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Il legame tra microbioma intestinale e autismo non è supportato dalla scienza!

Punto di partenza. Come dovrebbe essere emerso dai precedenti articoli apparsi su questo blog le cause dell'autismo sono ancora oggi poco comprese e la ragione è semplice e duplice:
  1. non esiste una singola malattia chiamata autismo ma uno spettro di manifestazioni anche molto diverse tra loro (da cui il termine corretto Autism Spectrum Disorder, ASD) che possono anche essere clinicamente evidenti.
  2. Vi è di sicuro una componente genetica ma data l'intrinseca eterogeneità dell'ASD è meno che improbabile che i geni coinvolti siano gli stessi per tutti pur ipotizzando (e di sicuro NON è così) che le mutazioni abbiano penetranza completa. Molto più probabile che vi siano molte concause (ambientali, sviluppo fetale, genetica, età genitori, etc) che in particolari combinazioni sinergizzano causando la (o meglio una delle forme della) malattia. 
L'unica ipotesi da escludere (perché non sostanziata da fatti, non per ragioni ideologiche) è quella del legame con il vaccino morbillo proposta qualche decade fa dal famigerato Wakefield che tanti danni ha fatto (vedi le recenti epidemie di morbillo in USA) anche una volta che si è dimostrato essere uno studio falsificato ritrattato dallo stesso autore anni dopo (radiato dall'ordine dei medici poi) 
L'ipotesi di cui si parla oggi è quella del legame tra il microbiota (insieme di organismi mentre l'abusato termine microbioma si riferisce al pool genetico di questi microbi) intestinale e l'ASD. In termini semplici (e per nulla banali) l'idea che alterazioni della flora intestinale in momenti critici dello sviluppo dell'infante possano avere un effetto sul cervello in formazione.
Ipotesi assolutamente non banale perché è noto il profondo effetto del microbiota non solo sulla nostra salute generale ma anche sull'insorgere di malattie che non sono localizzate nell'intestino. La definizione "intestino come secondo cervello" non è peregrina e si basa sul fatto che il microbiota agisce direttamente sul livello di serotonina nel corpo (il 90% della quale è prodotta nell'intestino) e come tale influenza la "mente" 
Il legame (anche se parziale) tra autismo e microbioma intestinale deriva dal fatto che molte persone con ASD soffrono di sintomi gastrointestinali. Inoltre, il recente aumento delle diagnosi di autismo ha portato alcuni a credere che tra le concause ci siano cambiamenti ambientali o comportamentali, sebbene le prove in tal senso siano poco solide e i dati relativi all'incremento delle diagnosi più il frutto di una maggiore consapevolezza e un ampliamento dei criteri diagnostici.

Ciò nonostante, molti studi hanno investigato questo legame confrontando i microbiomi intestinali di persone con e senza autismo, studiando modelli murini di autismo e conducendo studi clinici che coinvolgono persone con autismo. Studi contestati dagli autori di una nuova ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Neuron secondo i quali i metodi e i modelli usati per sostenere tale ipotesi erano imperfetti e poco convincenti.
Tra le critiche quella che gli studi in cui si confrontavano i microbiomi intestinali il numero di individui analizzati oscillava tra 7 e 43 individui per gruppo, quando le raccomandazioni statistiche richiedono campioni di migliaia di individui tranne nei casi di eventi rari (e l'ASD non lo è, per cui non c'era motivo di condurre studi con solo 20-40 partecipanti).
Al netto della povera forza statistica, c'è anche il problema dei diversi metodi usati nei vari studi per caratterizzare la composizione del microbioma, che rende difficile la comparazione dei risultati. Sebbene alcuni studi abbiano riscontrato differenze tra i microbiomi delle persone con autismo e quelli dei controlli, i risultati erano spesso contraddittori: ad esempio, alcuni studi riscontrarono una minore diversità microbica nell'intestino delle persone con ASD, mentre altri trovarono l'opposto. 
Consideriamo poi che alcune di tali differenze scomparivano una volta normalizzati per variabili chiave come la dieta, o confrontando il microbioma dei bambini ASD con quello dei loro fratelli o sorelle non malati.
La nuova metanalisi evidenzia non solo che non ci sono prove (ad oggi) del legame microbi intestinali-ASD ma, paradossalmente, ci sono prove più solide di un effetto causale inverso, in quanto l'autismo può influenzare la dieta di una persona, che a sua volta può influenzare il suo microbioma. 

Altro problema con i modelli murini di autismo in cui erano state trovate evidenze del suddetto legame. Tra i problemi principali, le differenze sostanziali di tipo comportamentale, cognitive e fisiologiche tra esseri umani e topi. Oltre a questo anche qui paiono esservi stati problemi nei metodi e nella statistica utilizzata per trarre le conclusioni a supporto del legame microbiota-ASD. 

Vero che vari studi clinici negli umani hanno testato l'ipotesi microbioma-autismo eseguendo trapianti fecali o somministrando terapie probiotiche a persone con ASD e monitorando poi i cambiamenti nelle loro caratteristiche (nota. Approcci rivelatisi utili per il trattamento di patologie come il colon irritabile ad esempio). Tuttavia anche qui il campione statistico è stato definito dagli autori come inadeguato e lo stesso vale per l'assenza in alcuni studi di controlli chiave o nell'assenza di randomizzazione.

In soldoni, la conclusione tratta dagli autori dell'articolo su Neuron è che non ci sono evidenze scientifiche a supporto del legame microbiota-ASD, nemmeno come concausa

Fonte
Conceptual and methodological flaws undermine claims of a link between the gut microbiome and autism
KJ Mitchell et al, (2025) Neuron


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Bastano 3 mila passi per rallentare il declino dell'Alzheimer

(Almeno) 10 mila passi al giorno è il traguardo ben noto a cui tanti di noi si focalizzano per mantenere il fisico in condizioni (cardiovascolari) ottimali anche senza andare in palestra.
Con l'età quello che sembra essere una soglia facilmente raggiungibile diventa più complicata da raggiungere specialmente se si soffre di altri problemi con il risultato di scoraggiare chi più ne avrebbe bisogno dal fare un minimo di attività fisica soprattutto pensando al vecchio motto mens sana in corpore sano.
Un nuovo studio dimostra che anche un ridotto (ma costante) numero di passi al giorno è utile per posticipare la comparsa dei sintomi della demenza anche quando nel cervello sono già evidenti tracce molecolari della malattia.

Nello specifico fare anche solo 3000 passi al giorno sembra ritardare di circa 3 anni  il declino mentale nelle persone il cui cervello ha iniziato a mostrare segni molecolari del morbo di Alzheimer, ma che non hanno ancora manifestato alcun sintomo cognitivo, rispetto a coloro che rimangono sedentari.
Aumentando la soglia a 7500 passi al giorno il declino mentale (in media) è posticipato di 7 anni.
Soglie maggiori sembrano invece non fornire rilevanti benefici aggiuntivi.

Dato che non stupisce visto che il primo effetto di mantenersi attivi è un diminuito rischio di malattie cardiovascolari rispetto a chi si muove il minimo indispensabile come passeggiate di pochi minuti. Se proprio non è possibile fare tanti passi al giorno è almeno importante che questi siano raggruppati in passeggiate lunghe.


Fonte
- Physical activity as a modifiable risk factor in preclinical Alzheimer’s disease.
The multifaceted benefits of walking for healthy aging: from Blue Zones to molecular mechanisms


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L'impianto retinico per recuperare (un poco) la vista persa per degenerazione maculare

Un impianto retinico di nuova concezione si è dimostrato utile per migliorare sensibilmente la vista in persone affette da avanzata degenerazione maculare legata all'età (AMD), la forma più comune di cecità incurabile negli anziani.
AMD è la forma più comune di cecità incurabile nelle persone anziane.
Ne esistono due tipi principali: umida (essudativa, meno comune ma più grave) e secca (non essudativa, rimane la visione periferica mentre quella centrale diviene meno acuta). Lo studio oggi descritto ha coinvolto pazienti affetti dalla forma secca la cui forma avanzata colpisce circa cinque milioni di persone in tutto il mondo. 
Ad essere danneggiate sono le cellule fotosensibili (coni e bastoncelli) mentre i neuroni retinici, deputati a convogliare il segnale elettrico alle regioni cerebrali deputate all'elaborazione visiva, non sono toccati. Questo spiega il senso di inserire un impianto per sostituire i sensori della luce e veicolare il segnale ai neuroni.
Impianto per forza di cose invasivo consistente nell'inserimento dello stesso appena sotto la retina dove sono localizzate le cellule fotosensibili danneggiate/morte alla base della malattia. I sensori lì posizionati ricevono le immagini catturate da appositi occhiali dotati di telecamera, e il segnale viene infine convogliato (mediante stimolo elettrico) ai neuroni retinici sopravvissuti.
L'impianto, denominato PRIMA (photovoltaic retina implant microarray), sviluppato da Pixium Vision  (oggi nota come Science Corporation) è wireless ed essendo fotovoltaico, i fotoni che lo attivano forniscono anche la fonte di energia per alimentarsi.
Gli occhiali con telecamera veicolano l'immagine all'impianto retinico sotto forma di un pattern a luce infrarossa
Risultato finale riacquistavano la capacità di distinguere le lettere e leggere parole. Si tratta chiaramente di primi passi nello sviluppo di una tecnologia che dovrebbe, nel futuro, permettere ai pazienti di recuperare una capacità visiva sufficiente per le attività giornaliere ma che per il momento è limitata e necessita di mesi di addestramento ai nuovi input visivi
L'impianto sottoretinico (a destra) misura 2x2 millimetri e ha uno spessore di soli 30 micrometri

I risultati sopra riassunti sono descritti in uno studio clinico, pubblicato sul New England Journal of Medicine, che ha coinvolto 38 persone con AMD avanzata in 5 paesi europei.
I dati mostrano che a distanza di un anno dall'impianto l'80% dei partecipanti mostrava un miglioramento clinicamente significativo della vista. Nonostante alcuni eventi minori correlati all'intervento il rapporto rischio-beneficio si è confermato positivo.


Fonte
- Subretinal Photovoltaic Implant to Restore Vision in Geographic Atrophy Due to AMD
Frank G. Holz et al, (2025) NEJM

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Vaccini contro il Covid e gli effetti (positivi) sulla sopravvivenza al cancro

Uno studio pubblicato su Nature suggerisce che i vaccini a mRNA contro il COVID-19 rendono le terapie antitumorali più efficaci.
Vero che con tutte le fufferie pubblicate oggi un tale risultato risulterebbe quantomeno sospetto ma il risultato non è in sé sorprendente proprio per il meccanismo d'azione del vaccino.
Proprio come il virus del morbillo è pericoloso non per la malattia che causa ma perché agisce spegnendo il sistema immunitario (rendendo l'organismo preda di microbi opportunisti) così i vaccini, e quello a RNA contro il COVID in particolare, agiscono stimolando la risposta immunitaria rendendo "visibili" bersagli prima poco immunogeni. E la immunoterapia antitumorale ne trarrebbe un beneficio indiretto.

Ma andiamo con ordine
Un primo articolo su questo effetto indiretto fu pubblicato dallo stesso team di ricercatori ad inizio 2025, studio basato sull'evidenza sperimentale che l'interferone 1 è in grado di massimizzare la risposta immunitaria e che i vaccini a RNA paiono attivare proprio questo tipo di interferone, evento che rende i tumori più "responsivi" al trattamento.
Il nuovo studio (pubblicato nelle scorse settimane) ha preso in esame i dati retrospettivi della sopravvivenza di pazienti (più di 1000) in terapia durante la pandemia che avevano ricevuto, nello stesso periodo, anche il vaccino, con studi condotti sugli animali di laboratorio per comprendere l''effetto indiretto del vaccino sulla terapia antitumorale.
I dati ottenuti hanno mostrato chiaramente che i pazienti che avevano ricevuto il vaccino a mRNA contro il COVID-19 entro 100 giorni dall'inizio dell'immunoterapia avevano una probabilità più che doppia di essere ancora vivi 3 anni dopo rispetto a coloro che non avevano ricevuto nessuno dei due vaccini (dati ovviamente normalizzati per i soli pazienti che non erano morti di COVID nel frattempo).
Nello specifico il gruppo vaccinato aveva un tasso di sopravvivenza globale a 3 anni del 55,7%, rispetto al 30,8% del gruppo non vaccinato, il che si traduce in una riduzione del 49% del rischio di mortalità associato al cancro.
Altro dato importante da menzionare è la terapia antitumorale di ultima generazione a cui tutti questi pazienti erano stati sottoposti era basata sugli inibitori dei checkpoint immunitari (ICI), che in termini semplici funzionano inducendo il proprio sistema immunitario a riconoscere e distruggere il tumore.
Uno dei meccanismi che spiega la resilienza dei tumori è che alcuni di questi si "nascondono" (letteralmente) dal sistema immunitario "spegnendo" le cellule immunitarie di pattuglia dando loro un falso messaggio che si traduce in "queste cellule sono ok. Nessun attacco".
Gli inibitori dei checkpoint consentono alle cellule immunitarie, come i linfociti T, di riconoscere ed eliminare le cellule tumorali in modo più efficace. Il problema è che questa terapia avanzata funziona solo per una frazione di pazienti in quanto alcuni tumori continuano a rimanere "invisibili" al sistema immunitario anche quando rafforzato.
I vaccini a mRNA danno una "scossa" al sistema che diventa ancora più efficiente nello scovare qualunque cosa sia anomala (dai microbi alle cellule malate).
Dato confermato dagli studi sugli animali che hanno evidenziato come tra gli effetti di questi vaccini vi sia una impennata nella produzione di interferoni di classe I, in particolare di uno chiamato interferone alfa. Incremento che induce una attivazione del sistema immunitario innato, che facilita il lavoro dei linfociti T nel riconoscere e attaccare gli antigeni associati al tumore. L'azione dei linfociti T in genere provoca una risposta difensiva da parte delle cellule tumorali che iniziano a produrre una molecola che agisce come un freno sul sistema immunitario; freno che però in questo caso viene reso inefficace dalla terapia con inibitori dei checkpoint immunitari.
Bisognerà ora capire come sfruttare questo sistema in modo che sinergizzi con ogni terapia antitumorale.

Fonti
- SARS-CoV-2 mRNA vaccines sensitize tumours to immune checkpoint blockade
Adam J. Grippin et al, (2025) Nature
- Sensitization of tumours to immunotherapy by boosting early type-I interferon responses enables epitope spreading.
Qdaisat S. et al. (2025) Nat. Biomed. Eng

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Dimezzati i casi di allergie (arachidi) nei bambini grazie alla dieta (con arachidi)

Non è una novità che, per motivi tuttora poco compresi, negli ultimi decenni si sia registrata una impennata dei casi di allergie tra i bambini.
Tra le ipotesi credibili vi è la cosiddetta ipotesi dell'igiene che vede come responsabile il fare crescere i bambini in ambienti poveri di allergeni quando il sistema immunitario sta ancora maturando
Tra le procedure preventive dimostratesi efficaci vi è l'esposizione precoce agli allergeni in modo da indurre tolleranza agli stessi. 
Risultati positivi vengono dagli USA dove l'allergia alle arachidi nei bambini sotto i tre anni sono diminuite del 43% dopo l'introduzione di linee guida in cui si raccomandava l'alimentazione con cibi contenenti arachidi dopo lo svezzamento. Linee guida derivate da uno studio in cui un campione di un centinaio di neonati era stati inseriti in studi clinici che prevedevano una dieta priva o contenente arachidi. Raggiunti i 5 anni i bambini che erano stati esposti al cibo con arachidi mostrarono una minore incidenza di allergie (alle arachidi) rispetto ai controlli la cui dieta non conteneva arachidi.

I dati recenti sulla popolazione infantile generale dimostrano l'efficacia delle linee guida

Fonti
Peanut Allergies Have Plummeted in Children, Study Shows

Guidelines for Early Food Introduction and Patterns of Food Allergy
Pediatrics (2025)

Randomized Trial of Peanut Consumption in Infants at Risk for Peanut Allergy
NEJM (2015)

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Approvato in USA nuovo test del sangue per (escludere) l'Alzheimer

La Food and Drug Administration (FDA, ente responsabile per l'approvazione di farmaci e test diagnostici in USA) ha approvato l'utilizzo di un test del sangue nella diagnosi (insieme ad altri parametri clinici) del morbo di Alzheimer.
Credit: Chiara Vercesi (Nature)
Non un primato in assoluto visto che c'è ne è già un altro in uso in clinica ma di utilizzo limitato ai soli addetti ai lavori (vedi anche articolo precedente).
Il nuovo test misura le proteine ​​correlate all'Alzheimer e serve principalmente come parametro negativo  per escludere la malattia in persone con declino cognitivo dovuto ad altre cause.
Il test è stato sviluppato dalla Roche e, secondo quanto affermato dall'azienda, si è rivelato in grado di escludere l'Alzheimer nel 97,9% dei casi di soggetti con declino cognitivo.

Fonte
Faster, cheaper, better: the rise of blood tests for Alzheimer’s
Nature (2025)
- Blood tests are now approved for Alzheimer’s: how accurate are they?
Nature (2025)

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