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Le aurore su altri pianeti

Non è necessario essere andati oltre il circolo polare per conoscere lo spettacolo delle aurore boreali, il risultato dello “scontro” tra le particelle cariche del vento solare e lo scudo magnetico terrestre.
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credit:time.com
Per essere più precisi, il campo magnetico del nostro pianeta deflette queste particelle ad alta energia facendole “scivolare” oltre la Terra; a cascata si genera un fenomeno noto come riconnessione magnetica che fa sì che il plasma del vento solare penetri dentro la magnetosfera, interagendo con la parte più dell’alta dell’atmosfera terrestre (ionosfera) a cui cede protoni ed elettroni. Gli atomi atmosferici si eccitano e da qui originano le luci multicolori tipiche delle aurore.
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Ne consegue che il requisito primario per avere una aurora è avere un campo magnetico per cui Marte, che ne è privo, dovrebbe mancare anche di aurore.
In verità le ricenti osservazioni compiute in loco hanno mostrato la presenza di aurore riconducibili a cause diverse. Marte ha infatti una magnetosfera pur essendo priva di un campo magnetico proprio, essendo questa generata sia dall’interazione del vento solare con quello che rimane dell’atmosfera marziana, che dai minerali magnetici intrappolati nella crosta planetaria le cui particelle cariche non vengono dirottate ai poli come invece avviene sulla Terra. Il risultato sono mini aurore localizzate in specifiche zone magnetiche,
Le immagini catturate dalla sonda degli EAU giunta nell'orbita marziana ad inizio 2021

Nessuna sorpresa invece dai pianeti gassosi del sistema solare, dotati di una campo magnetico imponente seppur di origine diversa da quello terrestre.
Mentre nel caso terrestre l’origine del campo magnetico è da ascriversi al nucleo di ferro e ai moti convettivi che fungono da enorme dinamo, nel caso di Giove e Saturno si ritiene che questi siano causati dall'idrogeno nelle profondità del pianeta che data l'enorme pressione e temperatura si trasforma  in un conduttore elettrico.
Il risultato netto sono imponenti aurore ai poli, la cui intensità ha, come vedremo poi, origina dal materiale perso dalle loro lune. In proposito ci vengono in aiuto due studi appena pubblicati dall'università di Leicester (ma da team di ricerca diversi).

Giove
Le enormi aurore di Giove (mille volte più luminose di quelle della Terra) provengono da una fonte unica: la lava spaziale.
Image credit: NASA, ESA,  J. Nichols/University of Leicester
La luna di Giove Io è il corpo planetario vulcanicamente più attivo del sistema solare, la cui attività non origina dall'interno come sulla Terra ma dalle enormi forze mareali che Giove esercita sulla luna. I suoi oltre 400 vulcani attivi sparano regolarmente lava a decine di miglia di altezza, dove sotto forma di plasma vengono "catturati" dal potente campo magnetico gioviano venendo infine convogliati sui poli del pianeta. Lì, le particelle caricate elettricamente interagiscono con i gas nell'atmosfera per creare l'aurora.
O almeno questa era la teoria accettata da decenni. Il problema arrivò nel 2016 quando l'analisi dei dati della sonda Juno la mise in discussione in quanto non si rilevò traccia di correnti elettriche ai poli.
La teoria ha però ripreso ora il vecchio vigore quando i ricercatori inglesi hanno confrontato i dati sul campo magnetico e le relative correnti ottenuti da Juno con la luminosità delle aurore fatte dal telescopio spaziale Hubble. Dal confronto è emersa la correlazione tra le eruzioni vulcaniche della luna Io, le correnti elettriche nel campo magnetico di Giove e l'intensità delle aurore, dipingendo un quadro più complicato rispetto all'iniziale.
Il campo magnetico di Giove spinge inizialmente il plasma lontano dal pianeta, ma non sufficiente da sfuggire al campo magnetico che infine lo rallenta e lo trascina indietro lungo le linee del campo fino a "precipitarlo" sui poli dove entra in contatto con l'atmosfera superiore del pianeta.
Image credit: Emma Bunce, Stanley Cowley, Jonathan Nichols/Un. Leicester


Saturno
Saturno è l'unico tra i pianeti osservati le cui aurore ricevono un contributo determinante dai venti vorticosi dell'alta atmosfera, oltre che dalla magnetosfera e, come per Giove, dal materiale perso dalle sue lune (Encelado e forse Titano).
Immagine agli infrarossi di Saturno e della aurora. Foto presa dalla sonda Cassini.
Credit: NASA, Cassini, VIMS Team, Un. Arizona, Un. Leicester, JPL, ASI 
Nota. A differenza di Io che emette lava, il materiale espulso da Encelado sotto forma di "geyser" è in gran parte acqua con tracce consistenti di idrogeno, CO2 e metano.
I dati appena pubblicati dai ricercatori inglesi fanno luce non solo sulla genesi delle aurore di Saturno ma rispondono ad un problema nato dalle osservazioni delle sonda Cassini.
Gli strumenti su Cassini tentarono all'epoca di misurare il tempo di rotazione del pianeta gassoso misurando la periodicità delle emissioni nella banda radio prodotte dall'atmosfera. Il problema (e la sorpresa) si manifestò con la scoperta che tali misurazioni differivano sostanzialmente da quelle rilevate due decenni prima dalla sonda Voyager 2, transitata nei pressi del pianeta durante il suo viaggio verso i confini del sistema solare. Escludendo, per ragioni legate alla fisica planetaria, che si trattasse di una vera variazione della velocità di rotazione, bisognava capire il perché di tali differenze che doveva essere specifico di Saturno.
Il primo passo è stato misurare, mediante un telescopio alle Hawaii, le emissioni mensili nell'infrarosso da parte delle zone più esterne dell'atmosfera, mappando così i flussi variabili nella ionosfera. Le mappe sono state poi confrontate con le aurore polari, scoprendo così che una parte significativa di esse sono generate dal "meteo" locale, cioè da direzione e intensità del vento (tra 0,3 e 3 km/s) nell'alta atmosfera. Il meccanismo proposto è che i venti spingono la ionosfera a muoversi in modo altrettanto vorticoso e una volta raggiunta la circostante magnetosfera, guidano le correnti che producono l’aurora.
Un dato che spiega il perché le emissioni radio siano nel caso di Saturno del tutto fuorvianti per il calcolo della durata del "giorno planetario".
Nota. Un metodo affidabile di calcolo è stato sviluppato nel 2019 dai ricercatori della missione Cassini, sfruttando le perturbazioni indotte dalla gravità sul sistema di anelli di Saturno. Un giorno saturano dura 10 ore, 33 minuti e 38 secondi.
La scoperta, che risponde a due domande in un colpo solo, rende anche giustizia ad un nome (aurora boreale) il cui significato originario si era perso con la comprensione di come si formasse sulla Terra.
Il nome infatti era indicativo di "alba del vento del nord" ad indicare la (errata) correlazione con il vento. I dati arrivati da Saturno ci dicono ora che il termine è del tutto coerente almeno su quel pianeta.




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