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La mutazione che ci fece perdere la coda

Chi ha passato la giovinezza a fare ricerca come cacciatore di geni prima che il Progetto Genoma fosse concluso, fornendo un “indirizzario” preciso dei geni presenti in specifiche aree cromosomiche, si sarà scontrato innumerevoli volte con sequenze ripetute della classe Alu che sembravano onnipresenti tra i dati ottenuti. Sequenze da sempre definite come conseguenza dell’abbondanza del cosiddetto DNA spazzatura (alias una parte del DNA non codificante che è la maggioranza del genoma).
La sequenza Alu
Le sequenze ripetute costituiscono la quasi totalità di aree come i centromeri e i telomeri ma possono trovarsi anche negli introni genici o negli spazi intergenici.
Alcune di queste sequenze hanno la particolarità di essere dei discendenti di antichi retrovirus non più funzionali, risultato di un evento di integrazione malriuscito e privi di ogni informazione per la sintesi di involucri virali. Molti di questi hanno però mantenuto la capacità di “riprodurre” la propria sequenza in autonomia (grazie alla capacità di codificare la trascrittasi inversa - assente nelle cellule eucariote) ricreando sequenze di DNA dai trascritti generati dalla RNA pol della cellula; sequenze che poi saltano in altri siti cromosomici.
Un tempo, come detto, si sarebbe catalogate queste sequenze come DNA spazzatura. Oggi si sa che queste hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione (anche umana) facilitando la comparsa di mutazioni/alterazioni DNA, alcune delle quali sono state selezionate positivamente. Non si tratta invero di soli fenomeni multigenerazionali, ma pare essere un evento frequente durante la maturazione neuronale nell’embrione.

Potremmo quindi considerare la comparsa ed evoluzione di (alcune) sequenze ripetute come una endosimbiosi estrema in cui un retrovirus ancestrale** ha dismesso la capacità di generare particelle virali in cambio di un trasporto “gratis” nei cromosomi dell’ospite fornendo all’ospite un acceleratore evolutivo.

A dimostrazione dell’importanza di queste sequenze nell’evoluzione umana, un articolo pubblicato recentemente su Nature in cui si correla uno di questi “salti” intragenomici delle sequenze Alu con il processo di perdita della coda nel primate diretto antenato degli umani.
Nota. Le sequenze Alu, prive della capacità di codificare per la trascrittasi inversa, si affidano a quella codificata da un altro trasposone noto come L1. Chiaramente per essere compatibili con una minima staticità genomica questi eventi non possono essere frequenti; si stima che compare un nuovo inserto Alu trasmissibile (quindi presente nelle cellule germinali) ogni 200 nascite.
**Le sequenze Alu (presenti unicamente nei primati) si calcola siano comparse 65 milioni di anni fa. In questo lasso di tempo sono aumentate da 1 copia a circa 1 milione di copie sparse nel genoma.
Come detto, la maggior parte di questi salti intragenomici non hanno avuto alcun effetto in quanto avvenuti in aree non codificanti (la maggior parte). Ogni tanto però capitava che non solo il salto avveniva dentro un gene ma in un esone, alterando (o distruggendo) la funzionalità di quel gene. Va da sé che se il gene aveva un ruolo cruciale, il salto “incauto” si autoestingueva. Uno di questi salti avvenne all’interno del gene TBXT, codificante per un fattore di trascrizione coinvolto  nello sviluppo della coda (nei topi mutazioni geniche causano la formazione di una coda corta).
La separazione tra primati con e senza coda

All’incirca 25 milioni di anni fa una sequenza Alu si integrò all’interno di questo gene causando la perdita dell’esone 6 e con essa una funzione alterata della proteina che pur rimanendo funzionale (la sua scomparsa provoca morte embrionale) ebbe come conseguenza la scomparsa della coda nella linea evolutiva che avrebbe portato a oranghi, gibboni, scimpanzé, gorilla e umani. La discendenza è stata verosimilmente in grado di sopportare tale deficit (rispetto a cugini arboricoli che necessitano della coda) in quanto linea già indirizzata verso una locomozione sul terreno

Fonte
- On the genetic basis of tail-loss evolution in humans and apes
Bo Xia et al, Nature volume 626, pages1042–1048 (2024)

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