e' un aspetto del tutto secondario rispetto alla loro caratterizzazione culturale e, quindi, geografico-ambientale. Quindi, se vogliamo, sono aspetti alieni, dal nostro interesse primario.
Un recente report pubblicato su EMBO da Jane Wardle e Lucy J. Cooke ha il pregio di condensare e di analizzare in modo esaustivo lo stato dell'arte delle conoscenze del campo. Ne attingerò a piene mani nel cercare di trasmettere quelli che sono a mio giudizio (di cultore e curioso della scienza) gli elementi più interessanti attinenti la domanda iniziale.
Cominceremo con lo scindere il "piacere" dal "non fare male". In seconda istanza il "non fare male" potrà essere scisso in "a breve termine" e "a lungo termine".
continua
Nessun commento:
Posta un commento