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Ig-Nobel 2025. Premiato l'articolo italiano sulla cacio e pepe

Ogni anno torniamo agli articoli vincitori degli Ig-Nobel in quanto sempre interessanti. Del resto il premio, nato decenni fa all'università di Harvard, nasce proprio per segnalare una ricerca che "prima fa ridere, poi fa riflettere". 
Se ridere e poi riflettere è il tratto distintivo, quest'anno i partecipanti alla premiazione proveranno anche un certo languorino dato tra le ricerche premiate (categoria "Fisica") c'è quella sul come preparare la salsa perfetta per fare la pasta cacio e pepe, piatto romano per eccellenza.
 I ricercatori, tutti italiani sebbene afferenti a diversi istituti di ricerca in Europa, coordinati da Fabrizio Olmeda, fisico presso l'Istituto di Scienza e Tecnologia Austriaco (ISTA), si sono cimentati in questo compito frustrati dalla variabilità nella riuscita del piatto ogni volta che vi si cimentavano. Di fronte alla variabilità non restava che usare il metodo scientifico per creare una ricetta (in laboratorio lo chiameremmo "protocollo") affidabile.
Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Physics of Fluids.

Banalità? Non proprio. Preparare un sugo perfetto non significa solo mescolare i pochi ingredienti essenziali (pecorino, acqua di cottura della pasta, pepe), perché il risultato più comune sarà un sugo grumoso, simile alla mozzarella.
L'acqua di cottura della pasta (presente in ogni ricetta della cacio e pepe) serve a fornire l'amido importante per emulsionare e stabilizzare il sugo, ma da solo non è sufficiente. A temperature superiori a 65 gradi le proteine ​​del formaggio si denaturano e si aggregano, causando la disgregazione del composto.
Credit: Physics of Fluids (2025)

Per ottenere un sugo perfetto bisogna aggiungere all'acqua la giusta quantità di amido in polvere (2-3% del peso del formaggio) finché non diventa limpida e si addensa come un gel. A questo punto si mescola il gel con il formaggio a bassa temperatura in modo che l'amido si leghi alle proteine ​​e prevenga la formazione di grumi. Il pepe viene aggiunto alla fine prima di mescolare la pasta con il sugo direttamente nella padella (nel caso si può aggiungere altra acqua di cottura per ottenere la giusta consistenza).

Ricapitolando ecco la ricetta "perfetta"
  • 4 g di amido (di patate o di mais)
  • 40 ml di acqua (per amalgamare l'amido)
  • 160 g di Pecorino Romano
  • 240 g di pasta (preferibilmente tonnarelli)
  • Acqua di cottura della pasta
  • Pepe nero e sale (a piacere)

Effetti collaterali di questo articolo? Avvicinare al metodo scientifico anche chi con esso non ha familiarità.


Tra gli altri vincitori meritano una menzione Tomoki Kojima (cat. Biologia) per aver dimostrato che dipingere le mucche con strisce bianche e nere può impeedire alle mosch di pungerle senza bisogno di pesticidi, o all'olandese per avere osservato che bere alcol, a volte ti permette di migliorare la capacità di parlare lingue straniere (lista completa QUI)


Fonte
Phase behavior of Cacio e Pepe sauce
G. Bartolucci et alPhysics of Fluids 37, 044122 (2025) 
 
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I misteriosi "puntini rossi" visti dal JWST sono "stelle buchi neri"?

Rappresentazione artistica di un BH*
(© MPIA/HdA/T. Müller/A. de Graaff)
Nell'estate del 2022, dopo poco meno di un mese dall'entrata in funzione del telescopio spaziale James Webb (JWST), gli astronomi rilevarono nelle immagini catturate dalle profondità dello spazio dei piccoli puntini rossi la cui luce cadeva nel medio infrarosso, al di là della sensibilità di Hubble, il telescopio migliore fino ad allora disponibile.
Alcuni dei "piccoli puntini rossi" scoperti dal JWST
(Image: wikipedia)
Ulteriori dati mostrarono che questi oggetti erano distanti non meno di 12 miliardi di anni luce, quindi una luce originata circa 1,8 miliardi di anni dopo il Big Bang.
Ok. Nulla di strano se uno pensa che sono stati visti segnali risalenti a poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Tuttavia questi "puntini rossi" non erano catalogabili (per le caratteristiche spettrali) con nessuno dei modelli stellari standard.

Una delle prime interpretazioni fu che i piccoli puntini rossi fossero galassie estremamente ricche di stelle, la cui luce era resa rossa da enormi quantità di polvere circostante.
Nella nostra galassia, la Via Lattea, l'unica regione così densa di stelle è il nucleo centrale, che però contiene solo circa un millesimo delle stelle necessarie per spiegare - secondo il modello proposto - i puntini rossi. Altro problema è che l'elevato numero di stelle necessarie, pari a centinaia di miliardi di masse solari, poneva seri problemi di fattibilità in un universo così giovane.
In contrapposizione a questo modello, altri astronomi erano più dell'idea che i piccoli puntini rossi fossero nuclei galattici attivi oscurati da una ingenti quantità di polvere.
I nuclei galattici attivi sono ciò che vediamo quando un flusso costante di materia cade sul buco nero centrale di una galassia, formando un disco di accrescimento estremamente caldo attorno all'oggetto centrale.

La seconda interpretazione poneva  una serie di limitazioni dovute agli spettri e necessitava, per essere testata, di tempi di osservazione più lungo il che richiedeva occupare più slot di osservazioni tra quelli offerti a chi necessitava sfruttare il JWST. 

Tra i puntini rossi il più interessante (per le caratteristiche spettrali) di tutti era quello proveniente dal "puntino" soprannominato "The Cliff" distante 11,9 miliardi di anni.

The Cliff" prende il nome dalla caratteristica più evidente del suo spettro: un forte picco nello spettro che apparirebbe nella regione appena oltre la soglia del visibile nel violetto. "Apparirebbe" perché il nostro universo è in espansione quindi la lunghezza d'onda si allunga fino a quasi cinque volte il suo valore originale, il che indica spiega perché lo spettro osservato del Cliff non sia nell'ultravioletto ma nell'infrarosso ("redshift cosmologico").
Nessun modello stellare esistente si adattava a The Cliff, che assomigliava più allo spettro di una singola stella che a quello di una galassia con un buco nero.

Era necessario un nuovo modello che ha preso il nome di "stella buco nero" (BH*): un nucleo galattico attivo, ovvero un buco nero supermassiccio e il suo disco di accrescimento, circondato e arrossato non da polvere, ma da uno spesso involucro di idrogeno gassoso.
BH* non è una stella in senso stretto, poiché al suo centro non avviene alcuna reazione di fusione nucleare come al centro di una qualsiasi stella (e che fornisce energia radiante per sostenere gli strati superiori evitando di collassare in un buco nero). Inoltre, il gas nell'involucro deve "turbinare" molto più violentemente rispetto a qualsiasi atmosfera stellare ordinaria.
Fatte queste premesse la fisica di base di un BH* è simile: il nucleo galattico attivo riscalda l'involucro di gas circostante, proprio come il centro di una stella, alimentato dalla fusione nucleare, riscalda gli strati esterni della stella, quindi l'aspetto esterno presenta notevoli somiglianze.

"The Cliff" sarebbe un esempio estremo in cui la BH* centrale domina la luminosità dell'oggetto mentre la luce degli altri puntini rossi sarebbe una mix uniforme della stella buco nero centrale con la luce delle stelle e del gas nelle parti circostanti della galassia.

Se questa ipotesi (BH*) fosse davvero la soluzione, potrebbe avere un altro potenziale vantaggio. 
Sistemi di questo tipo erano stati precedentemente studiati in un contesto puramente teorico, con buchi neri di massa intermedia molto più leggeri. In quel contesto, la configurazione con buco nero centrale e involucro di gas circostante era vista come un modo per far crescere rapidamente la massa dei buchi neri centrali di galassie primordiali. Dato che il JWST ha trovato prove concrete dell'esistenza di buchi neri di grande massa nell'universo primordiale, una configurazione che potrebbe spiegare la crescita ultrarapida della massa dei buchi neri sarebbe un'aggiunta gradita agli attuali modelli di evoluzione delle galassie. 

Come può essersi formata una stella buco nero di questo tipo? Come può l'insolito involucro di gas essere mantenuto a lungo (su scala cosmica) visto che il buco nero divora il gas circostante e serve quindi un meccanismo per "rifornire" l'involucro? 
Per avere risposte serviranno altri dati e forse nuovi modelli

Fonte
A remarkable Ruby: Absorption in dense gas, rather than evolved stars, drives the extreme Balmer break of a Little Red Dot at z=3.5
Astronomy & Astrophysics, 701, A168 (2025)

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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


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Le prime tracce di vita multicellulare sulla Terra. Prove indiziarie da alcuni batteri odierni

L'origine (come, quando) della vita multicellulare sulla Terra è ancora oggetto di dibattito. Il consensus fa risalire l'evento a circa 1,2 miliardi di anni fa o secondo alcuni poche centinaia di milioni di anni prima.
La multicellularità non è una "curiosità" accademica ma è stato il volano che ha trasformato (letteralmente) il nostro pianeta da una luogo deserto in cui la vita germogliava solo in luoghi molto specifici (camini sottomarini) mentre tutto il resto era un deserto di rocce o acqua, in quello odierno. La multicellularità ha innescato una cascata di effetti che non ha portato solo a nuove forme di vita ma  nuove nicchie ecologiche e reti trofiche. Ha cambiato l'atmosfera terrestre, il ciclo del carbonio e la biogeochimica, guidando l'evoluzione. 
Un intervallo di tempo considerevole rispetto alla comparsa della vita sulla Terra, le cui tracce più antiche (e certe) risalgono a 3,7 miliardi di anni fa, visibili nelle stromatoliti trovate in Groenlandia.
Si ipotizza tuttavia che pur in assenza di evidenze fossili la Terra avrebbe potuto ospitare la vita a partire da 4,3 miliardi di anni fa.
Il passaggio tra cellule indipendenti alla multicellularità è verosimilmente transitato attraverso colonie di cellule (batteriche probabilmente) divenute con il tempo sempre più dipendenti dalla vita in gruppo fino a non potere più vivere singolarmente. Una teoria questa che va sotto il nome di Teoria Coloniale e che si basa sui vantaggi evolutivi acquisiti dal vivere a stretto contatto.
Passaggio successivo al vivere in comunità l'unione fisica tra almeno alcune di queste (a formare una sorta di sincizio dove il materiale genetico era tenuto separato pur all'interno di cellule unite, o come possibilità che non esclude la precedente, le singole cellule della colonia iniziarono prima a scambiarsi segnali chimici per poi assumere funzioni specializzate, come ad esempio la cattura del cibo in quelle più esterne. 

Oggi sono noti solo un tipo di batteri (unicellulari) il cui ciclo vitale avviene all'interno di gruppi che  si organizzano come organismi multicellulari. Si tratta dei "batteri magnetotattici multicellulari" (MMB) il cui nome deriva dalla capacità di usare il campo magnetico terrestre per muoversi e orientarsi. Mancano dati definitivi ma l'ipotesi corrente è che questi batteri presentino una multicellularità obbligata, non essendo stati trovati (o coltivati) come entità singole.
Immagine in falso colore MMB
(credit R. Hatzenpichler)
Il problema principale nello studiare i MMB è il non poter essere coltivati (almeno con le tecniche oggi note) in laboratorio, per cui i dati vengono dalla loro osservazione in. condizioni naturali.
Utile per la loro caratterizzazione uno studio appena pubblicato su PLOS Biology che indica come gli MMB siano più complessi di quanto ipotizzato.
Tra i dati emersi quello che le cellule MMB non sono del tutto identiche morfologicamente e che ciascuna possiede un patrimonio genetico leggermente diverso, dato che li differenzia sostanzialmente da altri batteri (chiaramente clonali) capaci di vivere in colonie come ad esempio i cianobatteri che formano le stromatoliti: mentre i cianobatteri possono sopravvivere individualmente, gli MMB no.

Dal sequenziamento del DNA di 22 colonie di MMB, si è dedotta l'esistenza di  8 nuove specie. La quantificazione della diversità genetica all'interno di ciascuna colonia ha rivelato che le cellule all'interno non sono clonali. 
Alcune cellule possiedono funzionalità specifiche che permette la sopravvivenza del gruppo. Colonie (o forse consorzi?) con un metabolismo di tipo solfato-riduttori mixotrofi.

Sappiamo che la multicellularità si è evoluta più volte durante l'evoluzione, come evidente dalla comparazione tra piante, animali e funghi.
Si riconoscono tre fasi generali in questa evoluzione: adesione cellula-cellula, comunicazione cellula-cellula, cooperazione, specializzazione e, almeno in alcuni casi, una transizione dalla multicellularità semplice a una multicellularità più complessa.
Il dibattito sugli MMB rimane aperto. Non tutti i ricercatori in effetti concordano sul fatto che siano veramente organismi multicellulari. Ci sono invero molte sfumature in questa definizione. La maggior parte dei biologi preferisce definirla multicellularità "semplice" o "primitiva". In questo senso, rappresentano un passaggio intermedio tra gli organismi unicellulari e gli organismi veramente multicellulari.
Fonte
Multicellular magnetotactic bacteria are genetically heterogeneous consortia with metabolically differentiated cells
GA Schaible et al, PLOS Biology (2024)

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