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Un raggio di luce sulla Sindrome di Angelman

E' da alcuni anni evidente il ruolo centrale delle modificazioni epigenetiche ("sopra la genetica", modificazioni che non riguardano la sequenza nucleotidica quanto alterazioni, reversibili, della cromatina) nei meccanismi regolatori della cellula. Giusto per rendere l'idea, ognuno dei diversi tipi di cellule presenti nel nostro corpo ha un identico patrimonio genetico; eppure ciascuno di questi tipi cellulari ha una forma, funzione e potenzialità diverse. E' proprio la somma delle modificazioni epigenetiche accumulatesi ad ogni successiva divisione cellulare a partire dalla cellula uovo fecondata a fare si che una cellula diventi un neurone piuttosto che un adipocita.
Ad aumentare la complessità della regolazione vi è il fatto che perché si abbia uno sviluppo corretto è fondamentale che alcuni dei geni espressi siano (in specifici momenti dello sviluppo) esclusivamente quelli di origine materna o paterna. La perdita (o alterazione di questa "marcatura", nota come imprinting, può avere conseguenze importanti nello sviluppo embrionale prima e dell'adulto poi).

Che questi meccanismi regolatori siano importanti è provato dal fatto che diverse malattie congenite e/o acquisite (cancro, etc) sono, in alcuni casi, il risultato da una alterata (quantitativa o cellulo-specifica) o assente espressione dei geni parentali. Riuscire a ripristinare l'equilibrio trascrizionale, resettando l'apparato regolatore, è una frontiera di estremo interesse della ricerca bio-medica .

Come studiare sistemi regolativi così complicati?
Studi di tale complessità necessitano del contributo di più approcci: animale, cellulare e molecolare. Nessuno di questi è a priori migliore e/o in grado di sostituire l'altro, come invece vorrebbero alcuni pasdaran animalisti il cui ardore, troppo spesso fuori fuoco, è dogmatico più che logico.
La Scienza (e la S maiuscola non è un refuso) insegna che ogni metodo deve essere validato e che, dove non esista un metodo univoco, si debba ricorrere ad approcci complementari. Così se è vero che l'innovazione tecnologica ci sta portando verso modelli cellulari derivati direttamente da pazienti le cui cellule espiantate sono state riprogrammate per creare lo stesso tipo di cellula malata (un approccio reso possibile solo grazie agli studi sugli animali) è altrettanto evidente che per testare l'efficacia di un trattamento già validato in colture cellulari, e prima di arrischiarsi a fare un test analogo su un essere umano sarà necessario sfruttare un modello animale (se disponibile) in quanto intrinsecamente più complesso delle sole cellule e già in grado di evidenziarne tossicità se non di misurarne l'efficacia.

Data questa premessa, necessaria, volevo qui presentare un caso di estremo interesse in quanto complesso ed umanamente toccante.
I pazienti affetti da sindrome di Angelman pur avendo una aspettativa di vita sostanzialmente normale non sono, nella stragrande maggioranza dei casi, in grado di parlare, hanno serie disfuzioni intellettive e presentano problemi sia di movimento che di equilibrio. 
Sono individui fortemente "emozionabili" il cui tratto caratteriale più evidente è una risata frequente.
La frequenza dei bambini nati con questa sindrome è di 1 ogni 15 mila bambini nati vivi. Si tratta di una malattia genetica dovuta ad un difetto nel gene UBE3A, gene che codifica per una proteina importante nella ubiquitinazione, un processo cellulare fondamentale nella rimozione di proteine alterate o non più necessarie. Spesso tale alterazione è una delezione di una regione posta sul braccio lungo del cromosoma 15 (in cui si trova il gene), sebbene singole mutazioni nel gene siano in grado di indurre da sole la malattia.
Negli individui sani "quasi tutte" le cellule hanno entrambi gli alleli parentali di UBE3A attivi. "Quasi" in quanto il gene paterno è spento nei neuroni mediante la produzione di un trascritto antisenso che neutralizza il messaggero del gene.
Nella sindrome di Angelman tuttavia anche il gene materno è spento (in questo caso a causa di una mutazione). Risultato i neuroni non sono in grado di produrre la proteina UBE3A e le proteine che dovevano essere distrutte si accumulano. Le alterazioni rilevate dall'analisi autoptica fanno ipotizzare
che l'alterazione cardine sia di tipo sinaptico, con conseguente anomala trasmissione inter-neuronale. Alcuni studi sui topi hanno dimostrato che la mancanza della proteina UBE3A impedisce ai circuiti cerebrali di rafforzarsi in risposta agli input sensoriali (ed esperenziali) esterni; una condizione alla base del processo di apprendimento e di adeguamento al mutevole ambiente in cui si vive. Persa questa capacità, l'individuo (così come l'animale) manca di un elemento chiave per "crescere" (vedi anche qui per i punti in contatto con l'autismo).

In un recente articolo pubblicato su Nature (dicembre 2011), il team di Benjamin Philpot che lavora presso l'università del Nord Carolina, ha descritto la produzione di un farmaco che, in topo, ha mostrato risultati estremamente interessanti.
In breve, sono state utilizzate cellule neuronali di un topo modificato geneticamente in modo tale che la proteina Ube3a di origine paterna fosse fluorescente. Come detto prima le cellule neuronali sane non esprimono il gene paterno, quindi la fuorescenza in tali cellule è basale. Questi neuroni, espiantati e coltivati in vitro, sono state testati con una batteria di 2306 molecole già commercialmente disponibili per verificare se una di queste fosse in grado di riattivare la copia paterna (essendo la copia materna danneggiata solo quella paterna può essere "de-repressa"). Una di queste molecole, l'Irinotecan (antitumorale prodotto della Pfizer, inibitore della topoisomerasi-1) era in grado di svegliare il gene dormiente. Il test sui topi ha confermato, in vivo, la riattivazione genica. Una riattivazione stabile per almeno 12 settimane dopo il trattamento

In un articolo successivo pubblicato nel 2012 su PLoS ONE lo stesso team ha aggiornato i risultati evidenziando come in seguito alla riattivazione genica, si siano ottenuti miglioramenti significativi sia nella capacità di apprendimento che in quelle mnemoniche dei topi adulti.
E' necessario sottolineare come questi dati siano ancora preliminari e che altri studi saranno necessari prima di potere iniziare un trial clinico. 
Fra le domande a cui rispondere, le più ovvie sono:
  • quale è il meccanismo mediante il quale l'irinotecan agisce per riattivare UBE3A?
  • ci sono altri geni, e quali, che si riattivano in seguito a questo trattamento? Che tessuti coinvolgono e quali sono gli effetti collaterali attesi?
  • quale è l'intervallo di tempo in cui tale somministrazione risulta efficace?
  • in un articolo pubblicato da IF King e collaboratori (Nature 2013) viene evidenziato come il trattamento con l'inibitore della topoisomerasi abbia avuto, come atteso del resto, un effetto su non pochi geni. Identificare il contributo di ciascuno di questi aggiunge complessità allo studio.


Nonostante tutti questi interrogativi ancora aperti la migliore frase è quella di Huda Zoghbi un neurobiologo e genetista del Baylor College a Houston (Texas): è fantastico essere riusciti a riattivare questo gene senza che sia stato necessario alcun intervento di terapia genica.

(aggiornamenti sul lavoro in atto ---> Nature aprile 2014)


Link utili
- (in inglese) Angelman Foundation e informazioni cliniche sul sito della Mayo Clinic, Harvard University.
- (in italiano) Telethon, OR.SA, Ospedale Niguarda Milano,

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