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Il pesce ghiaccio vive bene dove per altri pesci è impossibile

Il pesce ghiaccio vive in un ambiente che è mortale per un qualunque altro vertebrato … eppure non sembra turbarsene più di tanto.
(credit: Hyun Park / uni-wuerzburg.de/)
Nell'Oceano Artico attorno al Polo Sud, la temperatura dell'acqua è di poco inferiore a meno due gradi (-2°C) per cui il sangue dovrebbe ghiacciare o almeno contenere cristalli di ghiaccio il cui effetto immediato sarebbe la rottura dei globuli rossi.
I pesci che lì prosperano (appartenenti alle famiglie Nototheniidae e Chaenocephalus) non hanno evidentemente di questi problemi; un mistero biologico che ha spinto alcuni ricercatori tedeschi ad occuparsi del caso studiando il DNA di un membro di queste famiglie, il Chaenocephalus aceratus.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Nature Ecology & Evolution.

In breve, la storia evolutiva di questi pesci risale ad almeno la fine del Pliocene (circa 3 milioni di anni fa) quando la temperatura superficiale antartica raggiunse valori non troppo lontani dagli attuali, ben lontani da un passato in cui il clima antartico era tale da permettere la vita di piante e grossi animali come i dinosauri.
In verità bisogna fare un salto ancora più indietro nel tempo fino alla fine del Cretaceo, circa 77 milioni di anni, per arrivare al punto di biforcazione tra questi pesci e l'antenato dei "cugini" spinarelli.

I pesci ghiaccio attuali hanno due caratteristiche: hanno sangue trasparente e sono privi di vescica natatoria.
I nototheniidi ancestrali avevano, come tutti i pesci, il sangue rosso (quindi dotato di proteine contenenti ferro necessario per il trasporto dell'ossigeno) ma i loro muscoli erano già privi delle mioglobine il cui ruolo (anche nei nostri tessuti) è quello di "strappare" l'ossigeno veicolato dalla emoglobina dal circolo sanguigno grazie alla maggiore affinità).
Erano privi di vescica natatoria, necessaria ai teleostei (pesci moderni) per variare la profondità di nuoto, "inutile" per animali che vivevano stabilmente sul fondale marino.

Quando, in un periodo intorno ai 10 milioni di anni fa la temperatura antartica si abbassò fino a poco sopra lo zero la selezione cominciò ad operare favorendo i pesci capaci di  occupare le nicchie ecologiche lasciate libere dagli altri pesci (per temperature non più compatibili con la sopravvivenza) e quindi ricche di cibo (crostacei e plancton sono abbondanti anche nelle zone perennemente buie sotto la banchisa antartica).

Tra i fattori che risultarono decisivi per vivere in questo ambiente vi fu la perdita dei globuli rossi (e con essi dell'emoglobina) con il risultato di un sangue virtualmente trasparente e "immune" alla emolisi causata dalla presenza di cristalli di ghiaccio. Chiaramente la selezione naturale non è portatrice di soluzioni miracolose, quindi in qualche modo la perdita del veicolo di trasporto dell'ossigeno poteva avvenire solo per l'esistenza di una soluzione alternativa (l'anossia non è una opzione fisiologicamente possibile per un vertebrato, data l'energia richiesta per sostenere il metabolismo sottostante).
Gli eritrociti non servivano più semplicemente perché a causa della maggiore solubilità dell'ossigeno nei liquidi alle basse temperature; in queste condizioni la saturazione di ossigeno dell'acqua marina (e quindi anche anche nei fluidi corporei) è così alta da non necessitare più di un trasportatore come l'emoglobina, e quindi dei globuli rossi, ma è sufficiente l'ossigeno disciolto nel sangue.
Per massimizzare l'efficienza del trasporto il volume del sangue nel pesce ghiaccio divenne due volte maggiore di quello presente in specie ittiche di dimensioni comparabili che vivono in ambienti meno estremi. Stessa spiegazione per l'aumento dimensionale del cuore e dei vasi sanguigni. A livello cellulare la soluzione fu l'aumento del numero delle "centraline energetiche", i mitocondri.

Ma un conto è cancellare il rischio di emolisi legato alla presenza dei cristalli di ghiaccio e un altro è il congelamento del sangue tout court. Un problema evitato grazie a speciali proteine glicosilate​​ che funzionano come un antigelo. Se da una parte le glicoproteine presenti sia nelle larve che nei pesci adulti impediscono la formazione del ghiaccio, altra innovazione decisiva si ebbe nella comparsa di un corion dell'uovo e delle proteine ​​della zona pellucida (entrambi circondano gli embrioni) resistenti al congelamento.
Tutti questi cambiamenti sono registrati nel DNA e sono evidenti nell'aumento nel numero di copie dei geni operanti nella protezione dei danni da congelamento e da quelli risultanti all'esposizione alla maggiore presenza di ossigeno circolante (più ossigeno nel sangue, maggiore presenza dei radicali liberi).
Mancano inoltre alcuni geni che regolano il ritmo circardiano (fondamentali negli altri vertebrati) per un semplice e duplice motivo: a quelle latitudini l'alternanza delle stagioni porta da giorni che durano settimane a notti altrettanto "infinite"; sotto i ghiacci perenni l'ambiente è praticamente sempre al buio, quindi alcune specie di pesci non hanno nemmeno la percezione del cambio della durata del giorno. Su quest'ultimo punto sarà necessario tuttavia fare approfondito sul comportamento dei pesci antartici.

Oltre all'interesse prettamente biologico per le soluzioni escogitate dalla natura per rispondere alle sfide ambientali (una frase che in effetti suona come lamarckiana ma che non è), i dati ottenuti dallo studio del pesce ghiaccio forniscono importanti spunti anche in campo biomedico. Alcune delle loro caratteristiche fanno pensare a situazioni presenti in malattie umane come nel caso di anemia completa o della osteoporosi
La ridotta calcificazione ossea è utile al pesce ghiaccio per ridurre la densità corporea, così da essere capace, pur in assenza della vescica natatoria a staccarsi dal fondo del mare e a nuotare.
 Comprenderne la biologia aiuterà così anche la clinica.


Fonti
- Antarctic blackfin icefish genome reveals adaptations to extreme environments
Bo-Mi Kim et al, Nature Ecology & Evolution (2019), 3, pp. 469–478

- Cool adaptations to the cold
Universität Würzburg / news / 2019

- How the Antarctic Icefish Lost Its Red Blood Cells But Survived Anyway
blogs.scientificamerican.com (2012)


https://www.uni-wuerzburg.de/en/news-and-events/news/detail/news/cool-adaptations-to-the-cold/
https://blogs.scientificamerican.com/brainwaves/how-the-antarctic-icefish-lost-its-red-blood-cells-but-survived-anyway/

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