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Un analisi del sangue ci dirà se ci ammaleremo di Alzheimer?

Da un semplice esame del sangue la possibilità di scoprire se una persona sana svilupperà i sintomi del morbo di Alzheimer nei successivi due o tre anni.
Queste le prospettive concrete una volta che i dati, appena pubblicati sulla rivista Nature Medicine, verranno riprodotti su un campione molto più ampio di soggetti. Un risultato che potrebbe imprimere una svolta decisiva nella lotta, finora infruttuosa, alla malattia.
Meglio sottolineare da subito che i dati pubblicati hanno valore puramente diagnostico e non sono una cura.
Fatta questa precisazione, sorge spontanea la domanda: vorremmo sapere se ci ammaleremo nel prossimo triennio sapendo che non esiste alcuna cura? Una domanda senza dubbio importante, e senza risposta in quanto totalmente personale. Alcuni potrebbero decidere di organizzarsi per tempo altri magari cadrebbero nello sconforto rovinandosi così ulteriormente la vita.
Per capire l'importanza della notizia bisogna allora cambiare prospettiva e guardare ad essa non sul breve termine e da un punto di vista "personale" ma per i vantaggi che potrà fornire in ambito scientifico (e quindi alla comunità tutta) nel medio periodo.
In altre parole, l'articolo ha meritato la pubblicazione su una rivista prestigiosa non perché descrive una cura ma perché di fatto fornisce uno strumento finora assente, cioè i paramatri metabolici da monitorare durante lo sviluppo dei farmaci sperimentali.
Il morbo di Alzheimer colpisce 35 milioni di persone in tutto il mondo, un numero destinato ad aumentare con l'aumentare dell'età media della popolazione mondiale. L'OMS prevede che questo numero raddoppierà ogni 20 anni , salendo a 115 milioni entro il 2050.
Una vera e propria tragedia sociale dato che alla sventura di assistere impotenti al declino inesorabile della personalità e dell'autonomia della persona amata si associano i costi a carico della famiglia e della società.
Combattere l'Alzheimer è una sfida improba dato che quando i sintomi si manifestano il danno cerebrale ha già superato il livello di guardia. Recuperare la funzionalità partendo dalle, mi si perdoni il termine, macerie cerebrali è quasi senza speranza ed infatti i trattamenti attuali sono volti a rallentare la progressione della malattia, non a revertirla.
Per essere risolutiva la terapia dovrebbe intercettare i primi segni sub-clinici, bloccando la degenerazione prima che i danni diventino irreparabili. Ma per sviluppare farmaci del genere è necessario disporre di marcatori che finora erano o inaffidabili o validi per un numero limitato di pazienti. Come capire altrimenti se un farmaco sta funzionando in assenza di evidenze cliniche?

Lo studio
I dati pubblicati dal gruppo di Howard Federoff della Georgetown University sono il risultato di uno studio osservazionale che ha coinvolto 525 persone di età superiore ai 70 anni e che ha portato alla identificazione di dieci metaboliti lipidici nel plasma sanguigno; marcatori questi in grado di predire con il 90 % di precisione chi tra essi avrebbe mostrato segni di deterioramento cognitivo (sia moderato che Alzheimer conclamato) nel successivo triennio
Ricordo per inciso che uno studio osservazionale non prevede alcun tipo di intervento sperimentale. Nel dettaglio i soggetti reclutati sono stati monitorati nei cinque anni dello studio per eventuali variazioni delle capacità cognitive e della memoria, incrociando poi i dati con quelli ricavati dai prelievi di sangue annuali. Tecniche come la spettrometria di massa hanno avuto un ruolo centrale per identificare variazioni dei marcatori ematici. I dieci biomarcatori identificati, tutti fosfolipidi probabilmente originati dalle membrane cellulari, erano presenti a livelli più bassi nei soggetti andati incontro ad un peggioramento cognitivo.
L'incredibile potere identificativo del test (90%) ha un punto debole consistente nel basso numero di persone ammalatesi, ventotto. Chiariamoci, non voglio dire che sarebbe stato meglio che più persone si fossero ammalate, ma che il numero (28 su 525) ha una intrinseca debolezza statistica. Una debolezza superabile solo coinvolgendo diverse migliaia di persone, un numero in grado di fare emergere più facilmente i malati mettendosi al riparo dalle deviazioni (e limitazioni) legate al campionamento, come ad esempio l'area geografica, l'etnia, il background genetico, etc.
Inoltre, il tasso di precisione del 90 % ha per definizione un margine del 10 % di errore. Errore che non riguarda i "falsi negativi" (non emersi nello studio) ma i falsi positivi. In termini semplici i risultati del test non evidenziano malati risultati negativi al test (falsi negativi) ma al contrario l'essere risultati positivi al test non implica ammalarsi dato che il 10% dei soggetti positivi non ha mostrano segnali clinici (almeno per il triennio preso in esame).

Il vantaggio del test è che è minimamente invasivo (solo un prelievo di sangue) e poco costoso. Una vera manna se l'idea è quella di estendere il test su tutta la popolazione a rischio. Di sicuro, meglio rispetto ai test basati sul prelievo del liquido cerebrospinale o tecniche di scansione, non invasive ma chiaramente più costose (TAC, PET, etc).
Il confronto, visto attraverso la PET, tra il cervello di un soggetto sano,
uno con medio deficit cognitivo e uno con morbo di Alzheimer
(Credit: Cindee Madison e Susan Landau, UC Berkeley)

Da quanto detto, risulta chiaro l'importanza dello studio americano. Finalmente sarà possibile valutare l'efficacia di terapie sperimentali sui soggetti a rischio (ad esempio i casi con manifesta familiarità della malattia) osservando la variazione dei parametri sub-clinici, diminuendo così drasticamente i tempi della sperimentazione.

(articolo precedente sul tema Alzheimer, qui)

Fonti
- Plasma phospholipids identify antecedent memory impairment in older adults
 M. Mapstone et al, Nat Med. 2014 Mar 9

- Biomarkers could predict Alzheimer's before it starts
 Nature, news

- Blood test can predict Alzheimer's, say researchers
 bbc.com/news (9 marzo 2014)

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