La diffusione dell'Homo sapiens ha causato, direttamente o indirettamente, la scomparsa di un numero difficilmente quantificabile di specie animali e vegetali. I motivi sono vari e in molti casi "ineluttabili" in quanto conseguenza della conquista di spazi ecologici via via più ampi, l'entrata in competizione con i predatori preesistenti e la riduzione delle "prede", modificando così gli equilibri naturali. A volte la pressione selettiva sulle specie preesistenti (animali e vegetali) è venuta dalla nostra azione di selezione e "domesticazione" che ha portato alla scomparsa dell'originale in favore di quella "più utile" ai bisogni dell'uomo.
Alcuni la definiscono la sesta estinzione di massa |
La modifica dell'ambiente circostante non è però un fenomeno nuovo univocamente attribuibile all'essere umano in quanto ogni essere vivente modifica l'ambiente circostante. Gli ecosistemi non sono entità statiche ma vivono in un equilibrio dinamico in cui ad ogni "variazione" (ad esempio l'ingresso di una nuova specie o il suo improvviso aumento di numero) induce modificazioni anche violente negli equilibri che possono portare alla scomparsa di intere nicchie ecologiche. L'essere umano ha avuto un impatto maggiore per una serie di ragioni tra cui l'essere all'apice della catena alimentare, la sua capacità tecnologica e il suo essersi "emancipato" dalla selezione naturale con conseguente aumento della popolazione. Il risultato è stato una continua e pervasiva antropizzazione dell'ambiente.
Nonostante la forza dell'impatto alcune specie si sono adattate molto bene al nuovo ambiente che anzi viene preferito a quello originario (ad esempio i gabbiani a Milano o le volpi in molte cittadine inglesi per non parlare dei dei roditori); altre specie si sono invece arrese e sono scomparse (o sono destinate a farlo nell'immediato futuro) sia perché attivamente cacciate o perché erano talmente adattate al loro ambiente da non reggere al suo ridimensionamento (vedi il caso del panda legato a doppio filo alla presenza delle piante di bambù che si somma al suo essere un erbivoro strutturalmente poco funzionale).
Se all'azione umana aggiungiamo i cambiamenti climatici naturali (tipo quelli avvenuti dopo l'ultima glaciazione) e i "problemi genetici" (una popolazione troppo piccola, o troppo specializzata, per adattarsi ai cambiamenti rapidi) allora si capisce perché specie prima endemiche in Europa come il mammut e il leone siano scomparse e perché il diavolo della Tasmania sia diventato a rischio di estinzione a causa di un tumore contagioso. Se ci allontaniamo da un'area "pesantemente" antropizzata da millenni come l'Europa, troviamo casi più recenti di estinzioni come il dodo, il ratto canguro, le tigri di Giava e del Caspio, l'uro, il rinoceronte lanoso, il piccione migratore e il Quagga, solo per limitarci ai casi più noti.
Il quagga, una zebra "a metà" data la presenza delle strisce solo nella parte anteriore, mi fornisce l'aggancio "visivo" per parlare di un altro animale "a strisce" scomparso solo da pochi decenni, cioè la tigre della Tasmania (nome legato solo alle striature, qui posteriori, visto che non solo somigliava più ad un canide che a un felino, ma non era nemmeno un mammifero).
Il tilacino (Thylacinus cynocephalus), questo il nome corretto della tigre della Tasmania, era un marsupiale il cui ultimo esemplare è morto il 7 settembre 1936 in uno zoo in Australia.
Video di uno degli ultimi esemplari di tilacina
(se non vedi il video -->youtube)
L'inizio del suo declino coincise con l'arrivo delle prima popolazioni umane qualche decina di migliaia di anni fa e l'inevitabile contatto/scontro tra due predatori apicali. Un equilibrio precario messo poi a dura prova con l'arrivo sul continente del cane australiano, il dingo (Canis lupus dingo), e infine un centinaio di anni fa dai coloni europei dediti alla pastorizia che videro nel tilacino una minaccia (reale) per le loro greggi. Il risultato fu l'istituzione di una taglia di 1 £ per carcassa che portò la specie sul loro dell'estinzione tanto che la taglia venne proibita nel 1909 e i pochi esemplari scampati vennero pagati profumatamente dagli zoo per metterli al riparo. Il loro numero troppo esiguo (e l'inadeguatezza delle tecniche di ripopolamento dell'epoca) resero senza speranza il tentativo di salvarli e infatti meno di tre decenni dopo l'ultimo individuo rimasto si spense.
credit: Baker / Keller / Smithsonian |
Negli ultimi anni i genetisti hanno cominciato a studiare il tilacino per ottenere informazioni sia sulla loro parentela con altri marsupiali che per cercare di capire se la popolazione residua era "geneticamente idonea" (cioè ricca) per poter esser salvata.
Un primo studio pubblicato qualche anno fa sulla rivista Genome Research si basò sull'analisi del DNA mitocondriale (la centralina energetica delle nostre cellule che come ho spiegato in un precedente articolo deriva dalla simbiosi di un batterio con una proto-cellula eucariotica). Il DNA, estratto da alcuni peli di 4 esemplari non imparentati conservati allo Smithsonian Institution di Washington, evidenziò un elevato grado di somiglianza genetica tra i diversi animali, ad indicare una povertà genetica nella popolazione anni prima dell'effettiva estinzione. In altre parole la costante riduzione della popolazione iniziata migliaia di anni fa aveva reso gli animali a rischio estinzione (in quanto geneticamente troppo "poveri") prima del colpo finale, e decisivo, inferto dagli allevatori. Il punto debole dell'analisi era l'essere basata sul DNA mitocondriale le cui dimensioni ridotte al minimo comportano una bassa capacità di "sopportazione" delle mutazioni (e a cascata una minore variabilità genetica che si ripercuote in una minore quantità di informazioni ricavabili dagli studiosi).
A colmare la lacuna arriva ora uno studio dell'università di Melbourne, pubblicato su Nature Ecology and Evolution, che riporta la sequenza completa del genoma del tilacino, partendo dal DNA estratto da un cucciolo di 1 mese trovato nel marsupio della madre conservata in alcol dal 1909 (più che un cucciolo si tratta di un feto visto che il parto nei marsupiali avviene in una fase molto precoce dello sviluppo che verrà poi completato nella "tasca" ventrale della madre).
Le informazioni ricavabili dallo studio del DNA anche di un singolo individuo sono molte e hanno permesso di tracciare l'inizio del declino della specie in un periodo compreso tra 70 e 120 mila anni fa, molto prima che gli umani raggiungessero l'Australia. Un fenomeno osservato anche nel diavolo della Tasmania che tuttavia ha avuto maggior fortuna sia per il suo abitare luoghi "remoti" che per non essere entrato in conflitto con la specie umana.
Tra i dati ricercati quelli sulla curiosa convergenza evolutiva nella forma del cranio e del corpo tra i tilacini e i canidi, alla base della somiglianza esterna che fece pensare ai primi europei che fossero cani selvatici con un mantello tigrato. Sebbene tilacini e canidi non appartengano a famiglie evolutivamente vicine (l'antenato comune risale a 160 milioni di anni fa), hanno vissuto nello stesso ambiente per migliaia di anni il che ha favorito un adattamento parallelo visti i simili bisogni per la loro vita da predatori.
L'innegabile somiglianza tra una tilacina (sopra) e un dingo (credit: CY. Feigin et al / Nature) |
Entrando un poco nel tecnico i ricercatori non hanno trovato omologie particolari nei circa 80 geni noti per determinare la forma del cranio e di altre caratteristiche esterne; l'ipotesi formulata e che dovrà ora essere confermata è che la convergenza evolutiva nell'aspetto sia avvenuta a livello delle sequenze regolatrici presenti nel DNA non codificante.
Fonte
- Genome of the Tasmanian tiger provides insights into the evolution and demography of an extinct marsupial carnivore
Charles Y. Feigin et al, Nature Ecology & Evolution volume 2, pages182–192 (2018)
- The mitochondrial genome sequence of the Tasmanian tiger (Thylacinus cynocephalus)
Webb Miller et al, Genome Res. (2009)19: 213-220
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