Il titolo è volutamente semplicistico ma ben riassume quanto scoperto sulla strategia evolutiva del plasmodio (il protozoo responsabile della malaria) per completare il proprio ciclo vitale e massimizzare la possibilità di diffusione.
Per comprendere appieno questo concetto è essenziale ripassare il ciclo vitale del plasmodio e la centralità della zanzara. La zanzara non è difatti un semplice vettore di trasporto tra un umano e l'altro ma un vero e proprio ospite obbligato.
Nota. Esistono all'incirca 3500 specie di zanzare suddivise in 41 generi. Solo alcune specie (circa 30 su 430) appartenenti al genere Anopheles sono potenzialmente in grado di trasmettere la malaria (vedi anche QUI).
Per una spiegazione semplificata del ciclo del plasmodio fate riferimento al link associato (credit: wikipedia) |
In estrema sintesi la zanzara ingerisce il parassita attraverso il pasto di sangue da un umano infetto; una volta entrato nell'apparato digerente dell'insetto il plasmodio può iniziare una nuova generazione di parassiti che migreranno verso le ghiandole salivari della zanzara e da qui verranno trasmessi all'essere umano "punto" in un successivo pasto. Lo stadio del ciclo vitale del parassita che transita da "uomo a zanzara" e da "zanzara a uomo" è totalmente diverso e quindi non intercambiabile. In altre parole:
- solo nella zanzara si possono formare gli sporozoiti, la forma del plasmodio in grado di infettare l'essere umano;
- solo nell'essere umano è presente lo stadio dei gametociti che può infettare la zanzara;
- non è possibile alcuna infezione diretta tra esseri umani
Quindi "no zanzara = no malaria"
Compreso questo punto è facile capire perché il plasmodio abbia assoluta necessità non solo di attrarre le zanzare sull'ospite infettato ma di farlo quando i gametociti sono presenti nel circolo sanguigno umano. La fase ideale è quella successiva alla febbre malarica, la cui periodicità (distinguibile in terzana, quartana, ...) è dovuta alla rottura "sincrona" dello schizonte e al rilascio dei gametociti.
La stessa zanzara non ha alcuna convenienza a portarsi in giro dei parassiti nel loro corpo, quindi è meglio per il plasmodio se riesce in qualche modo a richiamarla sull'ospite infetto.
Nota. Esempio opposto a quello tra zanzara e plasmodio lo si ha nel rapporto tra la mosca d'acqua (sandfly) e la leishmania, il protozoo che causa la leishmaniosi. Qui il protozoo agisce come un vero e proprio probiotico (in grado di conferire una protezione antibatterica) per la mosca che avrà quindi tutto il vantaggio ad ospitare il protozoo prima di trasmetterlo all'ospite animale (ivi compreso l'uomo).Per stimolare la zanzara ad un pasto infetto l'evoluzione ha "insegnato" ai plasmodi ad alterare l'odore chimico dei loro ospiti in modo da essere ancora più attraenti per la zanzara che transita nei pressi.
Identificare il segnale attrattore non è stato semplice, dati i diversi fattori potenzialmente coinvolti come l'anidride carbonica e la variazione di temperatura corporea. Il primo passo è stato quello di minimizzare il contributo di tali fattori grazie all'utilizzo di modelli murini e di estratti corporei da essi derivati. Il risultato ottenuto è chiaro: "un aumento generalizzato dei composti volatili emessi dall'ospite infettato e un fingerprint caratteristico" (figura). Il segnale di "richiamo" è maggiore nella fase interfebbrile, la fase in cui il numero di gametociti circolanti è maggiore.
Quali il vantaggi pratici di sviluppare un sistema in grado di percepire l'attrattività di un malarico per la zanzara? Il vantaggio è duplice:
- potrebbe essere usato come strumento diagnostico per identificare quella porzione significativa di individui infettati che sono sostanzialmente asintomatici.
- si può pensare di fornire ai malarici degli unguenti repellenti disegnati appositamente per contrastare l'odore attrattore. Meno soggetti infetti sono punti, minore la diffusività della malaria
Fonti
- Malaria parasite manipulates host's scent
PennState University, news
- Malaria-induced changes in host odors enhance mosquito attraction
Consuelo M. De Moraes et al, (2014) PNAS 111(30)
- CDC
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